Moleskine 6
“Uomo non stupido ma scrittore improbabile”. Così dice Cortellessa di Genna, stroncando il suo Hitler. La frase è sembrata ad alcuni una stonatura, un indebito (e inusuale) spostamento di tiro dall’opera alla persona. In realtà è sempre sulla scrittura che il giudizio critico bastona, è lì che si sottolinea il valore avversativo della congiunzione. La logica della lingua è molto diversa da quella matematica: il risultato cambia eccome se si inverte l’ordine dei fattori. “Scrittore improbabile ma uomo non stupido” dice le stesse cose però lo salva, e con buona probabilità preannuncia un ulteriore complimento. Un po’ come nel film Poveri ma belli, in cui l’avvenenza riscatta la miseria solo grazie al fatto che segue il “ma”. Ecco, forse il problema è proprio quel “ma”. E se non ci fosse alcuna opposizione, bensì un nesso causale fra le due cose? “Uomo intelligente ergo scrittore improbabile”? Lo si disse di Aldous Huxley, per esempio, e talvolta l’ho sentito dire pure di Tiziano Scarpa. Scritture algide, distaccate, troppo continuativamente vigili… L’intelligenza dell’autore che risulta un ostacolo perché non è posta al servizio della narrazione… Bisogna dare l’impressione al lettore che la storia si dipani da sola, quasi che chi scrive non ne conosca previamente gli esiti e non sia in grado di muovere i personaggi come marionette… E’ quello che pensava Walter Benjamin quando restituì nel ’33 a Scholem una copia de L’uomo senza qualità, dicendo nella lettera d’accompagnamento all’amico: “Il Musil, tienilo pure. Non ho più nessun gusto a leggerlo, e mi sono congedato da questo autore quando ho capito che è più intelligente di quanto sarebbe necessario”. E’ il caso di Genna? L’eccesso di consapevolezza ha soffocato il canto, o questo era stonato in partenza? Sia come sia, le polemiche gli stanno giovando. Enzo Di Mauro sull’ultimo Alias ha sostanzialmente confermato la stroncatura di Cortellessa, e nonostante ciò (o grazie a ciò) Hitler sta vendendo bene, è da tre settimane in classifica.
Pare che in Hitler (pare perché non ho letto il libro, lo riferiscono i recensori) Genna si rivolga spesso ai lettori con espressioni tipo “preparatevi”, “guardate” ecc. E’ un’abitudine che si sta diffondendo, e secondo me è una brutta abitudine. Non solo perché cerca di dirigere l’attenzione, burattinizzando il lettore, ma soprattutto per quel “voi” indistinto. E’ come il colonnato del Bernini a San Pietro: non vuole il singolo, cerca le moltitudini, e chi ha queste ambizioni in genere parla dal balcone. Non è che sia meglio il “tu” ruffiano di Baricco (“tu sei lì”). E’ che la letteratura non è comunicazione, è comunione.
Stasera alla Casa della Poesia di Milano Cortellessa presenta gli ultimi testi della collana fuoriformato dell’editore Le Lettere. Ne ha già dato tempestivo annuncio qui Andrea Inglese, per chi fosse interessato. Aggiungo solo che, fra tanti ospiti ilustri, mi attira molto la presenza di Claudio Parmiggiani. Un paio di mesi fa vidi a Pistoia una sua mostra (Apocalypsis cum figuris). Non sapevo che ci fosse, ero andato per visitare la città. Poi ho notato gli striscioni che pubblicizzavano l’esposizione di Palazzo Fabroni, e mi sono ricordato i tanti articoli sul suo conto che mi avevano incuriosito, in special modo quelli scritti dall’ottimo Belpoliti. Di tutte le sue cose io resto legato alle delocazioni, le sinopie delle librerie, credo che siano le sue opere più riuscite. Mi piacciono molto questi calchi di un’assenza, queste sindoni dell’inorganico. Le vorrei ancora più vissute, con i libri messi a casaccio, di altezze diverse, più simili insomma a vere librerie, meglio: al ricordo di vere librerie. E’ la sensazione che si prova alla fine di un trasloco, quando la si è svuotata e si osserva per l’ultima volta la vecchia casa prima di andarsene. Gli aloni dei quadri, degli oggetti sulle mensole e dei libri come tracce mnestiche di un passaggio che di lì a poco verrà cancellato e sostituito da un altro. Ma i rimandi delle delocazioni sono molteplici, il procedimento con il fumo ricorda anche i famigerati roghi dei libri, marchio d’infamia di ogni totalitarismo.
Nelle democrazie occidentali i libri non si bruciano, ma nemmeno si leggono, come dimostra un allarmante sondaggio riportato da Repubblica del 6/2. L’ignoranza presa in esame in questo caso è quella dei laureati, che per il 73% dichiara di non andare mai in biblioteca. Uno su cinque afferma di non leggere mai o quasi mai, uno su tre possiede meno di cento libri, molti di questi non si giustificano appellandosi alla nota mancanza di tempo libero, ma sostenendo che “leggere oggi non serve”. Non si può neppure dargli torto. Le stesse società di selezione del personale confermano che il laureato ignorante non fa necessariamente più fatica a trovare lavoro rispetto ai suoi colleghi più letterati, perché “le imprese non sembrano granché interessate a selezionare i propri quadri dirigenti sulla base delle competenze linguistiche di base.” La cultura è diventata un ornamento, e il primo a promuoverla come tale è proprio l’intellettuale asservito alle logiche di mercato e tuttavia marginale, l’intellettuale di complemento, colui che ha il destino nel nome, perché fa appunto ciò che fanno gli accessori: vuole farsi notare, cerca di piacere. Dal che si capisce come non ci sia una gran differenza tra il rogo e il lenocinio.
Mia zia Salud viveva al Poligono Canyelles, un ampio blocco di edifici popolari alla periferia nord-est di Barcellona. Erano case dignitose e pulite, molto diverse dalle nostre. La vita di quartiere era piacevole. Il bar sotto casa, il campo da bocce, i servizi per gli anziani. Ricordo il concerto degli uccellini in gabbia, presenti in quasi ogni balcone, una cosa a cui non ero abituato, sembrava di stare alla Rambla de los pajaros la domenica mattina. Dopo la vedovanza usciva solo per la spesa e per portare a spasso il cane. Era la sorella di mia madre. Non sapevo che fosse analfabeta. Da bambina non l’avevano mandata a scuola perché doveva badare alle sorelle minori, e in seguito iniziò a lavorare al banco del pesce col padre. Solo le sorelle più piccole come mia madre godettero del relativo benessere raggiunto dopo la guerra civile e poterono studiare. Amava chiosare spesso un discorso con un proverbio. I più gettonati erano il consolatorio “No hay mal que por bien no venga” e il freudiano “Dime de que presumes y te diré de que careces”. Al funerale mia cugina Encarna mi disse che aveva lasciato qualcosa per me: i suoi libri. Erano una ventina di classici del Novecento, tipo La colmena di Camilo José Cela. Le ho chiesto che se ne faceva dei libri, se non sapeva leggere, e sua figlia mi ha risposto che se li faceva riassumere dalla libraia, con la scusa di un consiglio. C’è un personaggio, un ebreo analfabeta, in Ogni cosa è illuminata, che prendeva i libri a prestito in biblioteca non per leggerli ma “per pensarli”. Forse faceva così anche lei. Encarna mi ha detto che pure all’ufficio postale si vergognava di ammettere la sua condizione, e così fingeva di essersi dimenticata gli occhiali per farsi compilare il bollettino di pagamento. Salud Tejedor – così si chiamava – fece una vita che non si era scelta, per il bene della famiglia e perché le toccarono in sorte anni difficili. Fu una crisalide che non diventò mai farfalla. Mia madre ebbe maggior fortuna. Studiò, viaggiò molto, andò a vivere all’estero e realizzò il suo destino nominalistico, lavorando con i tessuti (tejedor significa tessitore).
Come nel caso di mia zia e dei bibliofili incalliti, anche a me succede spesso di circondarmi di libri che non leggo. E’ che ne compro più del necessario, e finisco per limitarmi a “pensarli”. Ci sono certe librerie, come l’Utopia in via Moscova, o la vecchia Feltrinelli di via Manzoni, a fianco del Poldi Pezzoli, dalle quali è impossibile uscire a mani vuote. Ora vorrei tornarci per prenderne un paio che mi incuriosiscono molto. Uno scacco matrimoniale di Lydie Sarazin-Levassor (edito da Archinto), il diario coniugale della prima moglie di Marcel Duchamp, che racconta l’indole patologicamente anaffettiva dell’uomo con “lo sguardo più intelligente del XX secolo” (come disse Breton). E poi Voci (edito da Einaudi), un saggio di antropologia sonora in cui il filologo Maurizio Bettini ricostruisce attraverso molte testimonianze scritte la fonosfera del mondo classico, per esempio che tipo di suoni accompagnavano le giornate degli antichi romani. Tanti animali, naturalmente, e canti di uccelli che allora si ascoltavano con maggiore attenzione sia perché c’era più silenzio di oggi e sia perché potevano predire il futuro o annunciare l’arrivo delle stagioni.
Mi hanno sempre incuriosito le diverse modalità di rappresentazione artistica del ciclo dei mesi. A Torre Aquila, nel Castello del Buonconsiglio di Trento, il messaggio è chiaramente politico. Più o meno in ogni mese, le scene ritraggono due universi asintotici, che non si incontrano mai: il mondo dei contadini, artigiani e boscaioli impegnati a lavorare duramente, e quello dei nobili, fatto di belle dame e cavalieri, che si divertono con le palle di neve a gennaio (nella prima rappresentazione di un paesaggio innevato dell’arte occidentale) e amoreggiano in primavera. La pace sociale e la prosperità si ottengono solo a patto che ognuno resti al suo posto. Meno rigidamente reazionario e più pagano è il coltissimo impianto iconologico di Palazzo Schifanoia, in cui gli aristocratici sono pressoché gli unici protagonisti della figurazione e la vita sembra un giardino di delizie. C’è poi il mosaico pavimentale di Otranto e le sculture antelamiche del battistero di Parma, ma per me è la patera di Parabiago il più incantevole inno per immagini all’eterno e ciclico rinnovamento della vita. Fu scoperta nel 1907, durante gli scavi per gettare le fondamenta della villa liberty di Felice Gajo, un imprenditore tessile che fu anche senatore del regno, ed è oggi esposta al Museo Archeologico di Milano. Il grande piatto d’argento utilizzato nelle cerimonie sacre faceva da semplice coperchio a un’urna cineraria. Risale alla seconda metà del IV secolo d.C., probabilmente all’epoca di Giuliano l’Apostata, che cercò di ristabilire i culti pagani nell’impero, e difatti al centro della composizione c’è la dea Cibele.
Vivere in armonia col proprio tempo, capire che “l’età più bella è quella che uno ha, giorno per giorno”, come dice Gassman a Trintignant ne Il sorpasso. La parabola del ciclo dei mesi è insieme un invito e un ammonimento: un invito ad apprezzare il proprio tempo, quale che sia (come nel finale di Quel che resta del giorno, di Ishiguro), e un ammonimento ad accettare il compiersi del proprio destino. L’inverno non è solo la lunga sala d’attesa della primavera. E’ anche il momento privilegiato della lettura. E’ oziose e meditative immersioni nella vasca da bagno. E’ cioccolate calde con panna. E’ sedute ipnotiche di fronte al camino. E’ lunghe conversazioni serali con gli amici. E’ la bellezza delle donne con le sciarpe, la fantasia con cui le intrecciano e il gusto con cui le accostano, come moderne gorgiere che incorniciano il volto.
Chi ama leggere e possiede una discreta cultura si sarà sentito spesso rivolgere l’invito a mettere a frutto quell’hobby, partecipando magari a un quiz nozionistico in tv. La gratuità è un disvalore, una passione priva di fini di lucro non ha senso. E per certi versi è vero: non ci si pagano le bollette e l’affitto, e neppure se ne ricava prestigio sociale (anzi, a volte si ispira commiserazione). Quando Luchino Visconti stava girando Il Gattopardo, pretese che i cassettoni delle camere da letto fossero riempiti con abiti e biancheria d’epoca, e le credenze della cucina e della sala da pranzo con servizi di piatti e tovaglie. La produzione obiettò che tutte quelle cose erano inutili e dispendiose perché non si sarebbero viste nelle scene, essendo nascoste nelle scaffalature, nei cassetti dei mobili e sotto gli abiti dei protagonisti, al che il regista replicò che era importante che gli attori sapessero che c’erano. In qualche modo, quegli oggetti invisibili avrebbero aiutato Claudia Cardinale, Alain Delon e Burt Lancaster a immedesimarsi nella parte, a sentire più profondamente l’epoca in cui si svolgeva la storia. Aveva ragione lui. La cultura è questa cosa nascosta, costosa e apparentemente inutile che ci permette però di capire e vivere meglio il nostro tempo. In ogni caso, per chi è animato da un’autentica passione non è mai il tesoro – inteso come l’utile, morale o materiale, che se ne può ricavare – che conta. Come disse Trelawney (nel cap. 7 de L’isola del tesoro di Stevenson) poco prima di partire: “Prua verso il largo! Al diavolo il tesoro. E’ l’incanto del mare che mi ha dato alla testa!
“La cultura è questa cosa nascosta, costosa e apparentemente inutile che ci permette però di capire e vivere meglio il nostro tempo.”
dissento.
la cultura ci fa vivere nettamente peggio, ci isola, ci procura insoddisfazione cronica, eccesso di giudizio, inutile urgenza al giudizio, all’opinione, eccetera.
non ci fa “capire il nostro tempo”, perché ci impedisce di accettarlo.
non h molto senso per me “capire il proprio tempo”, nessuno ci riesce, mentre accettarlo è cruciale, perché in questo caso è sinonimo di capire.
essere colti è un effetto collaterale dell’aver fatto il liceo che colpisce pochi individui, per fortuna, facendoli stare fuori delle cose.
l’invidia ce l’ho per quelli che stanno dentro le cose.
… è che la letteratura non è comunicazione, è comunione.
e aggiungerei: ed è comunicazione nella comunione.
ecco, in questa frase c’è la serenità giusta per poter accostarsi alla letteratura con libertà e discernimento…
ciao
“Mi piacciono molto questi calchi di un’assenza, queste sindoni dell’inorganico. Le vorrei ancora più vissute, disordinate, con i libri messi a casaccio, di altezze diverse, più simili insomma a vere librerie, meglio: al ricordo di vere librerie.”
Questa cosa che hai scritto è in fondo una variante del “voi “che non ti piace in genna.
L’attenzione che si è spostata dall’opera all’autore o meglio ancora dall’opera a un opera dove è rimasta una forte traccia dell’autore, del suo ego.
Uno scrittore troppo intelligente tenda a cancellarla.
Ho notato che Scarpa, con i suoi pezzetti sul primo amore sta cercando, o almeno questa è la mia impressione, un’altra strada.
Potrei essere più intelligente, ma mi affido al mio ego, stamattina, fiduciosa che venga capito:-)
Ho letto adesso tash, concordo, ho quella stessa invidia. Inutile.
Tashtego scrive: “la cultura ci fa vivere nettamente peggio, ci isola, ci procura insoddisfazione cronica, eccesso di giudizio, inutile urgenza al giudizio, all’opinione, eccetera”.
Forse ha sbagliato e vuole dire che ciò che “ci fa vivere nettamente peggio, ci isola, ci procura insoddisfazione cronica, eccesso di giudizio, inutile urgenza al giudizio, all’opinione, eccetera” è per lui la cultura.
@luminamenti
vabbè.
perfettamnte in accordo con luminamenti :-)
tash poi dice che invidia quelli che stanno dentro le cose. Non capisco bene cosa voglia dire. Tutti stiamo dentro le cose, naturalmente non dentro tutte le cose. ma ognuno sta dentro alcune cose. Quindi tash invidia tutti.
geo
Ecco appunto, perché la litote? Poteva dire uomo intelligente, tutto sommato è lì che casca l’asino, e magari è pure un asino non stupido. Dico questo limitandomi a pensare il libro, che non ho letto e quasi certamente non leggerò, del resto stare dentro le cose è dura, come sanno bene le persone di dimensioni non piccole che provano a entrare in cinque dentro automobili non spaziose.
invidio tutti, vero.
facile essere d’accordo con tizio e caio, dire la propria no è?
io sono per: vivere il proprio tempo in armonia, che è la cosa più sensata da fare, senza rinncorrerre astratte e pericolose ideologie…
saluti
C.R.
probabilmente stare dentro alle cose significa anche capirle, o no?
Articolo di cui condivido parecchio. Grazie per le schegge su Pamiggiani, Visconti e per questa zia che ricordi, Salud (un attimo di poesia), e perchè so che non sono l’unica a svenarmi spendendo per i libri. Anche questo “Voci” pare interessante. Insomma grazie
E’ un segno di questi tempi orribili: “Leggere oggi non serve”. E non serve immergersi in un paesaggio, ascoltare il silenzio di un bosco, contemplare la forma di un campanile bizantino… Non serve oggi e non è servito mai, se l’utilità ha una dimensione unicamente produttiva e se l’appagamento, la realizzazione personale ineriscono prevalentemente al possesso (di merci come di status). Praticare la superfluità colpevolmente, quasi come una sottrazione alla misurabilità dell’esistere, attesta di una barbarie antropologica: gli animali (buon per loro), standosene al sole a pancia all’aria, non immaginano certo di sciupare del tempo. Da qui a un’incultura dilagante il passaggio è scontato. Metà dei parlamentari (specchio di una società assai poco civile) è priva di nozioni scolastiche di base (chi era Savonarola, in che secolo fu scoperta l’America, in cosa consisté l’impressionismo, etc.); un ex capo di governo ignora la storia del paese che guida, addirittura ne sovverte la realtà storiografica (il confino politico fascista non consisteva che in una vacanza forzata, etc.). Su questo l’informazione sorvola, ci fa una risatina compiacente e passa a cose più serie: i marocchini che rubano, le tasse che impoveriscono la vita… Siamo rimasti in tre/quattro a non desiderare un fuoristrada, a scrutare il mondo con uno sguardo critico piuttosto che con gli occhiali di Dolce&Gabbana, forse siamo ancora più poveri…, ma non a causa di un eccesso di intelligenza. La prosa di Musil è poco accattivante non perché troppo intelligente: la sua ironia, il suo biasimo sociale hanno anzi natura epidermica, istintiva. Quanto a “mettere a frutto quell’hobby”, lo prendo come un insulto: leggere, come scrivere, non è un hobby ma una modalità di vivere (“scopo del mondo è un libro”…). Non sono scrittore (anche se scrivo racconti che F.Krauspenhaar non pubblica) ma lettore appassionato sì: mi azzardo a suggerire una lettura eccelsa per inutilità e piacere estetico, quella di Jean Giraudoux e della sua Susanna. Sergio Garufi mi perdonerà se ai complimenti di rito sostituisco quelli per i bellissimi nomi delle sue congiunte iberiche: Salud e Encarna dovranno finire prima o poi in un romanzo…
Scusa Garufi, le tue osservazioni su Contellessa sono acute, ma se non ho capito male o letto male, tu ( e lui) assimili scrittore a narratore.
Hai riportato “Uomo non stupido ma scrittore improbabile” e più sotto “L’intelligenza dell’autore che risulta un ostacolo perché non è posta al servizio della narrazione”
Il nesso c’è secondo me in quel ma, e forse Contellessa voleva dire narratore improbabile; e forse considera scrittore solo chi è narratore?
Ma perchè quelli che non sanno narrare non sono scrittori?
Secondo me Genna è un ottimo scrittore, meno come narratore, ma questo nulla toglie a questo libro che ha scritto. Lo stesso direi di Tiziano Scarpa. Neanche Umberto Eco sa narrare. Ma cosa importa?
Certo la differenza sta in genere dalla parte del lettore. Solo il lettore tosto non chiude il libro e continua a leggere faticando. Quando un libro narra bene, il lettore fa meno fatica a leggere. Ma il principio della fatica o meno del lettore non è il principio che dà o misura il valore di un libro.
Il problema è che gli scrittori si dividono in due categorie: quelli che se gli dici che non sanno narrare si offendono e si sentono sminuiti e quelli che sanno di non essere narratori e se ne fottono di quello che gli dicono perchè scrivono bene cmq e hanno cose da dire.
Genna è un uomo non stupido. Ma anche uno scrittore improbabile.
continuo a pensare, caro Sergio, che dovresti raccogliere le moleskine in un volume. A me continuano a piacere molto, per lo stile piano dei tuoi quasi inavvertiti suggerimenti, per i flash improvvisi su figure inaspettate e capaci di generare improvvisamente desiderio. Come quei libri che ti fanno gola e che adesso fanno gola anche a me, ai libri che ti stanno intorno non letti, e però pensati. Quella notizia su Visconti la trovo fantastica e mi ricorda una citazione (trovata in Vere presenze di G. Steiner) di Longfellow: In the older days of art, / builders wrought with greater care / each minute and unseen part, / for the Gods see everywhere.
Peraltro dissento da tash che la cultura ci faccia vivere peggio; ha provato lui a vivere senza cultura?
Erratiche e struggenti le moleskine di Garufi, che farei senza di loro? :-)))
moleskina da serbare in una scatolina,
piegata bene, altrimenti si rovina
grazie Sergio!
fem
“la cultura ci fa vivere nettamente peggio, ci isola, ci procura insoddisfazione cronica, eccesso di giudizio, inutile urgenza al giudizio, all’opinione, eccetera.
non ci fa “capire il nostro tempo”, perché ci impedisce di accettarlo.
non h molto senso per me “capire il proprio tempo”, nessuno ci riesce, mentre accettarlo è cruciale, perché in questo caso è sinonimo di capire.
essere colti è un effetto collaterale dell’aver fatto il liceo che colpisce pochi individui, per fortuna, facendoli stare fuori delle cose.
l’invidia ce l’ho per quelli che stanno dentro le cose”
pure io invidio chi sta dentro le cose
ma trovo e provo empatia per chi sta fuori dalle cose
accettare il proprio tempo è sinonimo di “capire”solo quando l’accettazione è passata, e passa, attraveso la consapevolezza di non poter “capire”, di essere impotenti di fronte alla domanda,all’assurdo, al Nulla, di riconoscerti incolpevole analfabeta della vita.
solo così stai nelle cose in modo “buono”, o perlomeno tenti di starci senza fare troppo male agli altri che riconosci, ora, come soggetti e non più come oggetti, antagonisti, numeri, statistiche.
l’aspirazione al potere sta perfettamente a suo agio nelle cose.
il potere poi, nelle cose, ci guazza che è una meraviglia.
i miei complimentissimi al coltissimo sergio
tanti baci
la funambola
Tascego vive il disagio di non poter guardare la defilippi ed esser contento, come immagina sia contento l’ebete popolobue che la guarda e si integra pacificamente con lo zaigayst. mentre lui che legge musil in un angolo sente sulle spalle il fardello dell’uomo alfabetizzato: l’esilio dal popolobue.
Ma io dico, pacatamente, sinceramente: leggiamo musil, ma anche guardiamo la defilippi. magari contemporaneamente.