Bestie
di Linnio Accorroni
Una città come questa
non è per viverci, in fondo: piuttosto
si cammina vicino a certi muri,
si passa in certi vicoli (non lontani
dal luogo del supplizio) e parlando
con la voce nel naso
avidi, frettolosi si domanda: non è qui
che buttavano i loro cartocci gli untori?
G. Raboni
Siamo più o meno una quindicina. Colti, benestanti, tolleranti e democratici, ben vestiti e profumati: uomini e donne, tra i diciotto e i cinquanta. Abbiamo belle auto, ci piace mangiare bene. Siamo appassionati di letteratura, cinema, musica, teatro. Ci riuniamo, una volta per settimana, per parlare di libri o per vedere insieme un film: siamo gentili, raffinati, educati anche negli interventi. Aspettiamo pazientemente il nostro turno, attendiamo che il nostro interlocutore finisca di parlare e riflettiamo, con lucida passionalità, sulla bontà delle idee altrui. Se ci capita di sovrapporre la nostra voce a quella dell’altro, è per un eccesso di fervore, non per emulazione della rissa televisiva che tutti vituperiamo. Il centro polivalente che ci ospita è posto appena fuori dalle mura cittadine: ha volte larghe e ampie, un soffitto arcuato e alto, con grandi simmetriche finestre che s’abbeverano di luce e inquadrano fotogrammi di un paesaggio che conserva ancora qualche precaria traccia di una bellezza primigenia, non del tutto devastato dalla cementificazione e dall’asfalto. Se voltiamo lo sguardo ai lati possiamo vedere, infissi a distanza regolare, degli anelli di ferro: lì le bestie da macello venivano legate prima dell’esecuzione finale. Lì, legate com’erano, potevano contemplare ciò che stava accadendo ai loro simili e ciò che sarebbe loro accaduto, in un breve giro di tempo: una pausa di pochi secondi o di pochi minuti attendendo il loro turno, fra un massacro e l’altro. Se alziamo la testa verso il soffitto, vediamo ancora i buchi a cui erano attaccati i ganci: lì, le bestie venivano appese dopo l’esecuzione. Immagino i loro occhi spalancati e acquosi, la bava bianca, ai lati della bocca, irta di piccole bolle, la puzza degli enormi escrementi, il sangue, i muggiti, il dolore, la ferocia, il massacro, l’impassibile freddezza dei volenterosi carnefici. C’è una sequenza, reperibile in rete, di un vecchio film di Fassbinder, Un anno con 13 lune, che sa evocare, con tutte le limitazioni della riproducibilità tecnica, questa scena infernale. Manca la puzza, per esempio, che deve essere stata terribile. Viene in mente quella riflessione di Horkheimer che spiega come la ricchezza, la raffinatezza e la boria di chi vive all’ultimo piano del grattacielo e può godere della pittura di Veronese o di un quartetto d’archi mozartiano o di una bella vista sul cielo stellato, si basi essenzialmente sullo sfruttamento schiavistico di quell’umanità umiliata e offesa che abita nei piani sottostanti. Lì, più sotto, i coolies della terra crepano a milioni per permettere l’esistenza di coloro che vivono all’ultimo piano. Ma più sotto ancora, nelle cantine di quel grattacielo, regna e si replica indisturbata “l’indescrivibile, inimmaginabile sofferenza degli animali, l’inferno animale nella società umana, il sudore, il sangue, la disperazione degli animali…”
Come ci spiega lo storico Enzo Traverso, nel suo saggio La violenza nazista. Una genealogia, la razionalizzazione dei mattatoi avvenne nella seconda metà dell’800: se prima infatti erano situati dentro la città, nel suo cuore (un tempo, nella macellazione, la dimensione del sacrificio e della festa si fondevano inestricabilmente: la carne significa un provvisorio congedo dalla miseria e dalla fame), a partire dal XIX secolo vennero collocati extra moenia, concentrati e ridotti, basati su di un funzionamento che assomigliava a quello della razionalizzazione tayloristica della fabbrica: concentramento nelle stalle, ammazzamento, svisceramento, recupero e trattamento dei resti. Lo scrittore americano Upton Sinclair, aggiornando Weber, scriveva nel suo La giungla che i mattatoi di Chicago erano “come il Gran Macellaio: l’incarnazione dello spirito del Capitalismo”. Il carattere metodico e pianificato del dispositivo di ammazzamento, l’organizzazione geometrica e ultrarazionale dello spazio, l’intuizione tragica che i morituri fossero costretti a vedere ciò che sarebbe stato di loro di lì a poco (un’anteprima crudele e angosciosa che nessuna ‘logica produttiva’ giustificava), ci porta direttamente dalle parti di quei macelli per esseri umani, che erano i lager nazisti. Anch’essi, del resto, come i mattatoi, dovevano essere lontani dagli sguardi della gente, anch’essi erano segmentati in varie tappe nettamente distinte: concentramento, deportazione, spoliazione dei beni delle vittime, recupero di alcune parti dei loro corpi, massificazione e cremazione dei cadaveri che somigliavano, nella concentrata efficacia di una rigida scansione, al percorso pianificato e allucinato di morte che veniva realizzato nei mattatoi.
La settimana scorsa, un giorno dopo l’altro, sullo stesso quotidiano (“Il Corriere della Sera”), due grandi firme del giornalismo e della cultura italiana hanno parlato, con toni di empatica condivisione, della sofferenza animale: prima Raffaele La Capria, prendendo spunto da un libro di Margherita d’Amico (La pelle dell’orso, Mondadori), poi Claudio Magris, il 16 novembre. In quest’ultimo caso il libro era Un po’ di compassione di Rosa Luxemburg, un Adelphi che, oltre alla lettera scritta dall’autrice poco prima di venire ‘giustiziata’, racchiude altre testimonianze e riflessioni di scrittori sul dolore animale. Curioso il lapsus riportato nel titolo che campeggia sull’articolo di La Capria: “Se l’umanità diventa bestiale”. Un classico esempio di rovesciamento antropocentrista in cui, nonostante il contenuto dell’articolo dimostri esattamente il contrario, al mondo animale continuano a essere attribuite quelle caratteristiche di ferocia insensata, di crudeltà folle e smisurata, di sadico voyeurismo che sono nostra esclusiva e non degli animali.
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eccellente testo
L´umanità, siamo la barbarie della civilizzazione oppure la civilizazione della barbarie?
Vi amo, figli di puttana. Voi siete i soli che leggo, ormai. Voi siete i soli che parlano dei cambiamenti veramente terribili che sono in corso, voi siete i soli abbastanza pazzi per capire che la vita è un viaggio spaziale, e neppure breve: un viaggio spaziale che durerà miliardi di anni. Voi siete i soli che hanno abbastanza fegato per interessarsi veramente del futuro, per notare veramente quello che ci fanno le macchine, quello che ci fanno le guerre, quello che ci fanno le città, quello che ci fanno le idee semplici e grandi, quello che cí fanno gli equivoci tremendi, gli errori, gli incidenti e le catastrofi. Voi siete i soli abbastanza stupidi per tormentarvi al pensiero del tempo e delle distanze senza limiti, dei misteri imperituri, del fatto che stiamo decidendo proprio in questa epoca se il viaggio spaziale del prossimo miliardo di anni o giù di lì sarà il Paradiso o l’Inferno (preso da Dio la benedica, signor Rosewater)
Kurt Vonnegut si salvò durante il bombardamento a tappeto di Dresda poiché rinchiuso in una grotta ricavata sotto il mattatoio della città normalmente utilizzata per l’immagazzinamento della carne: che sia anche per noi un’opportunità di salvezza?)
Ti saluto Linnio, prima o poi romperò l’incantesimo e riuscirò a tornare di giovedì sera.
i versi di Ivano Ferrari, Macello, Einaudi 2004.
Sì, ma mi domando: perché l’antropocentrismo ci porta ad attribuire la nostra maggior ferocia a un presunto «côte» bestiale? Forse a causa dell’abbaglio di varia matrice per cui l’uomo sarebbe un essere fondamentalmente buono? O a causa di un qualche deprecabile rimozione culturale? O è la stessa cosa?
In ogni caso di fronte a certe pratiche la mia ragione, che pure è la ragione contraddittoria di uno che si nutre anche di carne animale, fa cilecca.
Leggo sempre molto volentieri gli scritti di Linnio Accorroni, secondo me quanto di meglio NI abbia da offrire.
P.S. Luxemburg, non Luxembourg.
Forse si definisce “bestiale” qualcosa di aberrante, perché gli animali sono comunemente considerati privi di ragione e all’uomo pare che le efferatezze debbano essere frutto di un cedimento o appannamento di questa facoltà. Tuttavia, spesso i maggiori scempi della storia sono stati accuratamente progettati e sarebbe sciocco pensare che questo minuzioso lavoro potesse prescindere dal patrocinio della ragione.
E’ un articolo sottile perché il linguaggio illustra questa vista antropocentrista. In letteratura il paragone animale è sempre deprezzamento “orca, asino, vaca.” Quale parte animale in io. Vedo una vaca e vedo la mia somiglianza: corpulenza e aria stupida, assenza di delicatezza; ma in realtà appico la mia propia stupidità a un animale che non conosce bellezza e intelligenza: vive la sua vita animale, punto e basta.
caro livio,
qualche giorno fa ho visto un servizio, in un qualche tg, dove i veronesi rispondevano scandalizzati e stanchi per la gran messe di extracomunitari che affollava la stazione e altri luoghi “ameni” della capoluogo veneto con vuitton taroccate e altro.
poiché anche i cosiddetti vucumprà rispondono alle leggi del mercato, non è difficile argomentare che, se sono lì, qualche cazzo di veronese che acquista la merce ci sarà pure, no?
lo stesso dicasi per le puttane. e per altre cose. e per ogni posto.
dove vado a parare: che nessuno può mostrarsi nauseato e schifato per le mattanze bovine, ovine, suine (ma pure ittiche) etc. se poi non disdegna un bel piatto di carne. filetto, solitamente.
e senza avere nelle narici quella puzza di sangue misto a bolo e merda che alcuni, io per esempio, conoscono bene.
(ad personam: avevo intenzione di scrivere su “aleph” proprio di come ci si rapportava, da ragazzi, a queste situazioni. accelererò).
ciao,
=®@Nn+’ (means “franti”)
[…] continua su nazioneindiana […]
L’antropocentrismo sarà pure un paratotalitarismo moderno. Ma che dire di quelle mail che circolavano qualche settimana fa tipo catena di sant’antonio, dove mittenti e destinatari si dolevano assai e denunciavano coraggiosamente la barbara pratica cinese di scorticare cani vivi? quegli stessi mittenti e destinatari che sorvolano annoiati (il gustoso incipit di Accorroni li rappresenta al meglio) la repressione della libertà individuale, le fucilazioni e le esecuzioni a colpi di pietre in testa, testa di essere umano, uomo e donna, carne e ossa? Che non sia venuta l’ora di riantropocentrizzarsi un po’?
Però la puzza di sangue, bolo e merda la sentono (e la causano) anche gli splendidi leoni. Devo dire che più che il macello – che in fondo non persegue, nel suo progetto, la tortura dell’animale ed è forse, nel suo progetto, meno indifferente alla sua sofferenza di un carnivoro qualsiasi – mi danno angoscia certe condizioni di allevamento e di trasporto. E poi molte volte nelle “calde” istituzioni arcaiche che nell’articolo vengono contrapposte alla “fredda” razionalità moderna, si trovano esempi di incredibile crudeltà verso gli animali (si veda certo folklore spagnolo – e non mi riferisco alla corrida). Condivido comunque, se non l’impianto concettuale, il sentimento generale del testo.
elio-c, ti assicuro – per esperienza diretta – che la crudeltà e la sofferenza all’interno di un macello sono difficilmente raccontabili e, se non nel progetto, un macello persegue la tortura nella sua applicazione, il che è lo stesso a mio modo di vedere. Vero quanto dici nel seguito del commento, e condivido.
Resta quello che scrive The O.C.. Condivido anche in questo caso. Ma credo si può (si deve) parlare della sofferenza inflitta agli animali come di quella inflitta da essere umani a esseri umani. L’una esclude l’altra?
Vi consiglio caldamente i libri di Peter Singer, un modo per ordinare e strutturare riflessioni a riguardo.
Davvero interessante e tagliente l’articolo.
Vi consiglio Peter Singer.
La domenica a casa si mangia pollo. Questa mattina sono sceso nel pollaio, ne ho scelto uno di tre mesi, già “fatto”, gli ho tirato il collo. Poi me lo sono spiumato con acqua bollente, l’ho aperto, ne ho tolto le interiora e con un coltello ben affilato l’ho fatto a pezzi. Come mi ha insegnato mio nonno, come ho sempre visto fare da mio padre. Non mi sento in colpa, nemmeno un po’… credo che il problema sia nel metodo, nelle macellazioni di massa fordiste come ho ben letto qui da qualche parte, nell’acquistare pezzi di cadavere animale avvolti in polistirolo e celophan e cibarsene. I pulcini che ho acquistato i primi di agosto, invece, li conosco ad uno ad uno, e tutte le mattine appena mi sveglio, ancora prima di far colazione, gli do da mangiare: gli scarti dell’orto e quelli vegetali della cucina, le briciole di pane che Valeria non butta mai quando si sparecchia tavola e un secchio di sabbia, fondamentale, l’acua fresca del pozzo. Imparano a riconoscere anche il mio passo, quando mi avvicino a loro. Credo amino la loro vita tanto quanto io amo la mia, pollo in una gabbia di scintillanti luci e colori. Ogni volta che uccido un animale del mio cortile sento di avere molte cose in comune con lui, ma non mi faccio alcuna domanda. La vita attraversa entrambi: passa veloce, e in silenzio.
errata corrige, riga 13
“acqua” e non “acua” :-)
Pelle sangue e cervello. L’atto di donare il sangue ti buca la pelle e si fa con cervello. Ne lascerei una minima percentuale in funzione, sul macello. Inconsapevoli che offrono sangue, mentre langue il loro cervello. Alle volte mangiamo anche quello. Tra muggiti, carne e montagne di sterco proviamo ad aprirci un varco. Spesso siamo ciccia di porco, in ognuno di noi c’è un po’ di orco. Sono tanti, li alleviamo, diamo loro da mangiare. Quando poi li amazziamo, nulla, di essi è da sprecare. A rito finito, in tutta onestà, è un demente silenzio a dover restare. E a dir la verità, nel centro polivalente ancora qualche lamento, si sente.
@stefano calosso
“La vita attraversa entrambi: passa veloce, e in silenzio”.
ok.
ma poi sei tu che tiri il collo al pollo.
e non il pollo a te.
e se ami paragonarti a un “pollo in una gabbia di scintillanti luci e colori”, tuttavia nessuno la domenica ti cerca per tirarti il collo.
non è che non veda alcune insanabili contraddizioni tra il gusto e la sostanza delle proteine e il torturare e l’uccidere animali, però non occorre ammantarsi di falsa coscienza: possiamo tranquillamnte dirci che gli imperativi etici che applichiamo tra noi ominidi, li ignioriamo con gli animali e questo col placet del pensiero giudaico/cristiano.
intanto il sangue animale scorre a fiumi alle periferie delle nostre città: almeno saperlo, dirselo.
ignoriamo
@ Tashtego
l’uomo ha il suo posto nella natura, così come il pollo. Siamo attori sul palcoscenico della vita, in un rapporto di forze e pulsioni che non siamo stati noi a scegliere, tanto quanto non abbiamo scelto di venire al mondo. In questo post viene illustrato benissimo come l’uomo abbia stravolto l’equilibrio di queste suddette forze e pulsioni.
“ma poi sei tu che tiri il collo al pollo.
e non il pollo a te.”
scusa, ma non ti seguo: non vedo che senso possa avere applicare categorie di “democrazia” al rapporto uomo/animale quando sappiamo benissimo il potere enorme e devastante di cui l’uomo dispone nei confronti non solo degli animali ma del mondo intero. Applicherei piuttosto le categorie della responsabilità, in questo rapporto. Gli animali e la natura non conoscono la democrazia e soprattutto non la applicano: qui forse sta la “falsa coscienza”.
e se ami paragonarti a un “pollo in una gabbia di scintillanti luci e colori”,
non lo amo particolarmente. È la triste realtà. Puoi dimostrarmi il contrario?
tuttavia nessuno la domenica ti cerca per tirarti il collo.
sicuro, nessun pollo. Ma anche anche gli uomini conoscono i loro mattatoi: e noi tutti siamo qui nella parte dei macellai (ti risparmio l’elenco…)
Grazie per gli spunti, approfitto dell’occasione di questo breve scambio di battute per esprimerti i miei complimenti per l’intelligenza che contraddistingue i tuoi commenti, qui su NI, che leggo sempre con interesse.
A presto
@tahtego e stefano calosso
una persona che non si fa alcuna domanda mentre tira il collo ad un pollo nemmeno si ammanta di falsa coscienza. quel che è singolare è che stefano calosso, affermi che i tuoi pulcini amano la loro vita come tu stesso ami la tua. è sicuramente colpa della vita condominiale, ma non ho capito.
Nutrirsi di proteine animali non è necessario, anzi è dannoso. Trovo che sia un’usanza poco intelligente e primitiva, nonché estremamente crudele nei confronti di esseri senzienti, che provano paura e dolore esattamente come noi.
Sono milioni gli animali che l’uomo fa nascere, tiene in vita in condizioni terribili, tortura e mutila, prima di ucciderli e cibarsene, utilizzando anche i loro prodotti.
Gli animali carnivori non hanno scelta, sono costretti ad uccidere per sopravvivere. I frugivori, come voi e me, tradiscono la loro natura nutrendosi di proteine animali.
Mangiare animali e i loro prodotti è tradizione, uso diffusissimo, ma questo non significa che sia la cosa più intelligente, più giusta da fare. Noi possiamo scegliere, scegliere un mondo diverso e un diverso rapporto con la natura e gli animali.
Ho comprato il libricino della “Biblioteca minima” Adelphi. Molto toccante la lettera della Luxemburg, specie verso la fine quando, descrivendo il bufalo ferito scrive: “Oh mio povero bufalo, mio povero amato fratello, ce ne stiamo qui entrambi così impotenti e torpidi e siamo tutt’uno nel dolore, nella debolezza, nella nostalgia”. E’ evidente che la Luxemburg in quel caso attribuisce al bufalo una percezione del dolore molto umana, e dunque inverosimile. Chiunque abbia letto “L’anello di Re Salomone” di Konrad Lorenz – specialmente i due bellissimi capitoli “Pietà per gli animali” e “Armi e morale” – sa che è erroneo attribuire gli stessi parametri umani agli animali di altre specie. L’uomo non ha sviluppato le inibizioni innate che nelle altre specie animali sono funzionali alla conservazione della specie. La specie umana può far affidamento quasi esclusivamente sulle inibizioni di carattere culturale e sociale. Ed è proprio per questo motivo che l’argomentazione per cui la specie umana può fare quello che vuole delle altre specie si indebolisce. Perché la nostra cultura moderna ha acquisito una consapevolezza planetaria della vita, che comprende dunque tutte le specie che abitano questo pianeta. L’inibizione sociale e culturale che ci dovrebbe spingere a non uccidere un nostro simile, ci dovrebbe nella stessa misura rendere sensibili alla distruzione di qualsiasi altra forma di vita. (Sappiamo, purtroppo, tristemente, che non è così). D’altra parte, dal punto di vista dell’alimentazione, le nostre conoscenze scientifiche ci consentono di sviluppare delle valide, e anche più salutari, alternative al consumo di carne di altre specie.
Il commovente brano della Luxemburg era invece un pretesto, o una figura retorica, per parlare della sua triste condizione, portando il discorso su un piano assoluto e dunque etico. La Luxemburg parlava al bufalo ferito come Carducci parlava coi suoi cipressetti.
la vita è davvero dura
e anche stasera che ho mangiato con appetito un petto di tacchino, vado a letto col mio senso di colpa.
non se ne può più.
la gente muore giorno dopo giorno per i sensi di colpa, certo è che gli animali non se la passano bene, ma noi umani quasi peggio.
ho molto apprezzato
baci
la funambola
Eppure ho l’impressione che il dolore del bufalo ferito sia molto simile a quello che proverei io portando ferite analoghe. Probabilmente mancherebbe la verbosa e filosofica angoscia per la propria unica ed irripetibile vita che se ne sta per andare, ma a livello di dolore “fisico” (che talvolta è così lancinante da non lasciare spazio a null’altro) ebbé: quando un’animale che ha sostanzialmente i nostri stessi nervi ed apparati urla di terrore e di dolore, penso sia identico a ciò che saremmo noi nel medesimo frangente. Quindi non mi sembra valida la similitudine con il cipressetto.
Tirare abilmente il collo ad un pollo che si sia allevato in condizioni decenti (e non nei lager attuali) non mi comporterebbe alcun senso di colpa: la sua vita e la sua fine sarebbe quasi migliore di quella che incontrerebbe in uno “stato di natura”. Ma se Stefano insegnasse ai suoi figli ad approfittare della circostanza per giocare un poco con il pollo vivo, uccidendolo penosamente a pedate, allora il quadro per me cambierebbe. Sto comunque parlando di “sentimenti”, dunque di qualcosa che non posso pienamente “giustificare” (addestrare i figli alla crudeltà può avere valori “adattativi” entro specifici contesti).
A livello razionale ci sarebbe da aggiungere che un moderato consumo di proteine animali ci evita di ingolfarci di alimenti sostitutivi: è più pratico e veloce, oltre che più piacevole (vedi “Buono da mangiare” di Marvin Harris).
@Antonio: temo tu abbia ragione, anche se preferivo di no. Ricordo, in un racconto di Olivers Sacks, la vicenda di una donna autistica che usava le sue doti “compensative” (talvolta correlate a tale condizione) nella progettazione di macelli che minimizzassero la sofferenza degli animali Mi piaceva sperare che questi progetti avessero incontrato un successo mondiale.
@ elio, ho pensato anche io a Oliver Sacks e a quel brano. Risvegli ho finito di leggerlo qualche settimana fa. C’è moltissimo dentro quel libro.
antonio
articolo self explaining.
ke dire di piu…
forse una riflessione
forse un cambio di alimentazione
forse l uomo non ha capito di n o n essere il centro dell universo
…. forse …
ciao a tutti
v
Per la funambola. E’ facile non avere sensi di colpa: quando fai la spesa, invece del cadavere di un pollo morto ammazzato, metti nel carrello dei legumi, magari le bibliche lenticchie, che valgono una primogenitura. Avrai la soddisfazione di non avere nel tuo frigo, nella tua cucina, nella tua casa sangue, terrore, sofferenza e morte.
Per elio-c: Non ho capito cosa vuoi dire con “stato di natura”. Molte specie di animali che alleviamo sono il risultato di una selezione forzata e probabilmente si estinguerebbero se lasciati liberi. Se con “stato di natura” intendi i loro lager, credo che nessun animale, come noialtri umani, gradisca essere privato prematuramente della vita. Io non credo che l’uomo, solo perché dotato di pollice opponibile e corde vocali, che gli hanno permesso di prevalere sulle altre specie del pianeta, abbia il diritto di provocare sofferenza e uccidere per futili motivi.
Quando parli di “addestrare i figli alla crudeltà”, non capisco.
Non c’è bisogno di “ingolfarci di alimenti sostitutivi”. Quelli che tu chiami sostitutivi, sono alimenti tradizionali. Piuttosto l’uomo occidentale, da qualche decennio, si ingolfa di alimenti sostitutivi dei legumi, provocandosi patologie cardiovascolari, neoplastiche e obesità. Io, quando ho fretta, mi assicuro la mia dose di proteine aggiungendo piselli (surgelati) o farina di ceci, che cuoce in fretta ed è buona, ai miei piatti. Proteine si trovano anche nella frutta secca, nei cereali integrali, in alcune verdure.
Ti assicuro elio-c, che dopo aver abbandonato l’alimentazione a cui sei abituato, non sentirai più la mancanza di certi sapori, anzi detesterai l’odore di carne cotta, ti darà la nausea il sapore delle uova e del latte bovino, se per sbaglio mangerai qualcosa che li contiene. Questo accade a me e a molti altri vegan, probabilmente perché gli alimenti animali non sono naturali per l’uomo e, una volta persa l’abitudine, scatta la naturale repulsione.
Nel precedente commento ho scritto milioni di animali allevati. Non sono milioni ma miliardi, sei miliardi di animali macellati solo in USA ogni anno.
e i poveri pesci?
la verità è che
siamo tutti bestie.
Ciò che ci accomuna agli animali è il terrore della morte.
Quello che mi sorprende è come quel terrore per noi dotati di intelligenza sia riferito alla perdita dell’identità, alla consapevolezza della fine di tutto.
Ma per un animale, che non sa cosa significhi esistere come soggetto e che la morte dissolve ogni pensiero, cos’è questa paura?
Mi viene in mente che la nostra paura di morire, al di là di tutti i ragionamenti sull’essere, sia esattamente uguale a quella delle bestie.
Ci crediamo tanto di più, ma nell’essenza vitale l’istinto è il medesimo.
Incondizionata ammirazione per Linnio Accorroni.
Il pezzo di The O.C. invece mi ha disgustato.
Il solito primo della classe, pero irrimediabilmente plebeo, che ci ricorda che “prima l’omo, poi l’animale”
@beppe
tu scrivi “Ciò che ci accomuna agli animali è il terrore della morte.”
più tutto il resto, aggiungo io, ma proprio tutto.
@ tashtego
se ci pensi bene la morte è tutto.
se ci pensio bene la morte è tutto
….
anke senza pensarci troppo… .)
ciao
v
se ci pensi bene la morte è tutto
…
anke se nn ci penso troppo .)
…
ciao
v
uff
info tecnica
il post mi dice spesso ‘errore’
poi trovo il post doppione.
nn mi accade in altri blog.
ke succ ?
.)
ciao
Un mio commento postato ieri intorno alle quattro di mattina è scomparso. Purtroppo l’avevo scritto solo qui e non posso recuperarlo. Sarà stato un problema tecnico o qualcuno si è sentito offeso? A me non sembra di aver offeso nessuno, neanche la gloriosa categoria sportiva dei pescatori. Forse è offensivo per loro dire che la morte dei pesci avviene per asfissia, dopo molte ore di agonia? Offensivo paragonare l’intelligenza di un animale a quella di un bambino, di diversa età a seconda della specie considerata? Offensivo per i bambini, i loro genitori e il genere umano tutto? Offensivo per un cane affermare che un maiale è più intelligente? Offensivo per certe sensibilità degustative dire che sono sei miliardi gli animali macellati ogni anno solo negli USA? Temendo di offendere qualcuno, mi limito a fornire un link. Chiunque voglia sapere come stanno veramente le cose sull’alimentazione umana, può informarsi qui: http://www.saicosamangi.info/
Sorprendente il sito segnalato da Pamela Canali. Ancora sul macello e non solo: http://www.ilmaleppeggio.it/01/articolo05.php