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[lessia n.26]
Le stampelle dovevano essere appese tutte nello stesso verso. Gli dava fastidio che fossero sfalsate. Così ogni settimana spendeva un po’ di tempo a raddrizzarle.
Ne valeva la pena – pensava – perché conferiva al guardaroba un buon senso di ordine. Non aveva alcuna motivazione pratica, o meglio l’aveva solo per sé. Era una sorta di miglioramento meccanico della sua giornata.
Un giorno (quando sarebbe morto) quei vestiti sarebbero entrati a far parte della tattilità di qualcun altro. Ma finché era vivo, il suo guardaroba doveva restare così. Un sistema variabile se non per le aggiunte di nuovi acquisti.
Non buttava via niente. Negli ultimi anni si era convinto che la vita si potesse ricapitolare negli oggetti. E in particolar modo nei vestiti, i maglioni le camicie i bottoni i risvolti le cuciture, le tasche. Erano tutti luoghi che aveva vissuto e che gli appartenevano, la collezione dei suoi frammenti. […]
[lessia n.37]
Arrivò a Santa Monica Boulevard e la percorse tutta. Tagliando Westwood, mentre fiancheggiava i distretti meridionali di Beverly Hills, si accorse che le prime automobili cominciavano a circolare in strada […].
Aveva intravisto le colline di Hollywood per la prima volta mentre andava in direzione nord-est sull’autostrada. Mentre girava a sinistra per Belden e passava attraverso il parcheggio di un centro commerciale, Hamilton si ricordò che poco più avanti era possibile vedere una buona parte di Los Angeles. In realtà non c’è un punto in cui si riesca a percepire l’estensione completa di quel mucchio di villoni che rende l’intera città una fabbrica del vuoto.
Decise di proseguire. Le strade che lo avevano condotto ai piedi di Hollywood adesso erano state sostituite da un dedalo di vie molto più strette e contorte. Da lì, impossibile avamposto della città reticolare e infinita, capì che Hollywood è anch’essa un ammasso di alture senza centro.
– A questo punto tanto vale – pensò – prendere la prima strada che capita.
[lessia n.38]
Una strada saliva e girava poco dopo. Intorno non c’era nessuno. Stava macinando miglia senza accorgersene, si sporgeva con la testa dal finestrino e dava colpetti leggeri di clacson prima di ogni curva.
Andava piano. Le ville intorno erano una attaccata all’altra, tutte con i cancelli chiusi. Che cosa nascondevano?
Prima di ogni incrocio ecco un segnale di stop, l’insegna della via che passa. Cartelli blu di metallo. Palme e banani. C’era da impazzire pensando che Hollywood si può girare per ore, scendendo a vortice dalle strade scoscese, risalendo infinite volte come in un gioco, una girandola, un gomitolo.
N.d.A.: Roma, città della memoria e Los Angeles, megalopoli reticolare senza centro, formano un’unica scena di personaggi anonimi e vicende apparentemente sconnesse, che rimandano il lettore alla ricostruzione di un percorso possibile attraverso déjà-vu e analogie. Un’opera prima (scritta nel 2002) che vuole essere una domanda aperta sulla natura della narrativa ipertestuale.
La versione completa è consultabile sul sito dell’autore.
Un pezzo interessante perché dà la visione originale di un viaggiatore.
Amo che il testo narrativo trova un’illustrazione.
Los Angeles sembra non avere passato, è solo in superficie, è già abitata con i fatasmi del cinema. Si delinea il profilo di Marilyn Monroe, il ricordo del passato d’ore, tracciato nelle lettere oggi sbiadite “Hollywood”.
Los Angeles ha un passato di scenario svuoto, artificiale: palme e banani illuminati da colori vistosi, un luogo falso.
Sono un po’ turbata dal fatto che io ho lo stesso rapporto maniacale del protagonista con il mio guardaroba. E per di più l’autore è un quasi omonimo di mio padre…
Frivolezze a parte, leggendo mi sono tornati in mente il Chandler de “Il Grande Sonno” e il Fante di “Chiedi alla Polvere”. Modi differenti di raccontare Los Angeles, eppure vi sono delle similitudini.