Gli anni di piombo, il romanzo, il terrorismo

frammenti di un dialogo fra Demetrio Paolin e Giacomo Sartori, a proposito del romanzo Anatomia della battaglia.

[Il saggio di Demetrio Paolin Una tragedia negata è stato pubblicato in rete da Vibrisselibri. Ne verrà pubblicata dalle edizioni Il Maestrale una versione cartacea, che sarà corredata da interviste a diversi romanzieri: Gian Mario Villalta, Toni Capuozzo, Valerio Lucarelli, Giorgio Vasta, Luca Rastello, Andrea Comotti, Duccio Cimatti, Roberta Sala e Giacomo Sartori. Dell’intervista a quest’ultimo, per gentile concessione degli autori e dell’editore, presento qui un estratto. a.r.]

Demetrio Paolin Un[a] (…) parola importante [nel tuo romanzo] è anatomia. C’è una tensione verso la comprensione, ma che non è pietas, ma bensì analisi scientifica, fredda e oggettiva del malessere del tuo personaggio e di suo padre. Tu credi che quell’oscurità che hai sondato nel tuo libro sia il sentimento oscuro degli anni ’70. Come lo definiresti? Sapresti descriverlo? Quello che io noto nella scrittura del mio saggio è una mia, oggettiva, difficoltà a riuscire a darne una definizione univoca.

Giacomo Sartori Il mio romanzo è incentrato su una figura di un ex-fascista, visto con gli occhi del figlio che invece fin da giovanissimo è stato di sinistra, e che a un certo punto del suo percorso ha avuto a che fare con il terrorismo. Sono temi difficili, con i quali la nostra società non ha ancora fatto i conti. Sono piaghe – per quanto possa apparire molto incongruo, specialmente se si considera il fascismo, dal quale ci separano ormai più di sessant’anni – ancora aperte. Imperversano i luoghi comuni, le interpretazioni di comodo, le rimozioni. Credo che la tensione della mia lingua sia il risultato dello sforzo di liberarmi dai luoghi comuni e dalle interpretazioni precostituite, fosse per così dire una scelta obbligata. Non è facile muoversi in un magma di parole per molti versi tra loro legate – come fascismo, guerra, resistenza, terrorismo – che senza che ce ne rendiamo conto si portano dietro delle incredibili zavorre, che alla minima disattenzione ci fanno dire cose che non vogliamo dire, ci conducono in territori dove non vogliamo andare. La lingua è il frutto delle interpretazioni dominanti e che vanno per la maggiore, è una schiava. La lingua è legata al presente, alla visione del presente, mentre la stagione del terrorismo è ormai un’epoca molto diversa dall’attuale, e il fascismo è un tempo ancora più remoto e discordante, ancora più difficilmente descrivibile con le parole attuali. Uno scrittore se vuole parlare del terrorismo e del fascismo, come di qualsiasi altro tema scottante, ha bisogno di trovare una lingua per dire quello che ha da dire. Ha bisogno di liberarsi della lingua corrente, di purificarla dalla feccia che si porta dietro. Almeno in Italia, scrivendo in italiano: l’Italia è un paese in cui il conformismo raggiunge livelli parossistici, e la lingua ovviamente ne risente. Il mio modo di combattere la scontatezza è consistito nell’adottare un puntiglioso cipiglio da anatomista, che si ritrova anche nel titolo, e che è in primo luogo un atto linguistico. Ma alcuni scrittori hanno operato scelte linguistiche diverse, con risultati a volte notevoli. Penso in particolare a Alessandro Preiser che utilizza una lingua aulica e improbabile, una lingua che all’inizio della lettura mi ha dato noia, ma che poi mi ha preso e avvinto, e che riesce a parlare di quell’epoca ricreando atmosfere – spesso semplicemente agghiaccianti – e riuscendo a dirci moltissimi sugli ambienti neofascisti e sulla loro violenza, il più delle volte senza cadere nel banale. Il problema è sempre lo stesso, mi sembra: come riesumare dei cadaveri con uno strumento che è per definizione inadatto, perché troppo legato al presente, perché menzognero. Detto questo, e per rispondere più puntualmente alla tua domanda, io non so in cosa consista “il sentimento oscuro degli anni ’70”, sempre ammesso che esista, cosa sulla quale nutro molti dubbi. Non sono uno storico, non sono un sociologo, non sono uno studioso del costume e delle mentalità, non sono un critico letterario. Nel mio testo ho detto una mia verità, frutto di pensieri e di letture, della mia esperienza personale e di un grosso lavoro di scrittura, una verità che spero possa essere riconosciuta come tale, anche se finora mi sembra che sia stata piuttosto fraintesa, per non dire presa molto alla leggera. Ma non credo che il compito del romanziere sia dare delle risposte definitive. Le verità della letteratura sono sfaccettate e contraddittorie, si elidono a vicenda.

DP Un’altra delle parole chiave del tuo libro è il termine GUERRA (lo scrivo tutto maiuscolo come sei solito farlo tu nel tuo libro). Io mi sono convinto che gli anni ’70 furono una guerra, nei romanzi che ho letto mi pare che invece ci sia una sorta di scivolamento semantico e linguistico dalla parola guerra alla parola lotta (e consimili, fino a ribellione).

GS Non credo proprio che per qualificare gli anni settanta in Italia si possa parlare di guerra, o di guerra civile. La guerra è un qualcosa di profondamente traumatico e distruttivo, che coinvolge tutta la società, alla quale nessun cittadino si può sottrarre. Certo gli anni di piombo sono stati molto cupi, e certo ci sono state parecchie vittime, ma nello stesso tempo la società – una buona parte di essa, la maggior parte – andava per il suo corso. Arbasino, che tu stesso citi, con le sue lunghe e ferventi antenne se ne accorge seduta stante: arrivando all’aeroporto di Roma in pieno sequestro Moro non trova la tensione che si aspettava soggiornando all’estero, ma il solito tran-tran italiota. Non va dimenticato che la seconda metà degli anni ’70 sono stati gli anni di piombo, ma anche il periodo in cui la società italiana s’è (tutto è relativo) laicizzata – sia in senso religioso che ideologico -, è diventata soprattutto infinitamente più equa e più democratica. Gli ultimi anni del decennio, se guardiamo alla produzione artistica, sono anche gli anni di Boccalone, di Porci con le ali, dei primi dissacranti film di Moretti, dei primi passi dei nuovi disimpegnati narratori, della disimpegnata transavanguardia. Gli anni settanta sono anche e in primo luogo Lucio Battisti, se vogliamo. Certo però negli anni di piombo si respirava un grevissimo clima di guerra, è innegabile. Basta sfogliare i quotidiani dell’epoca – con i reiterati e militareschi resoconti delle azioni violente, senza più il minimo spirito critico, senza più alcun riferimento certo, con un continuo ricorso alle frasi fatte, e a un linguaggio stereotipato e omissivo, proprio come in guerra – per averne una conferma. Ma io credo – senza naturalmente togliere peso ai fatti di sangue – si tratti di un clima, un clima che aveva permeato il dibattito politico e le rappresentazioni dei media – ancor prima di una realtà. Un clima che purtroppo autoalimentava e catalizzava la violenza, che soprattutto non sapeva costruire nessuna diga nei suoi confronti. La violenza dei gruppi eversivi di sinistra e la violenza in molti casi pilotata dall’alto della destra avevano risvegliato dei fantasmi, avevano riattualizzato la non risolta contrapposizione tra repubblichini e partigiani. Nelle azioni violente dei terroristi di sinistra e di destra risorgeva la contrapposizione mai davvero estinta, non ancora trasformata in storia oggettiva, dell’ultimo periodo della guerra, si riattizzavano le braci di una vera e propria – questa sì – guerra civile. Una guerra civile che nessuno ancora nominava in quanto tale, una guerra civile nemmeno conscia – visto che appunto nessuno ne parlava – di se stessa. Mi sembra molto difficile spiegare perché solo in Italia il terrorismo abbia assunto le proporzioni che ha avuto, senza riferirsi a come l’Italia è uscita dal fascismo, a come ha voltato pagina senza regolare i conti con esso, senza riflettere su se stessa, senza ricercare minimamente delle responsabilità, accontentandosi di mitologie di pronto uso politico e di pomposa retorica. Mi sembra che chi parla di guerra civile a proposito degli anni di piombo, come fa ad esempio De Luca, non riesce a staccarsi dalla visione dell’epoca, non riesce a non vedere quanto in quel periodo appartenesse in realtà al passato, sopravvivesse ormai come puro fantasma. Come si può parlare di guerra, quando la maggior parte dell’”esercito” che questa guerra avrebbe dovuto combatterla, era autoimplosa – penso al rapidissimo squagliamento dei gruppuscoli extraparlamentari verso la metà del decennio, legato a null’altro che all’obsolescenza dei fondamenti ideologici sui quali si appoggiavano, al venir meno dei propri miti – quando i “combattenti” erano ormai solo frange partite per la tangente, dotate di un armamentario ideologico grottescamente rozzo e ormai completamente obsoleto, in contraddizione con quella che era diventata la società civile? Quindi è a bella posta che nel mio romanzo – che non è un romanzo sul terrorismo, è un romanzo sulla guerra e sul fascismo, e sulla inconscia permanenza della guerra e del fascismo anche nei decenni successivi – non uso il termine di “guerra” per le vicende degli anni ‘70. Non si tratta di uno slittamento semantico, ma di una tesi ben precisa, sulla quale è costruito il mio testo, e della quale resto tuttora pienamente convinto.

DP Io non c’ero allora, negli anni ’70. Per me valgono i racconti, le memorie e quello che leggo o vedo. L’idea che mi sono fatto è che sembrava esserci una guerra, è vero non c’erano le armate, non c’erano le trincee, ma la mia idea è questa. Mi viene in mente mia madre, che aveva vent’anni quando c’erano le giornate di Reggio Calabria che mi racconta come per andare a lavorare lei dovesse attraversare luoghi dove erano stati messi sottosopra i cassonetti, sfasciate vetrine, in cui ancora c’era nell’aria il profumo dei lacrimogeni. E che mi dice, mentre me lo racconta: siamo stati in guerra.

GS Sono d’accordo, sembrava esserci una guerra. Soprattutto in alcune grosse città del centro-nord, soprattutto in certi settori della società, come per esempio le università, soprattutto negli ambienti della politica e dei giornali, soprattutto leggendo i quotidiani, soprattutto nelle rappresentazioni che erano date all’estero. Ma quello che succedeva non era una guerra, non era una guerra civile. Con questo non voglio affatto negare la gravità e la relativa diffusione delle azioni violente, basti pensare alle centinaia di attentati, alle decine di vittime, alle migliaia di persone coinvolte. Voglio solo dire che i riferimenti al passato erano incredibilmente forti, forse ancora più espliciti dei legami con la realtà presente. Dietro le azioni del movimento armato di sinistra c’era il sogno insurrezionale di molti partigiani, dietro le azioni violente della destra neofascista c’era il miraggio mai sopito dell’estrema destra di rivedere il Regime al potere. Una lacerazione che era presente in maniera soggiacente nella coscienza della maggior parte dei testimoni di quella guerra civile mai nominata in quanto tale (il libro di Pavone è del 1991!), una tensione presente anche nella mente dei loro figli. Una frattura che rivelava la fragilità della Repubblica, la sua incapacità di appianare i contrasti non ancora esplicitati dai quali era nata, che riesumava un clima di guerra. La stessa repentinità della fine del periodo degli attentati, è secondo me una prova che la tensione riguardava più il passato che il presente. Il terrorismo non è stato sconfitto solo grazie al grosso impegno delle forze dell’ordine, è stato sradicato in primo luogo perché le sue basi teoriche erano ridicolmente fragili, perché non aveva più nessun contatto con la società e con la piega che aveva preso la realtà economica, perché era totalmente fuori fase rispetto alla società. Il fenomeno del pentitismo non avrebbe assunto una tale proporzione, se molte delle persone coinvolte nella lotta armata non si fossero rese conto – non ne fossero forse state coscienti ancora prima di essere arrestate – dell’assurdità della lotta nella quale avevano creduto. Il terrorismo si è trovato spiazzato rispetto alla società civile, è stato in un certo senso vittima del proprio successo. È sintomatico il contrasto in seno alle stesse Brigate Rosse, in pieno rapimento Moro, tra l’ala movimentista (Morucci), che soffriva dello scollamento con la società, e quella più tetragonamente ideologica. Ma ripeto, io non sono affatto uno specialista di queste questioni. Altre persone, giornalisti e storici, hanno studiate nei dettagli queste vicende, le conoscono molto meglio di me. Quello che interessa a me, ed è il soggetto della nostra discussione, sono le rappresentazioni di questi avvenimenti che si ritrovano nella narrativa.

DP Una delle temi fondamentali del saggio è l’elusione del nemico. Mi pare che il tuo libro segua una strategia diversa.

GS In certi testi il fatto di non rappresentare il nemico lascia effettivamente un po’ perplessi. Ci si chiede, specie se l’autore ha scelto un tono per qualche verso nostalgico-commemorativo e/o un registro epicheggiante, se c’è una qualche verosimiglianza con quanto è successo, come stavano davvero le cose. Ma in altri casi questa assenza non rappresenta il minimo problema, può anzi dare maggiore forza al testo. Penso sempre al romanzo di Preiser, che riesce a avvincerci – potenza della letteratura – mettendoci nella testa di un neofascista che compie le più nefande efferatezze, e senza mostrarci minimamente le vittime, senza la minima emozione nei loro riguardi, lasciandocele appena intravedere (il che rende le azioni violente ancora più raccapriccianti). Tu sembri quasi chiedere ai testi letterari che hanno a che fare con il terrorismo una equanimità, una obiettività storica, un rispetto nei confronti delle vittime. Ma sai meglio di me che la letteratura non è né equanime né obiettiva né rispettosa. Può appunto essere eccessiva, o paradossale, e lo stesso inchiodarci alla pagina, commuoverci, insegnarci qualcosa. Quindi il problema non mi sembra legato alla rappresentazione o meno del nemico, ma piuttosto alla posizione dell’autore nei confronti di quell’epoca. Sono convinto che un qualsiasi testo narrativo che ha come tema la stagione del terrorismo molto difficilmente può avere un qualche interesse, e parlo di un interesse squisitamente letterario, che è l’unico mio metro di giudizio (lo devo specificare, perché purtroppo in Italia su questo tipo di argomenti prevalgono, anche da parte di grossi nomi della critica giornalistica, le letture tematiche, le valutazioni e i giudizi a sfondo politico), se non riesce a lasciarsi dietro le spalle i luoghi comuni. Credo che sia impossibile fare della letteratura decente – a meno beninteso che non sia un’operazione di deuxième degré, alla Bouvard et Pécuchet, o comunque autoconsapevole – con i luoghi comuni. I luoghi comuni dell’epoca, come anche i luoghi comuni di adesso. Tornavamo dal mare di Doninelli, riflette, tanto per mettere lì un esempio, la visione che va per la maggiore adesso di quel periodo. È un testo che a mio parere non ci dice nulla che già non sappiamo, e nel quale il personaggio del terrorista è rappresentato come un essere senza sentimenti e disumano, è grottescamente caricaturale. È uno zombie, l’unica cosa sensata che può fare, in un mondo ormai tanto diverso da lui, è togliersi di torno (l’autore gli dà provvidenzialmente una mano, e lo fa effettivamente morire). Per la semplice ragione che adesso, ora che le ideologie sono crollate, facciamo molta fatica a concepire che una persona abbandoni tutte le sue attività e i suoi affetti per imbracciare le armi, per lottare contro il capitalismo. All’epoca però le cose stavano in modo diverso, prova ne sia che molto persone ci hanno effettivamente creduto, hanno effettivamente fatto quella scelta. Ma erano pur sempre degli essere umani, con i difetti e le qualità di ogni essere umano. Il testo di Doninelli, quello che ho fatto è solo un esempio, reitera delle visioni standardizzate e scipite, che trovano eco nell’elegante scipitezza dello stile e della lingua, anche se Filippo La Porta – faccio molta fatica a concepirlo – lo considera il miglior testo letterario sul terrorismo. Ma c’è anche il rischio opposto, quello cioè di mettersi nell’ottica di allora, di circondare di un’aurea mitica gli avvenimenti di quel tempo. Molti dei testi autobiografici di ex-terroristi soffrono di questa pecca (per esempio il libro di Morucci, tanto per citarne uno): possono essere interessanti, ma non hanno alcun valore letterario.

DP Provo a fare un altro ragionamento/domanda. Non so se hai letto l’intervento di De Cataldo su “La Stampa”, in cui sostanzialmente dice: ci sono delle zone delle vicende italiane oscure. In queste dove non arriva la storia arriva il romanzo. L’elenco che fa è il solito: servizi segreti deviati, camorra e politica, etc etc. La cosa che mi ha colpito è che lo stesso De Cataldo dice: “Tutte queste cose si sanno perché sono contenute nei documenti delle commissioni parlamentari e perché sono documentate con rilievi di indagini e di sentenze”. Quello che De Cataldo pone è un problema di scrittura di complotto e dice: lo scrittore deve “pensare male” e fare le domande scomode. Io mi chiedo è questo che serve al romanzo italiano? Io mi sono convinto, e leggendo libro come il tuo, quelli di Villalta e Rastello, che meno ci si affida al complottismo e più si arriva vicino a quello che io chiamo il sentimento tragico. Io credo che il complotto sia la narcosi del tragico, lo anestetizzi – dal punto di vista narrativo. Quando si arriva a parlare di anni ’70, ci sono sempre i servizi segreti, i livelli occulti delle BR, le stragi di stato etc etc… la tua scelta di non parlare di questo, la tua scelta raccontare quegli anni in un altro modo a quali motivazioni e fatti è stata dovuta?

GS Credo che nell’intervento che citi De Cataldo parli prima di tutto di se stesso, come succede molto spesso agli scrittori quando prendono la parola, e in particolare a quelli italiani. Ho l’impressione che appena uno scrittore italiano ha un po’ di successo si senta in dovere di fare la sua lezioncina. Devo confessare che mi indispone questo afflato normativo, che venga appunto da scrittori o anche da critici. Credo che la narrativa di un dato paese sia viva proprio perché plurima e imprevedibile, proprio perché divisa in mille rivoli diversi che vanno dove non ci si aspetterebbe che andassero, che vanno dove vogliono loro. Ognuno è liberissimo di esprimere la propria poetica e le proprie preferenze riguardo agli orientamenti della narrativa, ma quando queste prese di posizioni diventano chiusura a quanto è differente, vedo affiorare il grande conformismo del nostro paese, la difficoltà di concepire che le voci possano essere molte, e estremamente diverse tra loro. Ma è chiarissimo, per restare agli anni ’70, che i servizi segreti e le forze occulte sono molto presenti, e che la storia di quegli anni potrebbe essere fatta – e qualcuno appunto lo fa – proprio a partire dalle manovre e dalle strategie occulte. Però è anche vero, mi sembra, che le manovre e le strategie occulte hanno agito su un substrato – che possiamo chiamare la società civile – che occulto non era affatto, o meglio le cui tensioni e dinamiche erano e sono in parte restate occulte solo nella misura che nessuno ha saputo analizzarle. Certo dietro Piazza Fontana e dietro a tanti altri bruttissimi episodi ci sono dei manovratori, ma l’effetto di tali episodi esula dai poteri dei manovratori, è un qualcosa che dipende da tutta la società, da ogni individuo. L’incisività delle forze occulte in quegli anni, il motivo per cui proprio nel nostro paese erano così presenti e attive, è l’altra faccia della medaglia dell’incapacità della società italiana di allora di guardare dentro se stessa, di autoanalizzarsi. Personalmente mi sento molto più interessato, come lettore e come scrittore, a questo intreccio tra istanze esteriori e interiori, tra Storia e individuo. Mi sembra che moltissimi capolavori della letteratura, pur con registri molto diversi, nascano proprio da lì. Ma appunto, se altri scrittori preferiscono mettere l’accento sulle forze occulte, e riescono a non essere noiosi, non ci vedo niente di male. Certo, vedo lo stesso rischio che vedi tu, quello cioè di considerare i complotti un qualcosa che non ha nulla a che fare con la società, frutto di maligni e avulsi dei ex-machina. Detto questo sono d’accordissimo con De Cataldo, che riprende Lucarelli: lo scrittore deve fare delle domande scomode, deve pensare male.

7 COMMENTS

  1. Trovo il pezzo ricco, chiarendo l’arco di tempo (1970), uno spazio storico poco conosciuto da me. Certo, la morte di Aldo Moro ha marcato (mi rammento precisamente la notizia che ha scandalizzato i miei genitori).
    Trovo l’idea di Giacomo Sartori giusta: fare sentire la tensione del langaggio e sottolineare il pericolo di riferire ai paroli scottanti.
    Il linguaggio non è mai innocente, è triturato, travisato. Il senso trabocca il senso. la letteratura non dà lezione: è un campo mobile, vacillante, sempre all’orlo…

  2. Interesante. Su temi analoghi segnalo un racconto sugli anni 70 visti come anni di fantasmi, nel blog di Beppe Sebaste

  3. Davvero ricca di spunti l’intervista rilasciata da Sartori. Dalle sue parole possono nascere riflessioni importanti. Al solo scopo di allargare il discorso pongo l’accento su una affermazione che credo meriti di essere approfondita.
    Sartori dice:
    “Certo dietro Piazza Fontana e dietro a tanti altri bruttissimi episodi ci sono dei manovratori, ma l’effetto di tali episodi esula dai poteri dei manovratori, è un qualcosa che dipende da tutta la società, da ogni individuo.”
    Non ne sono del tutto convinto. È evidente che se qualcuno lavora dietro le quinte (ma mica tanto dietro…) per far esplodere ordigni a Piazza Fontana come in altri luoghi, il suo vile lavoro termina lì. Credo che le reazioni determinate da quegli atti ne fossero la voluta conseguenza.

    Faccio un esempio concreto. Dopo la strage di Piazza della Loggia Brescia, a Napoli nacque una imponente manifestazione popolare. Oltre centomila persone sfilarono per le strade della città.
    Ora, chi aveva messo in scena quell’atto terribile non si era preoccupato di organizzare quella manifestazione. Ma credo sia innegabile che quella dimostrazione spontanea e democratica nascesse da una violenta indignazione.
    Consapevole dei rischi, mi addentro ulteriormente nella discussione.
    Durante quella manifestazione una rabbia incontrollata spinse centinaia di persone a irrompere in diverse sedi del MSI provocando danni alle strutture. In quel momento si riteneva di colpire chi si celava dietro quell’attentato. Era una reazione imprevedibile o abbastanza scontata considerata la gravità dell’atto che l’aveva provocata?
    Qualcuno poi fece scelte più estreme. E qui il discorso meriterebbe uno spazio più ampio.
    Ma siamo davvero certi che chi perseguiva una certa strategia non volesse scatenare precisi effetti? Non ambisse anche a destabilizzare il paese?
    Altrimenti dovremmo arrivare a pensare che chi mise la bomba a Piazza Fontana intendesse colpire null’altro che la Banca Nazionale dell’Agricoltura o magari i suoi clienti per qualche personale rancore.
    Gli obiettivi erano certo di più ampio respiro e in buona parte analizzati da chi, con lucida follia, determinava le pagine più nere della nostra democrazia.
    Poi, forse, qualcosa sfuggì di mano. Ma questa è un’altra storia.
    Valerio

  4. Giacomo tu dici: “Tu sembri quasi chiedere ai testi letterari che hanno a che fare con il terrorismo una equanimità, una obiettività storica, un rispetto nei confronti delle vittime. Ma sai meglio di me che la letteratura non è né equanime né obiettiva né rispettosa. Può appunto essere eccessiva, o paradossale, e lo stesso inchiodarci alla pagina, commuoverci, insegnarci qualcosa. Quindi il problema non mi sembra legato alla rappresentazione o meno del nemico, ma piuttosto alla posizione dell’autore nei confronti di quell’epoca.”

    Ed è vero, il mio saggio chiede questo ai libri presi in esame. E lo chiede perché incomincio a pensare che è facile, dal punto di vista letterario, evocare quegli anni come fantasmi e, di conseguenza, i protagonisti come fantasmi.
    Giorgiana Masi non è fantasma e neppure Aldo Moro:il fatto di considerali elementi fantasmatici non fa altro che *riproporre* ciclicamente quegli anni. Si perpetua un tempo e non lo si chiude.
    Hai ragione quindi, Giacomo, la scrittura può essere quello che tu affermi, ma anche no; qualche volta potrebbe essere altro.
    Provo a spiegare.
    Quando ho scritto le ultime pagine del saggio, ho cominciato a pormi, proprio su quelle pagine, una serie di domande. Rileggendole le ho trovate costruite su una base *retorica*.
    Mi sono chiesto cosa fosse la retorica. Mi sono detto che la retorica può essere *decente* (allora dà un decoro alla cosa scritta) o *indecente* (in questo caso falsifica la cosa scritta). la retorica, insomma, non è né bella né brutta; non è un fatto estetico, ma etico.
    Ecco il motivo per cui ho lasciato quel finale che spero che i lettori potranno leggere e comprendere. Perché io cercavo un elemento etico.

    Certo come dice Veronique la letteratura è sempre stare sull’orlo, ma io per una volta ho voluto stare sull’orlo e fermo. Forse questa fermezza, che ho tenuto per tutto il saggio sia nell’analisi dei testi sia nello stile di scrittura è dovuta al fatto che io non ho scelto il romanzo come forma del mio dire.
    E se il romanzo (questo discorso mi sa di manzoniano, tipo Discorso sopra il romanzo storico o una roba del genere) non fosse il *medium* adatto per dire quegli anni?

    d.

  5. x V. Lucarelli: forse mi sono spiegato male, ma non volevo assolutamente dire che dietro la “strategia delle tensione” non ci siano state – basterebbe il nome – delle strategie, e per certi aspetti ben precise. Questo – anche se i dettagli a noi comuni mortali per molti versi sfuggono ancora oggi – è un fatto noto. Volevo sottolineare un altro aspetto, che mi sembra molto meno battuto, e che riguarda la risposta della “società”, cominciando dai politici, dagli intellettuali, dagli artisti, e dagli scrittori, e dell’influenza che questa riposta ha avuto.

    x Demetrio: devo confessare che molti libri che hanno a che fare con il terrorismo mi sembrano invece, non vorrei sembrarti provocatore. troppo etici. La loro etica è però zoppicante, asmatica, bonacciona, retrò, obliosa, o semplicemente idiota, il che inficia già a priori il risultato estetico dell’opera. E certo non è l’etica che cerchi tu. (anche in fatto di etiche c’è etica e etica!) Ma, arrivi tu stesso a questa conclusione, forse sarebbe impossibile (ma non è detto!) fondare un buon romanzo su questa tua etica così etica.
    Quello che mi sembra interessante è vedere, ma ragionando caso per caso (le generalizzazioni mi sembrano sempre molto pericolose), come le scelte dell’autore attinenti questo ingrediente fondamentale (visto il tema) abbiano delle conseguenze formali e linguistiche molto precise. In altre parole valutare quanto l’analisi di questo fattore possa aiutarci, testo per testo, a spiegarci la riuscita estetica, o le sue eventuali tare.
    Ma sarebbe un discorso lungo. Vediamo se riusciamo a riparlarne quando uscirà il tuo libro!

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