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Finestrella viola

di Simona Baldanzi

Ho scritto questo racconto nella primavera del 1996, quando avevo diciannove anni. Test, gravidanza e aborto per me erano una finestra dove guardare per trovarci me, ma anche l’immagine della società che ha o vuole avere di me. 

Viola.

Viola.

Cazzo, è davvero viola!

Mi tocco il naso: sì, gli occhiali ci sono, ci vedo, è, viola. È viola, è viola, è viola. Penso. È viola. Lo dico e me ne convinco. Mi accascio a terra, seduta sul tappeto ancora umido per via della doccia. Mi appoggio alla lavatrice e fisso questo aggeggio di plastica bianca. Passo le dita sulla «finestrella viola» una piccola fessura così perfettamente squadrata. La nascondo ai miei occhi con il pollice quasi per ritrovare il respiro. Lo tolgo. Inutile, è viola. Sento il il freddo entrare nelle mie spalle nude, sento le piastrelle della parete premere sulla schiena e le sento così viscide, così disgustosamente appiccicose da provare un forte desiderio di fuga: alzarsi in piedi.

Rileggo le istruzioni impresse sulla confezione e nella mia testa: le so a memoria quasi quanto le raccomandazioni della mamma prima di uscire la sera. Ma cosa mi viene in mente? Mi guardo allo specchio ancora appannato per via del vapore dell’acqua calda: non riesco a tracciare i lineamenti del mio volto. Ritorno seduta sul tappeto.

Immobile. Silenzio. Qualcuno nell’appartamento accanto tira lo sciacquone. Mi alzo di scatto come svegliata da quel rumore. C’è la realtà, non mi è concesso di pensare, devo fare altre cose. Prima fra tutte? Corri che può arrivare la mamma! Afferro i vestiti sporchi e li butto in lavatrice, sciacquo la doccia, chiudo il dentifricio, raccolgo l’asciugamano, metto il tappeto alla finestra ad asciugare, tolgo i capelli dalla spazzola. Li guardo cadere: sono i miei, lunghi, lisci e neri. Ogni volta mi incanto a vedere i disegni che formano sul pavimento.

No, ora non posso. Spazzo, prendo la «finestrella viola», la scatola di cartone, le scarpe, l’accendino e il mozzicone di sigaretta. Corro, lascio le scarpe nel corridoio, butto nel camino la sigaretta (purtroppo vola anche l’accendino che recupero fra la cenere), perdo nella corsa l’asciugamano legato in vita. Mi fermo e mi guardo i piedi. Certo che sono proprio lunghi! Poi un pensiero mi irrigidisce: quando avrò il pancione non me li vedrò più.. Non ho più voglia di correre. Vado in camerina e mi vesto con una calma incredibile, una pazienza inimmaginabile, una tranquillità che erano anni che non mi concedevo. Mi siedo sul letto, sul mio. Su quello di Gianni c’ è veramente di tutto: sfido una formica a trovarci un posto per riposarsi! E se lui fosse stato una ragazza, una femmina, una donna? No, non mi ci vedo con una sorella… certo che ora come ora potrei parlarle. Fa niente -mi dico -e invece mento! Parlo da sola? Sto impazzendo? No, sto solo scappando da tutte le mie paranoie. Paranoie? Sono incinta, aspetto un bambino, mi gonfierà la pancia come una mongolfiera, avrò le doglie, scoppierò dal dolore mentre centinaia (oddio, forse meno!) di infermiere mi urleranno: -Spingi! Respira più forte, di più… -E intanto il rosso mi colorerà le guance, gli occhi, i capelli, e poi gli urli, le smorfie…

e occhio alla dieta (se penso alla mamma che dopo avermi sfornata è ingrassata di venti chili mi vengono i brividi), cibi naturali, creme per le smagliature, ginnastica dolce… Cavolo, come faccio a presentarmi all’esame di maturità con una buzza di cinque mesi? Sì, queste sono paranoie. Ma il bambino? Io la madre, lui il figlio: questa è una cosa seria, non sono le solite stronzate.

Due anni. Come fanno due persone a volersi bene, a stare insieme due anni e pochi giorni dopo aver festeggiato con tanto di regalo simbolico si lasciano? E come fanno dopo essersi lasciati a ritrovarsi quasi di nascosto (come due clandestini con l’unico scopo di varcare il confine) di nuovo l’uno ad assaggiare il corpo dell’altro?

Forse perché per noi il sesso era diventato un mondo da scoprire, una dimensione spaziale o più semplicemente un’arte di comunicare. È il corpo che parla. La parola muore molto prima di uno sguardo. E poi con lui è stata la mia prima volta. Fare l’amore è capire perché l’anima ha il suo domicilio nella carne. Pensavo che fare del sesso volesse dire diventare bruscamente adulti, malinconicamente grandi. lo non ci stavo, mi attaccavo con forza al ricordo di me bambina: per questo quando mi spogliai, quel giorno, non mi tolsi i calzini. Non so. Mi sentivo protetta.

Da quel giorno ne abbiamo combinate di «porcherie»! Bastava sentire i nostri odori mescolarsi nell’aria per scappare via da tutto e da tutti e rifugiarsi l’uno nell’altro. Non sempre andava bene e io spesso rischiavo troppo a fare la permalosa…

Non ci siamo perdonati mai niente.

Nessun compromesso. Nessuna rinuncia.

Rispetto e fiducia: forse non bastava..

Lui pessimista, estremista, realista.

lo sognatrice, idealista, moderata.

Gelosia e orgoglio ci hanno messo lo zampino?

Volersi così tanto bene, da non accettare il minimo errore? Comunque sia sotto le sue coperte ci sono tornata e lui mi ha accolta con l’amore, quello puro: l’ho sentito nei suoi baci e nelle sue coccole, quelle che mi concedeva di rado, quasi dosato come un contagocce!

Nella nostra pazzia, nel nostro viaggio, nel nostro percorrere autostrade proibite, non ci siamo ricordati che il preservativo, compagno di mille avventure, era stato tagliato fuori. Mi sembra ancora di vederlo lì, sul tavolino vicino alla finestra. Sbagliare è umano, ma gli errori si pagano. Sempre.

Qualche giorno fa sono andata a correre su per una stradina vicino a casa mia. Ci andavo spesso d’estate, la mattina presto.

Mi portavo dietro il walk-man e salutavo ogni volta un vecchietto che si recava lì per coltivare il suo fazzoletto di terra. Questa volta non c’era. Non era neanche una bella giornata. Eppure le mie gambe avevano voglia di lasciarsi andare, il mio corpo era attratto dall’idea del sudore caldo che ti avvolge come una pellicola sottile.

Sentivo il bisogno di uscire di casa, non volevo pensare al fatto che quel maledetto «ciclo» non tornava. Da quando ho smesso di giocare a pallavolo il fiato ha perso la sua consistenza. Me ne sono accorta subito: il volume del mio respiro stonava con la musica proveniente dalle cuffie. Venti minuti ed ero stesa. Mi sono fermata in un prato. Da lassù si vede tutto. Laggiù c’è la mia casa, i giardini, la chiesa, il parcheggio per gli autobus… Eccoli, li sento, sono vicini. Sono sempre nascosti nelle cose che ti circondano, sono impalpabili eppure hanno un peso, una dimensione, un colore. Loro: i ricordi. Il più delle volte li ritrovi nei luoghi dove in un passato non si

chiamavano così, erano semplici episodi. Il tempo, il pensiero li trasformano, li modellano, li arricchiscono, raramente li cancellano. Per lo meno a me non è mai capitato. Faccio un respiro profondo, corro sotto un albero altissimo (non so di che albero si tratti, sono negata per riconoscerli!) e guardo fra i rami. Lassù incastrato fra qualche ramo ci deve essere il boomerang che Yuri aveva costruito da piccolo e ritrovato in cantina. Ricordo ancora quel lancio. Quel pezzo di legno affilato girava vorticosamente, in alto, la traiettoria sembrava perfetta e invece… E io che non avevo neanche provato! Lui mi consolò, mi disse che me ne avrebbe fatto un altro e che ci avremmo provato di nuovo. Ma la voglia di riprovare non c’era. Quello è stato l’ultimo lancio. Neanche per l’aquilone che avevamo costruito insieme c’è stata una speranza. Neanche un filo di vento. Non l’ho mai visto volare.

Sento la chiave girare nella serratura della porta: è lei. È tornata. Prendo lo zaino, ci metto dentro la «finestrella viola», prendo il giubbotto, la sciarpa…

«Ehi, dove vai? Non lo vedi che hai ancora i capelli bagnati?»

«Mamma senti, è tardi! Devo ancora finire il vestito per stasera, ci si vede dopo, ciao! » Sbatto la porta. Per il momento è out, è fuori dal mio campo visivo e anche da quello mentale. Più pensi alla mamma più ti senti irresponsabile, aumentano i sensi di colpa e l’autodistruzione è in continua attesa della sua ora… Via cancellata!

Senza tante cerimonie butto il test nel secchio della spazzatura. Meritava di diventare fonte di ricordo? Un souvenir sulla mensola? Non mi pare il caso di continuare con queste storie. Quella era la fine che meritava.

Oggi è carnevale. Stasera si va a ballare. Ora devo andare a casa di Mirko per finire i costumi. Prima di fare le cose le devo mettere a fuoco nella mia mente. Normalmente è banale. Oggi invece è una fatica immensa. Siamo nel garage di Mirko. Mi concentro sulla gommapiuma e riesco a star bene. Creare con le mie mani

oggetti di ogni genere, disegnare, insomma, l’arte è sempre stata la mia uscita di emergenza. Tutto quello che ho dentro scorre nel sangue e nei muscoli fino alle dita. Da lì parte l’energia e le mani si muovono velocemente spinte dai sentimenti. Avrei voluto fare l’artistico e invece ho scelto il commerciale. Autolesionista? No. In fondo mi è servito a capire quanto mi manca l’ arte, fino a che punto io la ami. E poi a scuola non è poi così tanto male, se avessi scelto l’artistico non avrei conosciuto certi compagni. L ‘importante è andare avanti e pensare che niente è perduto.

Mirko mi guarda soddisfatto: abbiamo finito. Lui è vestito da pandoro Bauli, io da alveare con tutte le api di cartapesta. Mirko mi guarda, punta l’indice su un’ape e mi chiede: «Basteranno?»

Rispondo convinta: «Sì, vanno bene queste!» E intanto sullo schermo della mia memoria scorrono le parole di Emily Dickinson «… e se saran poche le api, basteranno i sogni.»

Dimenticavo: Valeria si veste da ape. Lei non è paragonabile alle altre api. Stasera saremo una coppia fantastica. Valeria, Valeria, Valeria. Se pensi intensamente a un nome lo associ a tante immagini, se invece lo ripeti a voce alta, pensi solo al suono che esce dalle tue labbra e lo senti strano, perde valore consonante, vocale, consonante… Valeria, Valeria, Valeria.

Quante volte ho scritto questo nome, su biglietti, lettere, nel mio e nel suo diario. Ci conosciamo fin dalla culla. Il destino ci ha fatto nascere insieme, ci ha fatto incontrare, ci ha fatto allontanare. Credo nel destino? Non lo so, ma qualcosa c’è che ci fa percorrere una strada, un cerchio, ognuno ha il suo e nascono tante catene, ma gli anelli rimangono sempre aperti, pronti a staccarsi. Questo lo scegli.

Vale e io ci siamo allontanate, piano piano. Lei si è ritirata in silenzio per non disturbare l’arrivo di Yuri. Abbiamo combattuto tante battaglie, ma quella era la più dura e i ricordi di anni passati insieme non erano più armi efficienti per continuare a sopravvivere insieme. Nessuna delle due lo voleva, non poteva finire così, stavamo mano nella mano aggrappate ai sogni per cercare di salvare il nostro legame, ma i sogni diventavano sempre più diversi, sempre meno consistenti, perdevano sostanza, non ci sostenevano più.

Stasera lei si veste da ape e io da alveare: ci stiamo di nuovo cercando. Piano, piano per paura di farci del male. Quando giocavamo a Barbie era tutto più facile o forse no, era tutto più difficile (era un divertimento crearci dei problemi!} però, beh, in fondo finiva sempre bene. La storia che sto vivendo non l’ avevamo mai inventata e ora mi chiedo che cosa penserebbe se gliela raccontassi.

C’era una volta una ragazza che… Spesso ci siamo trovate a parlare come se raccontassimo favole, tanto per scansare la realtà. Oggi la favola non c’ è, non ne ho

neanche voglia, ma lei mi manca. È una piccola fata che abita nel mio bosco, la più luminosa, la più bella. Solo lei riesce ad abbracciarmi senza avvolgermi con le braccia, senza toccarmi, senza neanche sfiorarmi. Ha certamente qualche potere magico che nasconde dietro la sua fragilità, dentro i suoi occhi verdi. Mi incanta e mi sorprende. Ho acceso l’incenso. Sono di nuovo a casa. Questo odore… è l’incenso che mi ha regalato lei per Natale, insieme a una scatola di legno dipinta e a un biglietto. C’è scritto:

Cara Simo, questo è un piccolo altarino della felicità. Infatti quando sarai triste potrai aprire la scatolina, accendere un incenso, respirare e… leggere «pensiero felice» assaporandone il succo… Spero che funzioni. A te l’onore di collaudarlo…

Auguri Valeria

P .S. I conigli sono un buon auspicio cinese

 

La scatola è aperta. Dentro ci sono tanti fiorellini secchi e i cinque conigli bianchi di porcellana. Naturalmente c’è «pensiero felice». Leggo…

Chiudere gli occhi e sentire una fragranza degli Dei… Pensare… La luce, il rosso del sole al tramonto, la sabbia fresca sotto i piedi, le mani grassotte di un bambino, la cioccolata densa, le coperte di lana davanti al fuoco, l’ odore del melograno, un mazzo di agrifoglio verde ed erica in fiore, il sudore, musica di un harem danzante, foglie secche d’autunno, bambini che mangiano la neve… Piedi nudi sulla terra fresca. Stasera Vale ci si diverte. A dopo!

Entro in scena. Mi sento pronta a recitare la mia parte. Mi guardano in tanti, che hanno da guardare? Non hanno mai visto un alveare? E va bene, il vestito è originale, io ho voglia di star bene e di divertirmi. Essere al centro dell’attenzione non fa parte del mio carattere, ma stasera accetto tutto pur di non pensare. Ho portato anche la macchina fotografica: tutti fermi, sorridete…

Clip! Fatte! Immortalata anche questa serata.

L’ ape-Valeria mi svolazza intorno, ci prendiamo in giro a vicenda, rimbalziamo l’una sull’altra per via della gommapiuma. Si ride, si fuma, si balla, si gironzola.

Come al solito i grulli li becco tutti io, a questo giro sono mascherati, ma si riconoscono ugualmente. Si avvicinano quattro tipi, le quattro tartarughe ninja. È inutile scansarli, tanto vale stare al gioco. «Ehi alveare le api dove le hai lasciate?» chiede una tartaruga. «Non le vedi? Sono qui attaccate!» Rispondo e penso che questo sia uno strano e stupido modo di imbroccare.

«Ma pungono?» continua.

«Questa che ho in testa ha ancora il pungiglione ed è cattivissima…»

Si avvicina, punta il dito verso la mia pancia e chiede:

«E dentro ce l’hai il miele?»

Non mi va di rispondere, mi allontano borbottando:

«Cretino, non c’ho il miele, aspetto un bambino! »

Perchè diavolo mi ha rovinato la festa?

Torno dai miei amici e li guardo ballare. Sento la voce del dj che, con mia grande sorpresa, annuncia: «Facciamo tanti auguri a Simona che oggi compie diciannove anni… da tutti i suoi amici!»

Mi stanno venendo incontro, mi baciano, mi fanno gli auguri uno dopo l’altro. È passata la mezzanotte ed è il mio compleanno. 21 febbraio. Mai come adesso vorrei che non fosse il mio compleanno. Non lo voglio.

Intanto la musica va avanti e io non mi diverto più. C’è anche lui. Lui gli auguri non me li ha fatti. Non ci parliamo. Lo guardo ballare. È così che si sfoga. La sua gelosia nei miei confronti lo ha fatto talmente soffrire da odiarmi. Gli avevo suggerito come mascherarsi, ma figurati se accetta un mio consiglio… Ha fatto di testa sua. Litigavamo spesso perché io volevo spingerlo a farsi degli amici, a uscire… lui non voleva e adesso? Ora è sempre in giro, a bere, a ballare, torna tardi. Non lo capisco: che cosa gli è successo? Devo dirgli del test! Mi faccio spazio fra la gente (con questa gommapiuma mi sento ingombrante come una donna gravida) e arrivo di fronte a lui. Gli urlo che gli devo dire una cosa, ma non capisce. Ha bevuto, è un po’ allegro. Sarà il caso di dirglielo? Sincerità e rabbia mi guidano.

«Yuri, ho fatto il test!» urlo.

Ha capito.

Ci allontaniamo dalla pista.

Ha gli occhiali da sole: non sopporto non vedere gli occhi della gente quando parlo loro.

«Come è andata?» mi chiede.

«Male.» Ora sì che vorrei vedere i suoi occhi. Tutta la sua euforia si è spenta in un attimo. Si mette seduto in terra, appoggiato al muro (questa posizione l’ho già vista!) e io mi siedo vicino.

«Senti, non ti devi preoccupare, tanto ho già preso la mia decisione.»

Mi interrompe: «E quale sarebbe?»

E io: «Come faccio a tenerlo in una situazione del genere?»

Non risponde. Stiamo in silenzio…

«Voglio stare un po’ da solo…»

Mi alzo e lo lascio lì, solo. C’è un sacco di gente intorno, ma lui è solo. Ho preso la mia decisione? Quale decisione?

Non è vero, è troppo difficile. Sto scoppiando dal caldo, non respiro. È l’ ora di tornare a casa. Esco: sì l’aria, finalmente! E mentre cammino nel buio mi chiedo: perché mi ha mandata via? Perchè non mi voleva vicino?

«Simona, non vai a scuola?»

«Mhh ! » mugolo, mentre mi rigiro fra le coperte.

«Simo sei sveglia?»

«No non vo!»

« Guarda, è nevicato …»

«Mamma, lasciami dormire.»

«Ricordati la pentola sul fuoco, noi si va. Ciao! »

Certo che la mamma pur di farmi alzare ne inventerebbe di tutti i colori… la neve… Sono sola: Gianni a scuola, babbo e mamma se ne sono appena andati. La fabbrica li attende: che culo!

Affondo di nuovo la testa nel cuscino. Non ho voglia di alzarmi, non ho voglia di vivere questo giorno. Avrei pagato se fosse stato solo un sogno! Sono stanca, ma non riesco ad addormentarmi. Ormai sono sveglia: addio alla pace nel sonno! Basta fuggire, devo affrontare i miei pensieri.

Ma cosa ho detto ieri sera? O non ho fatto nessuna scelta. Non ancora.

È questo il problema: non so che cosa fare. È sempre stato un sogno avere un bambino da Yuri. Si giocava spesso col futuro..

Ricordo che un’amica ci disse che ci vedeva, nel futuro, Yuri vecchio pescatore a rammendare le reti e io proprietaria di una locanda sul porto, una bella coppia

insomma. Io mi divertivo ad arredare la nostra casa immaginaria e lui mi stava ad ascoltare… Si giocava così per ore. Ma una volta lui mi chiese di andare ad abitare con lui e io rifiutai. Non era più un gioco e io non me la sentivo.. Era diventato troppo possessivo, così morbosamente attaccato che vivere insieme avrebbe significato isolamento completo dal resto del mondo.

Mi alzo. Vado in bagno. Torno in camerina. Guardo la finestra, le tende sono tirate…cosa? ! È nevicato davvero?

Si è tutto bianco: la mamma aveva detto la verità.

Non so per quale motivo, ma associo immediatamente l’idea della neve al bambino. Mi tocco la pancia appena coperta dal pigiama e continuo a guardare fuori. Mi immagino il feto grosso come un fiocco di neve. Apro la finestra, allungo il braccio e rivolgo il palmo della mano verso l’alto. Cadono i fiocchi e al contatto con la mia mano calda si sciolgono, diventano acqua e mi sfuggono. Adesso non torneranno più a essere neve, io ho interrotto la loro traiettoria, ho modificato la loro natura.

Significa forse questo abortire? Non lo so, non lo so.

Non c’è solo l’idea dell’aborto, dell’interruzione di gravidanza, è l’insieme che mi sconvolge. Non sono credente, non sono cattolica, non sono d’accordo nel descrivere l’aborto come un omicidio. Una donna che sceglie di abortire deve superare un trauma, non può considerarsi un’assassina, è un essere umano che vive in una società soffocante che allo stesso tempo ti isola, ti classifica, ti analizza per poi gettarti in un fosso se non sei economicamente utile, se non rispetti i canoni della normalità. Il problema del diverso, no? ! Io non avrei paura di sentirmi diversa né se scelgo di abortire né se scelgo di tenerlo. Già lo sono, diversa: non mi interessa di essere accettata in questo mondo se il prezzo da pagare è quello di tenere legato il mio istinto, di chiudere la bocca al mio io, di firmare compromessi, di accecare i miei occhi… No, no e poi no. Forse è per questo che i miei genitori si preoccupano spesso

per me e per il mio futuro! No, non è questo il problema.

Il fatto è che non so fino a che punto voglio bene a questa creatura. Fino a che punto la voglio. Riuscirei a non fargli pesare il bene che invece provo per Yuri? Cioè, vorrei bene al bambino o solamente a ciò che rappresenta? Posso farlo nascere senza una famiglia? Non correrò il rischio di possederlo anziché amarlo? E il padre? Già…

Se penso al padre, alla figura del babbo, penso al mio. Il nostro dialogo è fatto veramente di poche parole: non ci sono mai servite. Da piccola si comunicava giocando.

Mi sembrava un gigante buono che mi faceva vedere le cose da tutti i punti di vista: mi sollevava, mi portava in giro sopra le spalle, mi teneva a «penzoloni» con le gambe in su e i capelli che toccavano terra, mi faceva volare tenendomi le braccia così forte che niente, pensavo, avrebbe potuto staccarci. Le sue mani erano cinque volte le mie, le misuravo spesso, le scrutavo. Mani che hanno sempre lavorato onestamente. Le mani dure del babbo sono state il primo segnale di avvicinamento a ideali di uguaglianza, giustizia, tolleranza, solidarietà, libertà… Ricordo quando la sera dopo cena il babbo si sdraiava sul divano per riposarsi mentre guardava la televisione e io cercavo un po’ di posto per distendermi vicino a lui. Poggiavo la testa sul torace e ascoltavo il battito del suo cuore, il suo respiro, poi mi concentravo

e cercavo di seguire il suo tempo, di inspirare ed espirare quando lo faceva lui. Era una sfida che ripetevo ogni volta: era il mio modo per sentirlo vicino, mi sentivo carne della sua stessa carne quando ci riuscivo.

Ricordo le sere d’estate, la caccia alle zanzare prima di andare a dormire. Gianni e io dai nostri letti le avvistavamo e il babbo in mutande e canottiera arrivava con uno straccio bianco pronto per fare la strage. Noi lo applaudivamo, facevamo il tifo mentre quel pezzo di stoffa volava da una parete all’ altra.

Il padre di mio figlio deve avere il potere di sentire il bambino chiedere aiuto la notte per colpa di una zanzara che non lo fa dormire, deve avere le ali per entrare nella sua stanza e lo straccio magico per aiutarlo ad affrontare le sue paure. lo la parte del padre non la posso recitare. Mi sembra già abbastanza il ruolo di mamma.

Abbiamo parlato: Yuri vuole il bambino …pensa che il nostro bambino possa fargli dimenticare il male che gli ho fatto. Ma quale male? Il fatto che quest’estate ho conosciuto un ragazzo e che, semplicemente da amico, mi ha dato qualcosa di più che Yuri in quel periodo non mi aveva dato? Tante volte è facile addossarsi delle colpe… Quando gli chiesi se voleva rovinare tutto ciò che ci riguardava, le vittorie e le sconfitte che avevamo avuto insieme, due anni concentrati di sentimenti per colpa di quella storia, lui mi rispose di sì e poi pianse. Non l’avevo mai visto piangere.

Piansi anch’io, ma erano due modi diversi di piangere, distinti. Ora ritrovo quella tenerezza nel suo sorriso, nelle sue mani che mi accarezzano la pancia. Scherza: vuole un maschio!

«La femmina la faremo più in là» dice. Cerca di farmi star bene e io che ne ho bisogno mi lascio trascinare. Gli chiedo se può abbracciarmi. Lui mi sorride e mi dice: «C’era bisogno di chiederlo?»

Adesso la bambina sono io e lui mi tiene in collo, mi accarezza i capelli, mi bacia la fronte. «La mia mammina…» dice.

Inizio a piangere, singhiozzi, lacrime, stringo la sua maglia. Sento un forte dolore, ma non riesco a capire. Non so che cosa fare… non so che cosa fare, non riesco a capire! Yuri, il bambino, io, Yuri e io, Yuri io e il bambino…

Che cosa mi sta succedendo? Non sono io quella che ha trascorso questa giornata… è già sera e non mi sembra che questo giorno sia trascorso, non mi sembra di essere stata viva. Prendo un foglio e butto giù pensieri…

Non ne posso più di questo turbine… spero che un giorno il bianco della neve renda tutti uguali. Piangerò, sì e tutti mi guarderanno. Sono sola. Il mio io è solo e fragile e leggero come una bolla di sapone… Non farti distruggere quello che hai costruito in anni di vita. Ho voglia di un bambino che gioca con un trenino di legno, che lo fa correre su rotaie di nuvole… scrivere per non sentire sapore di risate amare, di bronci da cucciolo, da piccolo uomo. Voglia di tè caldo sorseggiato piano, piano da una cascata che viene dal paese dei balocchi. Un giorno pioverà e sull’asfalto rimarranno pozzanghere d’olio variegate di dolci ricordi, di illusioni vecchie e nuove. Si sentiranno odori di paesi lontani, di sole e di luna, di giorni e di notti interminabili illuminate da sprazzi di cielo rosso fiammante, luci che non si spegneranno, caldo fuoco, voglia di musica, di battaglie, di cavalieri, di armi potenti, di un medioevo presente… ho voglia di vivere dopo la morte, di verità, quella sì, sempre e solo quella… sincerità, lealtà, rispetto, coerenza, bandiere che sventolano, che cambiano al vento… quello gelido, quello pungente, quello che fa male, che fa soffrire a poco a poco… una tortura che continuerà finché qualcuno o qualcosa non metterà un punto. Voglia di non addormentarsi mai. Voglia di un uomo che ti scaldi le mani, che beva le tue lacrime fin quando ne avrà voglia, fin quando avrà sete… e camminare insieme, guardare una macchia d’argento che galleggia su un lago… immergersi, avere solo il senso del tatto, solo quello… prima di morire non ci saranno parole, ma solo immagini, per ultimo ci sarà un’immagine. Voglia di sussurrare, voglia di un dolore di vita… di una bacchetta magica, di una chiave di ferro molto vecchia, arrugginita. Un cancello si apre… mi chiama, lo sento lontano, un urlo accattivante, invitante, sensibile e morbido come la pelle di un neonato. Voglia di blues, di vicoli ciechi, di una birra e un panino, di un tavolino di legno con una candela che brucia, brucia… e la cenere si posa su occhi spenti, grigi, opachi… una televisione accesa con i cartoni animati, un sacchetto di pop-corn aperto… uno yo-yo che ha un filo lungo che va dalla terra al cielo, tocca un aquilone, una farfalla, un palloncino a forma di coniglio, che sorride e mormora parole senza senso.

Sete d’aria, voglia di respirare fuoco, di bere spirito e toccare accenni di melodia senza tempo. L’anima cala, scende, sempre più, nel profondo, è buio, il sole è tramontato e le finestre si chiudono. Notte… e se veramente c’è un’anima che sta crescendo dentro di me, so che l’adorerò per sempre!

Scendo dall’autobus e indosso un paio di occhiali da sole: non ho dormito molto e ho gli occhi gonfi e delle occhiaie che sembro un panda. Accendo una sigaretta mentre cammino lungo la stradina che porta alla scuola. Dentro di me c’ è una strana tranquillità: il rumore degli scooter che passano sfiorandomi non mi dà ai nervi come invece succede tutte le mattine. Ho anche appetito: veramente strano visto che in queste settimane sono dimagrita di tre chili perchè il mio corpo si rifiutava spesso di continuare il suo moto. È stata sempre una mia paranoia quella di perdere qualche chilo. Non perché volevo essere più bella, più attraente, ma perché volevo che il mio corpo rispecchiasse la mia fragilità: robusta come sono mi sento protetta da una corazza che in realtà non ho. Adesso devo recuperare le forze perdute, devo nutrire il mio bambino. Allora lo voglio veramente? L ‘istinto animale mi dice di sì ho una fame spaventosa!

Mi metto seduta al tavolino del bar della scuola mentre arrivano le mie compagne di classe. Si scusano per gli auguri in ritardo. Sorrido loro e alzo le spalle: mi fanno tenerezza e questa sensazione che provo mi dà una certa energia. Loro non sanno niente e questo gioco mi suscita un lieve piacere, mi sento come se fossi dietro a uno di quei vetri che usano alla polizia affinché un testimone riconosca l’assassino senza che questi lo possa vedere: io le guardo e loro non mi vedono. Eccitante e pericoloso trovare una punta di piacere in una situazione per niente facile da affrontare. Fatto sta che mi sento a mio agio anche perché in questo momento dei compiti e delle interrogazioni me ne frega assai il giusto!

Sono in classe e non ascolto nessuno: continuo a scarabocchiare un foglio e a guardare fuori dalla finestra. Provo a guardare il sole senza gli occhiali da sole: la sua luce è troppo potente. Mi rimetto gli occhiali tanto gli altri pensano che ho un po’ di congiuntivite. Questa stanza mi soffoca, non riesco a stare ferma.

«Posso uscire?» chiedo.

Cenno del «sì» da parte della prof. Permesso accolto.

Esco. Vago per il corridoio.

Vado verso le scale d’emergenza, apro la finestra e accendo una sigaretta. Sulla sinistra il corridoio si allarga, c’è una specie di rientranza dove ci sono tavoli e sedie spaccate: è qui che si fuma di nascosto. Mi siedo su un tavolino ancora integro e continuo a guardare oltre la finestra. Poi il mio sguardo si sposta sulle scritte sul

muro e su una lavagna incrinata. Le leggo una dopo l’altra. Perché c’ è questo bisogno sfrenato di scrivere frasi del genere «Marco T.V.A.B.» o «Anna ti amo by me»?

All’improvviso arriva il bidello. Ora c’è anche lui a rompere le scatole, penso.

«Che fai?» mi chiede.

«Pausa… ogni tanto ci vuole» rispondo.

«Te l’ho insegnato io per la finestra?»

«No, veramente la so aprire da sola.»

«No, non per aprirla…»

Lo guardo un po’ perplessa, le grinze mi si formano sulla fronte: mi aspettavo una bella parte di merda e questo mi parla della finestra…

«Lo vedi?! » mi indica ancora la finestra. «Vedi sul vetro? C’è il riflesso. Appena aperta in questo modo puoi vedere chi arriva dal corridoio…»

È vero, non ci avevo pensato !

«Così se arriva qualcuno te ne accorgi e se è il preside butti la sigaretta!» conclude.

«È vero! Grazie!» gli sorrido.

Se ne va.

Continuo a guardare il riflesso: il bidello mi ha veramente stupito, non me l’aspettavo!

«… così se arriva qualcuno te ne accorgi…» già, ma nell’anima non ci sono riflessi e quando arriva qualcuno non sei pronta per gettare la sigaretta. L’io si sorprende,

sempre, a ogni nuova presenza. O forse non ho ancora trovato chi mi insegni il trucco…
Cielo grigio sui miei capelli, l’acqua scorre sotto i miei piedi sospesi in aria.

Fumo di freddo, fumo di sigaretta, fumo di fuoco sull’ altra riva, fumo di illusioni bruciate. Apro lo specchio, mi guardo e mi riconosco, non sono proprio sola… il muretto è ghiaccio. Passa un vecchio, mi fissa, io sorrido. Chissà che cosa penserà… forse che sono una pazza a stare lì… sicuramente per lui non è normale come per me non lo è sentire questo forte dolore. Silenzio, un attimo di pace, mi chiedo come ho fatto a trovarlo… poi arrivano tre bambini e rompono con allegria e ingenuità quella mia armonia. Non importa, mi fanno compagnia… corrono, ridono, mi guardano curiosi, finalmente senza pregiudizi. Lego la scarpina a Lucia che non ha paura delle mie grandi mani…

Mi alzo per andare.

«Sono pronta» mi dico.

Tre bimbi in riva al fiume…

Vado verso il circolo, la «casa del popolo», culla di lunghe giornate senza fine. I miei amici e io ci ritroviamo lì, fra una spuma bionda, una canzone al juke-box, un giochino al videogame, un caffè nella tazzina di vetro come solo la Laura (la barista) sa fare… Tutte le volte che entro o esco devo leggere il cartellino sul portone: tirare o spingere. Mai una volta che vada a colpo sicuro!

Entro nella cosiddetta «stanzetta della televisione» e ripenso a quest’estate, quando era piena di scatoloni con dentro viveri e generi di prima necessità raccolti per un campo profughi di Spalato. Sul diario di quei giorni scrivevo:

«Sono contenta di questa raccolta e non vedo l’ora che arrivi tutto a destinazione. Partirà anche Yuri… non vorrei che andasse senza di me, ma i miei non ne vogliono sapere… Non sai quanto l’ammiro… vedrà quei bambini ricevere pacchi di biscotti e vasetti di nutella, vedrà i loro volti, la gente, il pianto e la gioia. Vedrà da vicino, capirà tante cose, andrà là dove c’ è la guerra, dove la gente muore… vedrà certi paesaggi che visti in televisione sembrano così lontani e fuori dal tempo. Yuri ti voglio bene, anche per questo, per quello che fai, per come la pensi, per la tua terribile coerenza… per ciò che rappresenti per me, per ciò che rappresenterai per quei profughi quando ti vedranno… Yuri fammi un piacere… porta l’amore che ho dentro e lascialo lì, accarezza quella gente con la tenerezza che avresti per me.. a noi due non ci rimane nient’altro.»

E oggi tutta quell’ammirazione dov’è finita? Perché mi sento vuota e umida come questa stanza?

Ora è arrivato anche Yuri, appena uscito dal lavoro, sudicio come sempre, come un bastone da pollaio, si dice qui.

È gentile, mi prende la mano come per farmi forza. Mi chiede come sto e abbassa lo sguardo sulla pancia. Non vuole farmi promesse sul futuro però mi bacia, mi abbraccia, mi sente ancora sua, si contraddice in ogni momento. Quasi si frena quando si accorge di dimostrarmi troppo affetto. Parlare con lui mi fa star bene, mi sento leggera e i problemi sembrano più facili da risolvere. Ce la faremo a tenere questo bambino, crescerà sano e forte come il babbo, sensibile e dolce come la mamma. Mi sento ottimista, il bambino mi ha ridato speranza, sete di vita. Yuri mi sta proibendo di fumare: Okay, riuscirò anche in questo! Per questo bambino farei di tutto, farò di tutto… non vedo l’ora di guardarlo negli occhi! Comunque la prossima settimana andrò a fare tutti i controlli necessari e Yuri mi aiuterà. Sì, mi sento bene!

Sono vicino a lui e sto andando verso casa. Stiamo passando dai giardini, sotto il salice piangente, vicino al laghetto circondato dalla staccionata di legno dove io mi appoggiavo per buttare un po’ d’erba alle paperelle… la sera, quando aspettavo Yuri.

«Mi sembra d’essere tornato indietro nel passato!» mi dice. Guarda il cielo e nei suoi occhi c’ è una luce strana, malinconica, forse.

Si cammina, piano, come se volessimo fermare il tempo, o forse qualcosa di molto più grosso di noi. Lo saluto e mi chiedo: come mai è così difficile staccarci?

Sono dieci minuti che fisso le mie mutande. Sono seduta sul cesso e guardo le mutande appena calate sotto le ginocchia. Sono macchiate, rosso, rosso e ancora

rosso. Quel rosso così familiare alle donne… non riesco a crederci, non sono incinta. Sto piangendo e non riesco a muovermi. Sento le lacrime scorrere sulle guance, sotto il mento, sul collo… Mi si appanna la vista e vedo unicamente una chiosa rossa sempre più sfumata. Non c’è, il bambino non c’è! E io piango? Sì. Di solito l’assorbente non mi dà fastidio, ma stasera è una presenza ingombrante, lo odio direi. Mi sento come se avessi abortito… ma cosa è successo? Perché la «finestrella» era viola? Non ci sei mai stato, eppure ti ho sentito. La sua rabbia, la mia guerra. Che cosa ci avresti detto guardandoci? Il tuo pianto mi avrebbe svegliata la notte e sarei stata ore e ore e ore a parlarti in silenzio, a guardarti! Avresti avuto gli occhi come il babbo e la pelle come la mamma… mamma: che vuoi dire? Che cosa avrebbe significato per me? Una creatura così piccola mi avrebbe potuto salvare? Sì?! E allora perché se n’ è andato, perché è stato solo un tono di colore che da viola si è trasformato in rosso? La mano calda di Yuri sulla mia pancia, sentivo il tuo e il suo calore, mi sentivo viva… Non ci sei più! Non ci sei mai stato eppure ti ho amato, ti ho voluto, ti ho accettato. Ti ricorderò sempre, sogno di un bimbo !

«Che fai, fumi?» chiede Yuri.

«Non c’è più il motivo per non fumare…» rispondo.

«Cosa?»

«Mi sono tornate le mestruazioni e…»

«Non è vero!» .

«Sì Yuri, è vero.»

«No sei stata te. Eri te che non volevi il bambino…aborto spontaneo… mi hai distrutto una speranza, non è vero!»

«Yuri è vero, scusami per..»

Mi interrompe di continuo.

«Non ti preoccupare, non è successo niente! Stai tranquilla… io scherzavo, non devi sentirti in colpa! Su! Su! Stai su!»

Ma cosa sta dicendo? La tranquillità, quella che intende lui, sarebbe solo finzione. E’ proprio da qui che sto iniziando a capire, che il dolore diventa consapevolezza. Non so se Yuri sta cambiando, se è finito l’amore, se il suo odio sta crescendo a dismisura o se semplicemente vuole liberarsi del passato al quale appartengo anch’io. So solo che avrebbe fatto soffrire me e il bambino, lo sento. So anche che fra breve si scorderà dell’«influsso benefico dell’attesa di nostro figlio», che tutti i rancori che ha nei miei confronti torneranno alla ribalta e il suo odio colpirà di nuovo. Adesso so che devo prepararmi, devo innalzare le barricate, devo indurire il cuore. La prima battaglia la dovrò affrontare contro me stessa: sarà dura. È per questo che ho pianto: molti dei miei sentimenti cadranno come soldati feriti a morte su terra bagnata di sangue, sudore e lacrime. Ci sarà una vera strage!

Sono in macchina con Mirko. Dietro c’è anche Yuri, ma non avverto la sua presenza. Mi stanno riaccompagnando a casa e mentre si viaggia guardo il cielo blu della notte. Guardo le stelle e penso, anzi sono sicura, che se ci fosse stata una creatura, sarebbe stata una bambina. Ironia della sorte: allo stereo ci sono i «vecchi» Litfiba! Bambino:

«Là, mamì

Era la casa di marzapane…»

Persa dentro e fuori me stessa. È finita, cazzo Simona lo vuoi capire? No, non rispondi. Sei troppo lontana da te, annaspi nella polvere, cerchi nei ricordi, soffochi con la tua stessa aria. No, ancora non hai capito che cosa è successo.

«Ero bambino, bambino, bambino

Quella era la grande città»

NO ODIO ESSERE COMPATITA.

Cavolo Simona, allora ci sei, rispondi, non chiuderti nel guscio.

È CHE È DURA DIRE QUALCOSA ADESSO.

Sì lo so ti capisco, mi fai tenerezza.

CHE CAVOLO ME NE FACCIO DELLA TUA TENEREZZA?

Sì, scusa, hai ragione.

NO SCUSA TE… È CHE MI SONO PERSA, TROVO TUTTE STRADE SENZA SFONDO, È UN LABIRINTO, NON ESCO, È BUIO, POI C’È GENTE GRIGIA CON SORRISI DI PLASTICA, HO PAURA.

Simona lo so, anch’io ho paura. Non so dove andare per farti star bene, se poi arriva Yuri…

PERCHE L’HAI NOMINATO? PER FARMI DEL MALE? STO SOGNANDO, NON È VERO…

No, è vero, anche a me fa male vederlo, non posso più abbracciarlo, c’è tensione, nervosismo… Simona ci sei o sei di nuovo scomparsa fra il tuo mondo di boschi, fate, utopie, sogni indistruttibili? oh, guarda, parlo a te…

«Il tempo corse violento e distratto

Dai gioca

Giochiamo a ridere e a batterci qui

Il sogno si fermò

Comincia a sanguinare…»

SI, SONO QUI! TI SONO PIÙ VICINA ANCHE SE È UNO SFORZO MICIDIALE… POSSO FARTI UNA DOMANDA?

«Non la smettevo di scoprire

Oltre i confini della realtà»

Certo che puoi.

ECCO… VEDI, MI PUOI ABBRACCIARE?

Certo piccola.

FORTE PER FAVORE, STRINGIMI FORTE!

Ancora di più?

SI’ DI PIÙ, VOGLIO SENTIRE IL CALDO DEL TUO CUORE.

Anch’io voglio il tuo.

SI’ TI PREGO, ALMENO NOI DUE RIMANIAMO UNITE.

Ci puoi contare. Forza Simo che ce la puoi fare!

«IO»… QUESTA L’HO GIÀ SENTITA…

Sì, anch’io, ma era un’altra storia.

(pubblicato in “I ragazzi del Campiello”, Marsilio, 1996 – racconto finalista al Campiello giovani)

1 COMMENT

  1. Sarà che ho una figlia che sta facendo il salto – faticoso, frenetico – nell’adolescenza, ho letto questo racconto con grande interesse e piacere. E’ bello, intenso. C’è solo una parte leggermente didascalica, che comincia con: “Non c’è solo l’idea dell’aborto, dell’interruzione di gravidanza, è l’insieme che mi sconvolge.” Una decina di righe, non di più. Vorrei anche dire che… non c’è solo la gravidanza per smettere di fumare… ci sono un sacco di buoni motivi.
    Saluti all’autrice.

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Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.