Croce e Leopardi
di Sossio Giametta
Fedelissimo al titolo del libro in cui il saggio su Leopardi è contenuto, Croce si fa a sceverare in esso, pagina dopo pagina, ciò che nell’opera di Leopardi, ma anche si può dire nella sua vita, è poesia e ciò che non lo è. E non è poesia, nella vita di Leopardi, la sua posizione pessimistica, che Croce attribuisce alla sua “vita strozzata”. L’adolescente che si preparava a divenire forse un grande filologo, dice, il giovane che aspettava e sognava le gioie dell’amore e si apriva alla patria e all’umanità, il poeta che si formava in lui
si sentì […] premuto, avvinto e sopraffatto da una forza brutale, da quella che egli chiamò la “nemica natura”, che gli spezzò gli studî, gli proibì i palpiti del cuore, e lo rigettò su se stesso, cioè sulla sua offesa base fisiologica, costringendolo a combattere giorno per giorno per sopportare o lenire il malessere e le sofferenze fisiche che lo tormentavano invincibili.
Questa violenza e questa sopraffazione, secondo Croce, scavarono in fronte a Leopardi quel “solco di dolore e di nobiltà” a cui egli dovette di essere presto riconosciuto in Europa, di
essere assunto nella pleiade degli altri spiriti straziati e sconsolati, che dalla fine del settecento erano venuti sorgendo dappertutto e avevano cantato al genere umano, smarrito ormai in un universo senza Dio, il funereo canto disperato.
E questa cosa è certamente vera; soprattutto per il contenuto sentimentale della sua poesia Leopardi poté
varcare senza sforzo gli ostacoli che a uno scrittore di classica educazione, di classico e dotto linguaggio, di classica compostezza dovevano altrimenti opporsi in quel tempo di fervido romanticismo letterario, nel prevalere di una letteratura che tendeva da un lato al popolareggiante e dall’altro allo sbrigliato, sconvolto, facile, verboso, anche in Italia.
È vera, come è vero che molti ostacoli si frappongono sempre al riconoscimento dei grandi, i quali soffrono sempre, per la sordità dei contemporanei, dell’afflizione e ingiustizia del mancato riconoscimento dei loro meriti, acquisiti con fatica e sacrificio. È quindi bene che a Leopardi questa sofferenza almeno, tra tante altre, sia stata risparmiata, e che, sin dal tempo della sua vita, la sua gloria abbia cominciato a risplendere, a onore suo e dell’Italia, fra i poeti e i personaggi che rappresentano il dolore del mondo, Werther, Oberman e René, Byron, Lenau, De Vigny, Musset ecc. Tuttavia non è possibile non vedere anche, nelle parole di Croce, un riflesso critico e riduttivo del poeta per tale “contenuto sentimentale”, che egli sottopone poi a dura critica.
Questo contenuto sentimentale sussiste indubbiamente in Leopardi, ma non come un blocco irrigidito, opaco, monolitico, qual era per esempio il pessimismo di Schopenhauer, a cui De Sanctis paragona favorevolmente quello di Leopardi (nel suo saggio Schopenhauer e Leopardi), sia pur senza rendere, secondo noi, piena giustizia alla grandezza di Schopenhauer. Perché favorevolmente? Perché – ed è una posizione, questa, che Croce fa pienamente sua – in Leopardi il pessimismo, pur corrispondente a una fortissima, incrollabile convinzione, coesiste con una natura schietta e nobile, trepida, aperta alla vita, al desiderio e alla speranza. In fondo egli non desiderava che amare ed essere amato, afferma Croce. Aperto com’era in particolare all’amor di patria, Leopardi divenne, nel periodo del risorgimento, “il poeta dei giovani”, dei giovani liberali che preparavano la guerra e la rivoluzione, per il nesso fatto di passione che strinse allora, continua Croce, “il romanticismo sentimentale e il sentimento nazionale, lo scontento generoso e il generoso anelito, il dolore del mondo e il dolore della patria”. Questi giovani sentivano che Leopardi era uno dei loro, anche a prescindere dalle sue canzoni patriottiche. E uno dei più eletti tra questi giovani, destinato a diventare un insigne critico, disse che “se il destino gli avesse prolungato la vita infino al quarantotto”, Leopardi si sarebbe trovato al loro fianco per confortarli e unirsi alla loro lotta. Solo che questo stesso giovane, che era Francesco De Sanctis, dopo aver a lungo venerato Leopardi come maestro di verità e di vita, finì coll’accantonarlo, perché il suo pessimismo era sterile, e invece il dolore umano doveva essere “seme di libertà”, e dalla sofferenza doveva scaturire la speranza e l’azione.
Senza por tempo in mezzo, Croce accantona a sua volta Leopardi come maestro di verità e di vita, come “sommo pensatore, le cui argomentazioni e dottrine trovino luogo nella storia della filosofia”. Anzitutto con un argomento in sé ottimo. La filosofia, in quanto ricerca della verità e conoscenza della realtà, non può essere né ottimistica né pessimistica. Ottimismo e pessimismo rispecchiano stati d’animo e umori personali, sono interpretazioni soggettive di circostanze e situazioni della realtà la quale, in quanto realtà viva, attiva ed efficace, si serve del piacere e del dolore (donde ottimismo e pessimismo), per governare dall’interno gli individui.
Il Sé dice all’Io ”Qui senti dolore!” E quello soffre e riflette a come non soffrire più – e per questo appunto deve pensare.
Il Sé dice all’Io: “Qui senti piacere!” E quello gioisce e riflette a come gioire ancora molte volte – e per questo appunto deve pensare. .
Il “Sé”, dice qui Zarathustra, invece di “realtà”, e di quella che è la realtà insieme originaria e terminale dell’individuo, la specie, intesa come organismo che vive e si sviluppa attraverso tutti i suoi membri, intimamente e dialetticamente collegati tra loro. Del resto Nietzsche diceva già prima di Croce (che ben lo lesse) che il pessimismo è solo un sintomo, e che nessun vivente può giudicare la vita, perché è parte in causa. Ora, un’obiezione seria a Nietzsche sarebbe stata il rilevare che egli stesso era uno dei più grandi pessimisti. Ma ad essa egli o chi per lui avrebbe potuto rispondere che non era un pessimista, bensì un nichilista, e come tale un superatore del pessimismo e un affermatore della vita tragica, proprio in contrapposizione al pessimismo negatore della vita del suo maestro Schopenhauer. E non avrebbe avuto torto. Solo che nell’espressione “affermazione tragica”, quel “tragica” è una spia scomoda. Soprattutto è scomodo il fatto che, a dispetto di ogni progettata affermazione della vita, Nietzsche sembra non avervi retto (naufragium feci). In realtà, la sostanza del suo pensiero è così pervasa di pessimismo, che è difficile trovarne un altro più pessimista di lui.
Ma il passo di Croce è importante e merita di essere riportato.
La filosofia, in quanto pessimistica od ottimistica, è sempre intrinsecamente pseudofilosofia, filosofia a uso privato, per la logica ragione che tutto può diventare oggetto di giudizî estimativi o disistimativi, di tutto si può dir bene o male, salvo che della realtà e della vita, la quale crea essa e adopera ai suoi fini le categorie del bene e del male; onde la lode largita o il biasimo inflitto alla realtà non ha nel suo fondo altra consistenza che quella di un moto passionale, cagionato da buono o cattivo umore, da lietezza, da leggerezza, da insofferenza, da capriccio, da favorevoli o sfavorevoli contingenze. La schietta e seria filosofia non piange e non ride, ma attende a indagare le forme dell’essere, l’operare dello spirito; e i suoi progressi sono segnati dalla sempre più ricca, varia e determinata coscienza che lo spirito acquista di se medesimo, e gli stessi filosofi che si dicono pessimisti ed ottimisti, valgono come filosofi unicamente per il contributo che, di là dal loro pessimismo e ottimismo, recano alle indagini, poniamo, logiche o etiche, e ad altrettali ordini di problemi, e per esse unicamente entrano nella storia del pensiero, che è sempre storia di scienza e di critica.
Leopardi, invece,
non offre se non sparse osservazioni, non approfondite e non sistemate: a lui mancava disposizione e preparazione speculativa, e nemmeno nella teoria della poesia e dell’arte, sulla quale fu condotto più volte a meditare, riuscì a nulla di nuovo e importante, di rigorosamente concepito.
Ciò nonostante, Leopardi riteneva che quello che diceva sul male e sul dolore, nel dialogo di Timandro ed Eleandro nelle Operette morali, fossero non verità accessorie (“sono verità principali o pure accessorie?”, domanda Eleandro) ma, “la sostanza di tutta la filosofia” (come risponde Timandro).
E tale era l’inganno suo ed è ancor oggi di tanti che, col ripetere in forma di solenni filosofemi le deplorazioni sulla vita che è dolore e sulla vita che è male, s’immaginano di filosofare, e anzi di filosofare sui sommi veri. Se così fosse, la filosofia avrebbe compiuto l’opera sua da secoli, anzi da che uomo è uomo, perché quelle proposizioni affettive sono uscite sempre dal petto dell’uomo e appartengono ai comuni intercalari.
Questa argomentazione di Croce è impeccabile, decisiva: Leopardi non è un filosofo. E’ invece un poeta, certo. Ma poiché quella parte della sua poesia che è vera poesia, secondo sia il maestro De Sanctis sia il discepolo Croce, non è che una piccola parte (gli “idilli”) rispetto al resto, ben ingombrante, di poesia e di pensiero (Palinodia, Ginestra, Zibaldone e altro), che cosa facciamo di questo enorme resto? Lo buttiamo via come inservibile? Per coerenza, Croce dovrebbe dire di sì, a parte un’ultima riserva che fa per la poesia: proprio il contrasto con tutto questo quarzo fa brillare l’oro, proprio tutta questa zavorra serve, se lasciata cadere, a liberare, a far librare la divina lievità della poesia. Nelle sue parole: “Forse quell’impaccio che precede o segue i liberi movimenti della fantasia e del ritmo, fa meglio sentire il miracolo della creazione poetica”. Ma questo, come abbiamo detto, vale per la poesia. Per il pensiero invece egli non formula riserve di sorta. Dunque esso, fatto com’è di osservazioni sparse, non approfondite e non sistemate, è, se non proprio da buttar via, di valore limitato.
Ma c’è qualche difficoltà a pensare così. Il fatto che Leopardi ritenesse che le enunciazioni sul male e sul dolore, nel suddetto dialogo, fossero la sostanza di tutta la filosofia, è una sentenza grave, che fa riflettere. Fa riflettere anche il fatto che il suo “inganno” sia tuttora l’inganno di tanti, spesso di alta statura, per i quali Leopardi rimane, invece, un punto fermo e imprescindibile nella cultura italiana ed europea. Lo stesso fatto citato da Croce, che quelle verità escono dal petto degli uomini da che l’uomo è uomo, non può non far riflettere. Esse, secondo Croce, non aiutano nella ricerca delle forme dell’essere di cui si occupa la filosofia. È vero? O non è vero proprio il contrario, cioè che i filosofi, sempre occupandosi delle forme dell’essere e magari anche dell’operare dello spirito, sono in fondo tutti “pazzi di Dio”, come li chiama Wilhelm Weischedel, cioè tendono, per brama soteriologica, a giustificare l’esistenza, a vederla dominata da un Dio di bontà, di onnipotenza e provvidenza, o dalla legge morale, come la vede Croce stesso, o dall’Idea, come la vede Hegel, a parte i pochi, ma che ci sono, che fanno il contrario, come non solo l’irascibile Schopenhauer ma anche il calmo Hume (in particolare nella parte decima dei Dialoghi sulla religione naturale), smentendo così l’affermazione che non è filosofia quella che riflette sulla vita che è dolore, sulla vita che è male?
Perché, d’altra parte, pur essendo la cosa nota, cioè il male di vivere, gli uomini non se ne stanno buoni al già detto e continuano a proclamarlo sempre di nuovo? Perché la sofferenza fa gridare? Certo, in fondo è per questo. Si è comunque indotti a sospettare che la filosofia potrebbe non essere la sola forma di pensiero valida, accanto alla poesia; che potrebbe esserci anche un’altra forma del pensare, degna di essere notata e studiata, per cui le suddette enunciazioni, presso Leopardi e altri come lui, con le relative argomentazioni, acquisterebbero senso e magari un senso pregnante. Per questa ragione, può darsi che col limitarsi alla sola filosofia sistematica e col farvi rientrare o con l’espellerne tutto quel pensiero prodotto non secondo i canoni ortodossi fatti valere da Croce, ma secondo altri canoni, crei nella filosofia una non notata ma dannosa ibridazione e confusione, da un lato, cioè per quello che vi si fa rientrare, e una ingiusta discriminazione dall’altro, cioè per quel che se ne espelle.
In realtà esiste un altro genere letterario, a cui tutto quello che è pensiero, ma non filosofia sistematica, appartiene: è il moralismo. Croce, nemico dei generi, non lo ammette, sebbene sia insensato confondere Montaigne, La Rochefoucauld, Vauvenargues, Saint-Simon e tanti altri moralisti con i filosofi Descartes, Malebranche e Bergson in Francia; Lichtenberg con Hegel in Germania, e Leopardi con Tommmaso d’Aquino, tutt’e due menti precipuamente italiane, in Italia. Che cos’è il moralismo? È il pensiero, in sé non meno rigoroso del pensiero filosofico, che ha per oggetto, in primo luogo, non le forme dell’essere, della realtà di cui l’uomo è parte, ma lo studio, sullo sfondo della realtà, dell’uomo nel suo divenire, nella sua tensione tra bene e male, bello e brutto, vero e falso ecc.
Croce sostiene, ripetiamo, che la vita umana è dominata dalla legge morale e dunque non è fatta per la felicità. Questa affermazione contrasta con l’altra sua affermazione che la realtà crea essa il bene e il male. Ma allora la realtà è al di là del bene e del male, ossia al di là della morale, come già aveva affermato Nietzsche, legittimamente dato che per lui non è vero che la morale domina la vita, ma come Croce non può legittimamente sostenere, visto che per lui la morale (il bene e il male) domina invece la vita. Ma che cosa vuol dire concretamente che la moralità domina la vita? Vuol dire – lasciando per ora da parte il resto del mondo, del mondo che, come già lamenta Lucrezio, non è fatto per l’uomo – che i membri della specie subiscono internamente la forza di gravità della specie stessa e sono costretti a vivere per essa e non per se stessi, come sarebbero portati a fare. Sì, perché ogni individuo è portato naturalmente a perseguire la felicità. Il diritto a questa ricerca è addiritura, non sappiamo con quanto buon gusto, riconosciuto nella costituzione degli Stati Uniti; che diritto è?
Resta il fatto che, come ben nota Croce, la vita non è fatta per la felicità. È fatta, abbiamo detto e bisogna dire, per la specie. Croce, per il quale il termine molto naturalistico di specie era un pugno nell’occhio, parlava della vita o del mondo. Ma la specie è un intermediario indispensabile tra il mondo e l’uomo. Quindi, se proprio non si vuol parlare della specie, si parli dell’umanità, che è la stessa cosa. Ma non concepire questo intermediario, unire direttamente l’uomo al mondo crea un cortocircuito, una difficoltà difficile da risolvere. Perché, che il mondo sia dominato dalla moralità, non è assolutamente sostenibile. La moralità, il mondo la crea (essa si crea) all’interno della specie, come strumento di conservazione, propagazione e potenziamento della specie stessa, come solidarietà biologica tra i membri della medesima, mentre esso stesso è al di là di ogni senso umano e a fortiori della morale umana.
Tra gli uomini esiste la grandezza. Essa non è altro che la vita per la specie, vita centripeta. I grandi fanno della vita per la specie, o per quelle sottospecie che sono la patria, la società, la tribù, la famiglia, la loro meta suprema. Cioè essi, poiché sono grandi, si trovano a incarnare una qualche forma della vita per la specie, per esempio nel campo della politica, dell’arte, della scienza, della filosofia o della semplice moralità pratica. La scelta magari si accompagna a questo stato di fatto quando il soggetto si rende conto della sua inclinazione o vocazione. Quello che allora si raggiunge si può, volendo, chiamare felicità, ed è in realtà la felicità più profonda, quella della realizzazione di sé, sebbene sia in genere troppo faticata per poter essere assimilata a quella che comunemente si chiama felicità. Comporta infatti sacrifici che possono arrivare fino a quello della vita. Si pensi a uno Scipione, a un Gandhi, a una Madre Teresa di Calcutta, a uno Spinoza. In realtà essi rinunciano per tale meta a inseguire la felicità individuale, “egoistica”. Ma i grandi sono pochi. Gli altri si fermano alla ricerca di quest’ultima. Servono la specie il meno possibile e se stessi il più possibile (per esempio ostacolando la procreazione nei rapporti sessuali). Così fanno anche gli animali, il destino di molti dei quali è tuttavia di servire di cibo per altri animali o per gli uomini.
Solo chi non vuole o non può vederlo, può negare che la vita sia fatta non per la felicità, bensì per il servizio della specie. In conseguenza di ciò la ricerca umana si divarica: da un lato si studiano le forme dell’essere e l’operare dello spirito o piuttosto della natura, una ricerca soprattutto concettuale; dall’altro le vicende del cuore umano, preso nella “trappola” della moralità o servitù della specie, soprattutto sostanziale. I filosofi (sistematici) si mettono il più possibile dal punto di vista di un ipotetico Dio o del mondo, il che vuol dire comunque lotta con se stessi e con le proprie tendenze egocentriche e edonistiche, perché la verità si conquista, come afferma Nietzsche, con il coraggio e la durezza contro se stessi, mentre l’errore (spesso) non è sbaglio, ma viltà.
La filosofia, che vede l’uomo come parte infinitesimale della realtà e a questa soggetto, non può che negarne l’autonomia e con essa la felicità. Il moralismo studia l’uomo e i moti del suo cuore anelanti alla felicità, nell’accidentata dialettica del suo divenire nell’ambito di una specie che impone servitù e che è a sua volta radicata in un mondo non fatto per l’uomo e nemmeno per essa soltanto (ogni ente, individuale o collettivo, si contrappone in definitiva al tutto). In questa ricerca di pensiero le conclusioni di Leopardi, e come abbiamo visto anche di filosofi veri e propri, sono effettivamente “la sostanza di tutta la filosofia”, basta che per “filosofia” si intenda qui il pensiero moralistico, il pensiero cioè che incarna l’interesse dell’uomo alla felicità, e non la filosofia, il pensiero che incarna l’interesse dell’uomo alla conoscenza del mondo in sé qual è e caso mai di Dio.
Facciamo un esempio. Mettendosi dal punto di vista di Dio, Leibniz afferma che il nostro mondo è il migliore dei mondi possibili. Mettendosi invece dal punto di vista dell’uomo, ma senza abbandonare la filosofia, Schopenhauer afferma che il nostro mondo è il peggiore dei mondi possibili, perché se fosse ancora un po’ peggiore, non sarebbe più possibile. Viene infine Voltaire, philosophe, cioè in posizione di moralista, e in Candido dimostra piuttosto la seconda che la prima tesi. Dunque, come si vede, la filosofia sistematica, come melodia principale, da sola non basta a coprire tutta la sfera degli interessi conoscitivi umani, ma occorre anche il contrappunto del moralismo. Al punto di vista di Dio (preteso tale) è indispensabile contrapporre il punto di vista dell’uomo, perché solo così l’esplorazione è completa. Qualora poi venisse fuori che la realtà non è niente di stabile e di costituito, niente di afferrabile, allora l’oggetto stesso della filosofia verrebbe meno e quest’ultima sarebbe trasformata in moralismo. Ciò fece Nietzsche, per il quale “da Copernico in poi l’uomo rotola dal centro verso una x”. La realtà, l’essere, di cui la filosofia studia le forme, è diventata una semplice “x”, un abisso senza fondo, impensabile e inconoscibile.
Alla conclusione che Leopardi è un moralista, “ed è soltanto sotto questo riguardo che egli conta”, Cesare Luporini è pervenuto dopo aver sostenuto la tesi del Leopardi filosofo per quarant’anni. Leopardi “non è un filosofo tecnico della politica e della società e non vale sotto questo aspetto”, dice, opponendosi a chi vuol considerarlo un filosofo politico “tra i massimi del nostro Ottocento”, come Luigi Baldacci, e paragonarlo a veri teorici della politica e della società quali Rousseau, Montesquieu, Tocqueville e Schmitt, come fa Mario Andrea Rigoni. Altri, in effetti, potrebbero sostenere, alla stessa stregua, che Leopardi sia un metafisico e un filosofo dell’estetica, visto che la sua “riflessione storico-politica risulta coordinata e solidale” con quella metafisica ed estetica. Ma già Croce nota che in questo campo egli non approdò ad alcun risultato, e comunque allora Leopardi sarebbe troppe cose. Invece è poeta e moralista e basta. Ma come moralista è il più grande che l’Italia possa vantare, come Nietzsche, detto da Croce pseudofilosofo alla stessa stregua di Leopardi, è il più grande moralista che possa vantare la Germania, e forse l’abate Galiani, italiano, a sua volta misconosciuto da Croce, il più grande che possa vantare la Francia.
Croce ritiene di confutare, con quel che dice in questo suo saggio, le verità di Leopardi. Ci riesce? “Io vorrei”, dice Eleandro a Timandro, “che mi dichiaraste precisamente, se vi pare che quello che io credo e dico intorno all’infelicità degli uomini, sia vero o falso”. Confuta Croce il male e il dolore della vita, la vanità e la nullità dell’esistenza? Può egli negare l’eterna distruzione ad opera della natura dei suoi figli e di tutte le cose umane: giovinezza, salute, bellezza, speranza, affetti, gloria, virtù, poesia? Certamente no: tutto questo è inconfutabile, e inconfutabile è il destino di miseria, vecchiaia, malattia e morte di tutti gli esseri. Certo nella vita ci sono anche gioie e soddisfazioni, raggiungimenti e realizzazioni e tante altre buone e ottime cose, compresa la “voluttà paradisiaca”, la “himmlische Wonne” di Goethe, e il ben mangiare e bere, che non è, dice Zarathustra, un’arte vana. E con ciò discordiamo da Schopenhauer, per il quale “una felicità compiuta e positiva è impossibile. Ciò che ci si può aspettare è solo uno stato relativamente poco doloroso”. Ma può l’uomo accettare tutte quelle cose negative a causa di tutte quelle positive? È ammessa qui una compensazione? Nietzsche ha voluto dire di sì, ma ha fatto no. Croce sprona alla moralità, all’attività e al sacrificio, perché muove dalla situazione in cui ci ritroviamo. Ma qui è proprio questa situazione e il ritrovarsi in essa che è in questione. Sta di fatto che Goethe, dopo aver continuato a risollevare, nella sua vita, un macigno che continuava a cadere, come dice, e dopo aver d’altra parte ottenuto dalla vita e dall’arte il massimo che si può ottenere, e aver formato, incarnandolo, un eterno modello dell’uomo, conclude: “Leer, leer und immer leer!” (Vuoto, vuoto ed eterno vuoto!).
È vero che normalmente gli uomini, gli uomini “sani”, cercano di vivere, di risolvere i problemi e di superare i dolori e le perdite, come dice Croce. Ma appunto, lo fanno per libertà o per necessità? E poi, si possono i problemi, i principali problemi della vita, risolvere? Non sono essi destinati a rimanere problemi? Non sono essi problemi proprio perché non hanno soluzione? E si superano le perdite? Non ce ne sono che distruggono o intaccano e ammaccano la vita definitivamente? In realtà le armi di cui gli uomini si servono più volentieri per andare avanti sono l’illusione, la distrazione, la spensieratezza, la dimenticanza, l’eccesso, la menzogna, con sé e con gli altri; non sono le virtù. E ciò sebbene la dignità richieda che si guardi in faccia la realtà e si viva con la verità, per quanto amara, piuttosto che con la menzogna e l’illusione. Come stupirsi allora del fatto che, di fronte a questo spettacolo, “Il Leopardi non si stupiva, ma si sdegnava”? Egli, in effetti, “si sdegnava che gli uomini fossero, con tutto ciò, così gai; e li chiamava codardi, voleva confonderli e farli vergognare e convertirli, cioè infondere in essi […] il suo personale stato d’animo, e ricorreva perciò […] all’ironia, al sarcasmo e al grottesco”. Certo Leopardi aveva torto. Come sempre hanno torto i grandi, che sono lasciati soli dai mediocri, e pretenderebbero che questi fossero grandi come loro. “Combatterò, procomberò sol io”, è costretto a dire, tristemente, ogni grande.
La condanna di Leopardi e dei pessimisti in genere da parte di Croce viene comunque da lontano. Viene dalla sua fede nello spirito. La fede nello spirito è come la fede in Dio: ispira e sostiene. Lo spirito è umano e magari superumano, ma è soprattutto una potenza favorevole agli uomini: li porta, li afferma, li conferma, è attivo, positivo, creativo. Postula quindi un alto ottimismo, drammatico e perfino tragico, se si vuole, ma sempre ottimismo, perché, per chi ci crede, è comunque destinato a trionfare; essendo l’inizio, deve per forza anche essere la fine e il fine delle cose. Dunque Croce, personalmente attivissimo, è attivista, e l’attività si svolge secondo la ruota dei distinti (Estetica, Logica, Economica, Etica), tutti umani e positivi, dove ciascuno, dopo essere stato soggetto, diventa oggetto del seguente. Ma le cose cambiano se, invece della fede nello spirito, si ha la fede o piuttosto la non-fede nella natura, se ci si vede abbandonati in balìa della natura immensa, onnipotente e indifferente. Questa ha un senso e una tendenza contrastante con il senso e la tendenza dell’uomo, che in definitiva nega; quindi il poeta, non potendo non muovere dalla posizione dell’uomo, non può che considerare la natura “il brutto poter che ascoso/ a comun danno impera”, con quel che precede nella terribile e definitiva poesia A se stesso. Vogliamo vederla dal lato migliore? Prendiamo la massima 1251 di Goethe:
La natura riempie con la sua sconfinata fecondità tutti gli spazi […] tutto quello che chiamiamo cattivo, infelice proviene dal fatto che essa non può dare spazio a tutte le creature, e ancor meno può conferire loro durata.
Si capisce, è così. È una necessità. Ma diminuisce, questa necessità, la tragedia umana? Non è questa necessità una crudele necessità della vita? Appena schiuse, le tartarughine corrono sulla sabbia verso il mare. I rapaci le aspettano per farne man bassa. Molte sono catturate, altre si salvano. Questa è la legge della vita. E non si può neanche dire che i rapaci siano cattivi.
Croce è dunque doppiamente ingiusto verso Leopardi, sia perché per lui la vita strozzata fu l’occasione, ma non la causa della sua posizione, condivisa, come Croce stesso dice, da tanti altri la cui vita non fu strozzata; ed è ingiusto perché nega che le conclusioni di Leopardi abbiano dignità di pensiero. Ma questa ingiustizia verso Leopardi si ritorce in ingiustizia verso se stesso. Per il suo purismo e radicalismo, Croce si rifiutò di riconoscere l’importanza che meritano i generi letterari, come forme maestose dello spirito umano, e in particolare il moralismo, genere non inferiore alla filosofia e perpetua pietra d’inciampo per la filosofia. Ciò fece avendo davanti agli occhi la dualità evidentissima e da lui frequentatissima della letteratura francese, dove ai grandi filosofi si affiancano, distinti e separati, i grandi moralisti. In tal modo, però, Croce fece danno anzitutto a se stesso. Perché in lui il moralista sovrasta il filosofo, con la sua larghezza, generosità e onniveggenza, ne supera rigidezze e ristrettezze, offrendo nelle sue opere uno scialo di intelligenza e di umanità. Della purezza e profondità di questa intelligenza e umanità è, in questo suo saggio, la prova più luminosa il giudizio che egli dà nelle ultime pagine sul carattere della poesia di Leopardi, un giudizio che si stampa nella mente e nel cuore e che, oltre ad esssere il più giusto, è anche il più bello, letterariamente, che sia mai stato dato su di essa.
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«[…] Servono la specie il meno possibile e se stessi il più possibile (per esempio ostacolando la procreazione nei rapporti sessuali). Così fanno anche gli animali, il destino di molti dei quali è tuttavia di servire di cibo per altri animali o per gli uomini […]».
Questo è ideologico, antistorico e scientificamente poco attendibile.
Così come lo è un po’ tutto il discorso su Leopardi/Croce di questo articolo. Si tenta un’analisi e poi ci si piazzano in mezzo considerazioni di dubbia attendibilità. Credo che tutto il pensiero moderno e contemporaneo abbia preso, almeno da Galileo in poi, una strada completamente diversa rispetto a quella della filosofia.
Per quanto riguarda l’analisi delle opere di Leopardi, se proprio non vogliamo analizzarle alla luce del materialismo storico (come fa Sanguineti), sarebbe più utile analizzarle nell’ambito di una critica-storia piuttosto che attraverso quel genere letterario che è la filosofia.
“Credo che tutto il pensiero moderno e contemporaneo abbia preso, almeno da Galileo in poi, una strada completamente diversa rispetto a quella della filosofia.”
Se per cortesia può specificare, indicandola, tale strada.
Grazie
si chiama conoscenza scientifica, nicola.
al posto della metafisica, capisci?
Io trovo il saggio di Sossio Giametta di notevole interesse e attualità. In sostanza sono gli argomenti sui quali è ruotato il dibattito intorno a Leopardi nel mese di lezioni a lui dedicate con la mia quinta liceo. Penso che ne proporrò la lettura commentata in classe.
Suffragio autorevole ed esaustivo alle sue tesi si trova comunque nei due volumi dedicati al recanatese da Emanuele Severino.
La scelta fra quelle che riduttivamente un diciottenne può definire “verità” e “felicità” è centrale, non solo a quell’età. E per operarla sono dirimenti passi come questi:
“I grandi fanno della vita per la specie, o per quelle sottospecie che sono la patria, la società, la tribù, la famiglia, la loro meta suprema… si può, volendo, chiamare felicità, ed è in realtà la felicità più profonda, quella della realizzazione di sé, sebbene sia in genere troppo faticata per poter essere assimilata a quella che comunemente si chiama felicità. Comporta infatti sacrifici che possono arrivare fino a quello della vita… Solo chi non vuole o non può vederlo, può negare che la vita sia fatta non per la felicità, bensì per il servizio della specie”.
Caro Busatto,
la mia voleva essere anche una provocazione, dettata dal senso di frustrazione che avevo accumulato nella lettura del lungo articolo, in cui si adoperavano tante belle parole e frasi che volevano speigarci come funziona il mondo e come sono le persone, con tutti i bizantinismi della distinzione tra moralisti e filosofi che proprio non capisco. Non sarò certo io a comporre il requiem per la filosofia. Però che il pensiero moderno abbia preso un’altra strada questo è innegabile. Il pensiero scientifico appunto, che si fonda essenzialmente su una considerazione di buon senso: se cominciamo a diere che tutto dipende da tutto non ci capiamo più nulla. Bisogna dunque isolare, nella complessità del mondo le cose che riteniamo rilevanti per un certo tipo di discorso, trascurando le altre. Con la visionarietà necessaria tuttavia al progresso (scientifico), che intuisce quando un limite è valicabile per spiegare fenomeni fino ad allora inspiegabili.
Citavo Galileo (è vero, dovrei dire “Galilei” però ormai, nel gergo di chi si occupa di scienza, Galileo Galilei è solo, affettuosamente, “Galileo”; come Dante è Dante e non Alighieri) perché, nella confusione filosofico-narrativa dell’articolo, mi era venuto in mente quel bel passo del Saggiatore (1623):
«[…] forse stima che la filosofia sia un libro e una fantasia d’un uomo, come l’Iliade e l’Orlando furioso, libri ne’ quali la meno importante cosa è che quello che vi è scritto sia vero. Signor Sarsi, la cosa non istà così. La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto».
E Galileo è anche uno splendido esempio di letteratura seicentesca.
Gentile Prodan, scusa ma non riesco ad non essere un buffone anche nel fare domande; inoltre evidentemente non facendo neppure ridere sono buffone del genere fallito.Date le specifiche, chiedo: posso esercitare comunque e anche qui male la mia non professione? Non vorrei occupare spazio, tolgiere posto a cose piu’ serie o utili, come bizantinesimi generanti frustrazioni che riescono a sfociare in provocazioni: che fenomenologia! Frustrazioni che inoltre so anche autoprodurmi e di varieta’ diversissime; credo su questo di essere invece un vero,grande industriale. Dunque, posso?