Il mondo di Christina

di Francesca Matteoni

Sfoglio un libro ricevuto da poco, Memory and magic, il catalogo di una mostra sul pittore realista americano Andrew Wyeth. Mi sembra appropriato, sottintende la memoria come tema costante dell’artista, la magia come attitudine dello sguardo. Le scene rurali, la quieta solitudine del paesaggio, la concentrazione sui particolari, come il tessuto sottile di una tenda che ondeggia sul chiaro del vetro, le foglie intrappolate nel ghiaccio o la prospettiva scelta per raccontare una foresta di sempreverdi – il loro riflesso capovolto nel lago, l’immersione e l’uso delle figure umane come strumenti di un messaggio, trasformano la realtà in una dimensione dello spirito.

Nel 1948 Wyeth dipinse uno dei suoi quadri più famosi – Christina’s World, Il mondo di Christina. Una figura esile di donna in abito rosa è seduta sul crinale di una collina, tra l’erba gialla e marrone di un autunno incipiente. Si appoggia con le mani al terreno, dando le spalle allo spettatore, in una torsione del busto verso la cima del colle, dove si stagliano una fattoria e, poco lontano sulla sinistra, un granaio. 

Christina Olson, la donna dietro l’immagine, era la vicina di casa di Andrew e Betsy Wyeth, a Cushing nel Maine. Abitava con il fratello Alvaro in una modesta fattoria: soffriva di una disabilità motoria, ma per tutta la vita rifiutò l’uso della sedia a rotelle. Quando la paralisi delle gambe fu totale, Christina iniziò a trascinarsi per la casa, portandosi dietro il peso del corpo.

Quindi la figura protesa verso la salita, come sbilanciata nel desiderio di ciò che è all’apice, è anche una donna che realmente coabita con un impedimento fisico, che arranca con fatica verso una destinazione. Nella forma dipinta desiderio e fatica sono compagni indissolubili. 

A dirla tutta, come spiega nel saggio che accompagna le tavole del libro Anne Classen Knutson, nonostante la figura sia Christina Olson, c’è ben poco di veritiero nel quadro di Wyeth, a partire dalla modella per l’immagine. Solo le braccia e le mani (i punti di leva), appartengono alla Olson: per il resto posò Betsy, la moglie del pittore. Immagino che sia ancora per la fatica: una simile posizione avrebbe sfiancato Christina, più di altri a causa del suo handicap. La fattoria stessa non è riprodotta fedelmente, ma, soprattutto, nel contesto reale non c’era nessuna pendenza, nessun terreno inclinato. Inventando la collina Wyeth crea un senso della distanza, dà alla scena un valore simbolico, trasmette le sue proprie intenzioni, la misura di un sentimento piuttosto che una resa oggettiva di un paesaggio. 

Wyeth percepiva la casa degli Olson, che non era mai stata modernizzata, come una capsula di tempo da un’altra era. Gli Olson stessi erano parte di una discendenza nel New England che risaliva fino al diciassettesimo secolo, quando uno dei loro antenati aveva presieduto ai processi delle streghe di Salem. Per Wyeth, quindi, Christina divenne “un simbolo della gente del New England nel passato – come realmente erano”.

Dunque ciò che la donna scorge, guardando la fattoria sulla collina, è il passato. Ma quale esattamente? Il passato di un paese e di una famiglia o un tempo interiore, che ci riguarda tutti, anche se siamo nati altrove, se siamo stati nomadi, se sono state altre le montagne o le pianure?

“Sento la solitudine di quella figura – forse la stessa che sentivo quando ero ragazzo”, scrisse il pittore. E ancora: “È stata la mia esperienza quanto la sua”. 

Che cos’è il mondo di Christina?

La casa, la storia familiare a cui la protagonista si volge con la caparbietà con cui rifiuta ogni supporto esterno per le gambe? È il suo corpo svantaggiato e solitario che lei difende dal compromesso di relazione con gli altri e con l’ambiente, come un pegno dell’identità?

O è la nostalgia del pittore, l’anelito verso il padre perso tre anni prima, N.C. Wyeth, pittore a sua volta, che per primo trasmise al figlio la necessità della completa identificazione con i soggetti della sua arte, l’attenzione che permette di essere contemporaneamente l’osservatore e l’oggetto? 

N.C. insegnò a suo figlio non solo a memorizzare la forma concreta di una cosa, ma nel caso di una brocca, per esempio, a conoscerla così bene che avrebbe potuto rivelare “la forma del suo interno come il fenomeno della sua cavità, il suo peso, la sua pressione sul suolo, il suo odore, la partizione dell’aria”.

O ancora è il mistero del passato di ognuno, il legarsi fluido degli incontri, degli episodi vissuti, che confluisce nel paese amato e perduto della nostra appartenenza? 

Guardando l’immagine, c’è un’altra vita di ostinazione e diversità che mi viene in mente: la storia di Helen Keller, nata in Alabama nel 1880, rimasta cieca e sorda a poco più di un anno di vita in seguito ad una malattia, e di Anna Sullivan, Anna dei Miracoli, la donna, anch’essa parzialmente cieca, che fu sua maestra per quasi cinquant’anni. 

La bambina Helen è selvaggia, testarda, viziata – per troppo amore, troppa pietà i genitori non le negano nulla. Non si accorgono che quella che per loro resta una terribile sciagura è a tutti gli effetti la natura della figlia, non comprendono che non è la bambina che loro vedono e assecondano, ma lo spettro della malattia, il senso ineluttabile di una colpa al quale tentano di porre rimedio. Anna al contrario, la vede per come è, lavora perché la bambina non diventi altro da sé, ma abiti interamente il suo corpo, lo possa toccare e non solo dibattersi o crogiolarsi al suo interno, come in una scatola chiusa. Non le fornisce nessuno strumento utile: fa di Helen lo strumento di se stessa, aiutandola nella scoperta di un linguaggio, l’unica proprietà dell’essere umano, ciò che mostra il luogo dove le cose sono sempre state. Non sapevamo che esse erano là, pur percependole, perché non avevamo la parola, il significato, per dirle. Quando con le mani sotto la pompa Helen comprende e ripete il suono “acqua”, non varca l’ingresso di una qualche società civile, ma attinge al senso interiore di vista e udito, una verità individuale riconosciuta nella più universale delle sostanze: traccia i confini della sua propria casa di tempo ed esperienza. Desiderio e fatica. 

La forza dell’acqua gelida sulla pelle della bambina è la stessa che la cima del colle esercita sulla donna nel quadro. Ma l’artista, consapevole del suo linguaggio, fa un passo ulteriore, ponendo la donna di schiena, svincola il nome di Christina dal contingente storico e precario della sua persona, ci indica ciò che lui ha immaginato e ci permette di immaginare qualcosa di nostro, privato. Il nostro corpo frontale entra nella tela, prende posto come un’ombra al termine della luce, negli abiti, i muscoli, la magrezza della figura protagonista. 

Ecco, noi percepiamo gli oggetti all’interno della fattoria come lei li ricorda: una lampada ad olio accesa su di un vecchio tavolo di legno. Un soffitto di travi che nascondono un nido di ghiri. Le finestre grandi, gli stipiti arrugginiti, l’assenza di tendaggi. Le coperte di lana stese e rincalzate sui letti del piano superiore. E più oltre scorgiamo il margine di un’altra terra, altri volti domestici, un campo di ulivi nel tardo pomeriggio, le torri antiche di una città, una periferia industriale, una porta da cui entriamo ed usciamo più volte, che svela la sua irraggiungibile solidità. Noi non vediamo gli occhi di Christina. Il modo in cui si illuminano o affievoliscono eternamente consumati nel guardare. Siamo quegli occhi appena prima della pagina seguente, l’autunno concluso, la stanza del sonno.

25 COMMENTS

  1. Bellissimo testo, Francesca. Ottima l’analisi che fai di questo dipinto e del suo autore. Mi fa venir voglia di approfondirlo. E conferma la mia convinzione che l’occhio di un poeta più di quello del critico riesce a scavare e leggere in profondità un’opera d’arte. E quanti legami ci siano tra arte e poesia….Vedi Baudelaire, Bonnefoy…
    Ti saluto con affetto…
    Corrado Benigni

  2. Articolo molto bello e ci sarebbe tanto da dire. Fa pensare e venir voglia di silenzio. Un caro saluto Francesca.

  3. Sono d’accordo con Nadia. L’articolo accompagna con delicatezza il quadro, si legge la storia di una donna, il suo dolore fisico attraversa una sola visione: il volto torno verso la casa è interpretato nel fascino nostalgico. La debolezza si vede affrontado il coraggio, la speranza di crescere della terra verso il cielo.
    E’ un pezzo luminoso, nel colore del quadro, della terra gialla.
    Lo sforzo di raggiungere la casa è sottolinea nel gesto del mano: si sente il contatto con la tierra secca , la lentezza del camino, il corpo prigionato
    della nudità del mondo.

    Grazie per il pezzo che fa immaginare, commovere.

  4. Bellissima lettura. Concordo con Corrado Benigni quando dice che c’è una certa complicità fra le arti e che i poeti hanno un occhio particolare nella percezione della pittura. Credo che sia necessaria anche una certa affinità fra poeta e pittore. Il realismo di Wyeth, in questo dipinto e in gran parte dei suoi quadri ci offre sempre un’America congelata nella sua essenza selvaggia, brulla, la luce ha toni argentei e trasparenti, e i tratti delle donne, i loro corpi sono sempre sottili, affusolati, persino non belli ma sempre in perfetto equilibrio con la natura e col tempo tanto da immergere il soggetto dei suoi quadri in un’atmosfera fiabesca, trasformando così la memoria in una narrazione senza luogo e tempo, elementi questi che mi è sembrato di percepire anche in alcune cose che ho letto di Francesca Matteoni.
    Complimenti, una piacevole e intensa lettura.
    lisa

  5. Bellissima esegesi poetica trasversale.

    Wyeth mi suggerisce sempre le ragazze tristi, zoppe, fragili come animaletti del loro Zoo di vetro, le bambine e donne sole e disperate di Tennesse Williams, piccole, con un blues di sottofondo che si allarga e strugge alla loro solitudine su campi larghi.

    [Billy Holiday_George Gershwin _Porgy and Bess_1935. Il testo è di DuBose Heyward e Ira Gershwin.]

  6. Summertime, an’ the livin’ is easy
    Fish are jumpin’ an’ the cotton is high
    Oh, Yo daddy’s rich an’ yo’ ma is good lookin’
    So hush, little baby, don’t you cry

    One of these mornin’s, you goin’ to rise up singin’
    Then you’ll spread yo’ wings an’ you’ll take the sky
    But till that mornin’, there’s a nothin’ can harm you
    With daddy & mammy standin’ by

  7. Un realista che dipinge paesaggi non reali, ma ricostruiti dal proprio immaginario, vissuto, lezioni paterne…solo con l’intento di cogliere ciò che c’è dietro, come scrive Francesca, dietro, dietro la casa, la città, la porta. In un certo senso i limiti di una corrente artistica, ma anche quelli dell’uomo. Ciao a tutti quanti hanno scritto cose intelligenti su questo pezzo, ma, le mani e braccia che sembrano zampe di uno struzzo…?

  8. Vi ringrazio tutti per questi bei commenti e per i link, davvero!

    Questo quadro, se non si è capito, mi emoziona moltissimo e mi fermo subito perché ho già detto tutto lì sopra, credo. Trovo che nella figura della Olson oltre che alla fragilità ci sia una forza estrema ed è questo binomio che colpisce.

    Sulle zampe di struzzo – certo la Olson aveva arti molto sottili, probabilmente anche a causa del suo handicap. Comunque ho letto di donne con zampe di capra, uomini con orecchie d’asino, divinità munite di corna … e dall’altra parte del globo di vie dell’emù. Lo struzzo – boh!

  9. mi spiace che tu non le veda, proprio di struzzo, sai quelli che allevano anche da noi…
    che i poeti di scavo abbiano problemi di retina?

  10. ma tu non volevi fare critica d’arte, volevi fare un’ispezione nel mondo di christina e di wyeth, va bene

  11. spiegaci allora perchè andrew wyeth è un pittore realista provinciale e scadente.

    saluti, nonostante

    rs

  12. Provinciale
    Nel 1940, a seguito dell’occupazione di Parigi, Breton va a new york col suo gruppo.
    New York accoglie gli esuli eccetera e diventa il nuovo centro di fermento artistico.
    Morale: a NY si piccona, in Europa si chiude bottega e nel Maine si acquerella.

    Scadente
    beh, non ti basta questo quadro? Certo bisognerebbe vederlo dal vivo ma già lo struzzo me lo squalifica. E i suoi riflessi psichici, compositivi ma non pittorici, non mi attraggono.
    Vuoi mettere, per stare ai modi dell’ottocento, i nostri macchiaioli?

  13. paragonare un realista americano del xx secolo coi macchiaioli (assolutamente metropolitani, non è vero?) è come paragonare il cinema sonoro con quello muto.

    non c’è niente di peggio di un esperto d’arte che guarda i quadri sempre “dal vivo”. la pittura è un insieme di cadaveri luccicanti, vanno bene anche le fotografie, per chi ha sensibilità.

    saluti, nonostante
    rs

  14. Quello che mi colpisce sempre in francesca è la sua disinvoltura molto elegante con la quale ci comunica e fa vivere ciò che lei vede, togliendo a ognuno di noi superficialità e distrazione. Il che è lo stesso.

  15. Francesca è brava. Molto. Sono pronto a scommettere su di lei, potrà fare tanto, anche perchè è giovane. La sua poesia incide, a mio avviso è di “sangue” internazionale. In prosa sa fare anche molto meglio.
    E poi, lasciatemelo dire, non si può non volerle bene. :-)

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Antonio Sparzani, vicentino di nascita, nato durante la guerra, ha insegnato fisica per decenni all’Università di Milano. Il suo corso si chiamava Fondamenti della fisica e gli piaceva molto propinarlo agli studenti. Convintosi definitivamente che i saperi dell’uomo non vadano divisi, cerca da anni di riunire alcuni dei numerosi pezzetti nei quali tali saperi sono stati negli ultimi secoli orribilmente divisi. Soprattutto fisica e letteratura. Con questo fine in testa ha scritto Relatività, quante storie – un percorso scientifico-letterario tra relativo e assoluto (Bollati Boringhieri 2003) e ha poi curato, con Giuliano Boccali, il volume Le virtù dell’inerzia (Bollati Boringhieri 2006). Ha curato anche due volumi del fisico Wolfgang Pauli, sempre per Bollati Boringhieri e ha poi tradotto e curato un saggio di Paul K. Feyerabend, Contro l’autonomia, pubblicato presso Mimesis. Ha curato anche il carteggio tra W. Pauli e Carl Gustav Jung, pubblicato da Moretti & Vitali nel 2016. Scrive poesie e raccontini quando non ne può fare a meno.