Vaganza

di Antonio Sparzani

il Po a Piacenza

Improvvisamente la strada del centro storico, la via Mazzini, si interrompe per diventare una scalinata, scende fin laggiù – qualche oleandro segna l’interruzione – niente più auto dunque e neanche biciclette, a meno di portarle a mano o di avere cerchioni e fondo schiena foderati di bronzo. Del resto, per andare laggiù, è un attimo, basta fare il giro per un altro paio di stradine.

È un buon momento per vagare pigramente e per raccontare due cose di questa sonnacchiosa città la domenica all’ora del pranzo, tutti sono a casa a mangiare gli anolini, no, non è un refuso, mica sono gli agnolini, no, senza la ‘g’, è una delle innumeri varianti del tortello, cappelletto, cappellaccio, agnolotto e via degustando, in questo paese ognuno pretende un suo modo di mescolare i carboidrati con le proteine, così come inventa un suo modo di aumentare la glicemia, per concludere degnamente il pasto.

Per le strade c’è poca gente dunque, qualche sportivo corridore che percorre le strade cercando di non guardarti, ansando appena, oppure uomini anziani, o anche ragazzi, che portano in giro un cane, no, non uno di quegli orrendi pitbulls senza museruola (non creda a quel che dicono, sa, è affettuoso come un barboncino…) che sbranano immediatamente i passanti ignari – quelli in bicicletta in particolare – e che invece zampettano in altri quartieri, più appartati, no, uno di quelli più innocui, se poi è così, pastori o, appunto, barboncini. Qui passano un po’ rasente ai muri, come se si vergognassero leggermente, ce l’avranno poi il sacchettino per i prodotti, ancorché biologici, delle loro bestiole, forse no, ma tanto nessuno dice nulla, la connivenza comincia innocuamente qui.

Poi ci sono le auto dei signori in ritardo, che devono passare per il centro in macchina – la domenica tanto si può – per affrettarsi, che gli anolini si freddano, e sono invece squisiti nel brodo ben caldo. Biciclette poche, la bici va bene nei giorni feriali, per andare in centro, la domenica si esce con la macchina, possibilmente lustra, una moderata ostentazione. Moderata sì, questa è una città moderata, un posto di confine. Non certo una vera città di confine, con un’anima di frontiera, per quello abbiamo Trieste, unica da questo punto di vista, con un’anima autenticata da tanti e tanti scrittori e poeti che hanno scritto e poetato a cavallo di quel confine illustre, anche se così spesso maltrattato e massacrato. No, qui il confine è un altro, non è neanche quello di regione, che pure è qui, sul Grande Fiume, piuttosto è un confine tra due anime, due diverse aspirazioni alla sopravvivenza, due modi di destreggiarsi, stavo per dire sgomitando, nel mondo.

L’una è quella più antica, più radicata nel territorio qui intorno, quella dell’agricoltore conservatore e piccolo affarista, che tende ad accumulare più terra possibile, residuo non tanto inconfessato di mentalità latifondista, perché oggi, guardi, ormai è così purtroppo, con poca terra nessuna bocca si sfama, e poi le fattorie devono attrezzarsi, attirare gente coi bambini, mi raccomando, i bambini, a visitare e assaggiare, con la vendita dei soli prodotti del campo non si campa. È l’agricoltura conservatrice che d’altro lato teme le novità tecnologiche, lasciamo che prima le provino gli altri, e poi, se vedremo un buon risultato, le adotteremo anche noi.

D’altra parte spira il vento del triangolo industriale, ai cui margini si cerca appunto di industriarsi, schiacciando l’occhio ai magnati della Grande Città, per i quali questa zona può garantire un’oasi di extraterritorialità tranquilla, ma garantendosi contemporaneamente un’autonomia di manovra che riesca a far fare ad amministrazioni dalla faccia pulita operazioni edilizie silenziose e non proprio immacolate.

L’autonomia non va lontano, naturalmente, a poche decine di chilometri da qui, ai bordi della provincia, c’è già chi paga il pizzo, così, senza tanti complimenti, nel profondo nord, sano e lavoratore.

Andando in giro leggermente per le strade della domenica – c’è un freddo sole di novembre, ma si sta ancora bene sulle panchine di piazza Duomo, c’è ancora qualche anziana signora con un sorriso da lucertola – non si ascoltano storie, ma si ha tempo di farsi girare nella testa le storie che ti hanno raccontato giusto il giorno prima e che un po’ alla volta sembra ti avvolgano in una rete vischiosa: se la strappi in un posto, si ricuce dall’altro.

Le edicole stanno chiudendo, faccio a tempo ad arraffare un paio di giornali, la domenica il Sole è quasi d’obbligo per tenersi aggiornati – si fa per dire – sui libri che escono. Mi colpisce la doppia manchette del Sole: “Mein Führer, la veramente vera verità su Adolf Hitler, dal 23 novembre al cinema”, e chissamai, forse ci racconteranno qualche suo lato simpatico, oppure così feroce da essere, ormai, attraente.

2 COMMENTS

  1. Andando in giro leggermente…

    Mi sa che non è qui di moda.
    E’ vacante la vaganza.
    Tutti “proni sul fatturato”.

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antonio sparzani
antonio sparzani
Antonio Sparzani, vicentino di nascita, nato durante la guerra, ha insegnato fisica per decenni all’Università di Milano. Il suo corso si chiamava Fondamenti della fisica e gli piaceva molto propinarlo agli studenti. Convintosi definitivamente che i saperi dell’uomo non vadano divisi, cerca da anni di riunire alcuni dei numerosi pezzetti nei quali tali saperi sono stati negli ultimi secoli orribilmente divisi. Soprattutto fisica e letteratura. Con questo fine in testa ha scritto Relatività, quante storie – un percorso scientifico-letterario tra relativo e assoluto (Bollati Boringhieri 2003) e ha poi curato, con Giuliano Boccali, il volume Le virtù dell’inerzia (Bollati Boringhieri 2006). Ha curato anche due volumi del fisico Wolfgang Pauli, sempre per Bollati Boringhieri e ha poi tradotto e curato un saggio di Paul K. Feyerabend, Contro l’autonomia, pubblicato presso Mimesis. Ha curato anche il carteggio tra W. Pauli e Carl Gustav Jung, pubblicato da Moretti & Vitali nel 2016. Scrive poesie e raccontini quando non ne può fare a meno.