El Boligrafo Boliviano 13
di Silvio Mignano
18 agosto 2007
Ognuno porta con sé il paesaggio che sa, che ricorda, rimpiange o paventa. A me sembra un tratto della costiera tra Sperlonga e Gaeta, con meno alberi e senza gli ombrelli protettori dei pini marittimi. Graziano propende per la Riviera ligure, Marco oscilla tra il Lago di Garda e il Salento di Santa Maria di Leuca. Tutti siamo comunque vittime del miraggio interiore, prede della metamorfosi che vive in ogni luogo.
Siamo partiti da La Paz, abbiamo risalito la scodella rovesciata e attraversato l’altipiano. Sotto la corona della Cordigliera Reale, in vista delle prime colline, un movimento sulla nostra sinistra, più giù del ciglio della strada: immaginate sulla terra rossa con il contrappunto lontano di un rettangolo di azzurro cobalto – avvisaglie del Lago Titicaca – immaginate una schiera di musicisti vestiti di tutto punto in completo bianco, scarpe bianche, borsalini bianchi, che soffiano in gigantesche tube smaltate di bianco, in mezzo a case di mattoni e cemento grezzo, in un cortile polveroso, unici spettatori il vicinato e una coppia di cani randagi.
Scendiamo dalla macchina appena in tempo per ascoltare le ultime note e vedere i musicisti che slacciano le cinghie e appoggiano le tube per terra, allineate l’una accanto all’altra, pastelli bianchi di un Gulliver andino.
Poi si arriva al Titicaca, uno dei luoghi che contribuiscono a formare la mitologia boliviana, il lago più alto al mondo, un’estensione pari a quella dell’Umbria di blu intenso, incorniciato di terre senesi e di canneti di un verde smorto: piante di totora, le stesse che disseccate e intrecciate sono utilizzate per costruire imbarcazioni e addirittura piccole isole galleggianti.
La macchina monta su una zattera di legno grezzo, le assi traballano quando le ruote anteriori le calpestano, scricchiola per un attimo l’intera struttura, poi recupera stabilità. Il barcaiolo è un vecchio col naso adunco, magnifiche rughe verticali sulle guance, una giacca di fustagno grigia e il cappello a tesa larga ben calcato sulla fronte. Spinge l’imbarcazione con una lunga pertica dandole l’abbrivio, prima di mettere in moto il fuoribordo.
Si attraversa il punto più stretto del lago, tra i villaggi di San Pedro e San Pablo, un viaggio breve in mezzo agli apostoli eretti a colonne d’Ercole.
Sulla nostra destra due denti di roccia spuntano a pochi metri dalla costa. Proprio una coppia di faraglioni, presagio della geografia mutevole che oggi ci accompagnerà.
E a metà percorso mi capita di guardare dalla parte opposta. L’Illimani spunta come una luna dalla linea perfettamente retta dell’acqua. Il condor bianco e lo specchio metallico, una fitta all’immaginazione, un rimprovero per la tentazione di sedersi sulle consuetudini e sul déjà vu: Magritte.
Appunto, la strada costiera che ritaglia la sponda opposta, verso il Perú. Quella che a ciascuno di noi ricorda un pezzo diverso della nostra memoria, Gaeta o Garda, Puglia o Liguria, pini scomparsi, rocce scabre, scogliere a picco sull’acqua, pastore con i suoi lama, due muli senza uomo, asfalto senza macchine, prati rovesciati, burroni da risalire, il panettone che si proietta nel lago, Copacabana.
Questa, pochi lo sanno, è la Copacabana originale, un paesino grazioso cresciuto attorno a una baia perfettamente semicircolare e dominata da un promontorio oblungo, più che altro a forma di mezzo sfilatino. Narrano le leggende che un marinaio brasiliano, nel pieno di una tempesta di fronte alla costa di Rio de Janeiro, avesse fatto un voto alla Vergine Morena di Copacabana, di questa Copacabana boliviana. Di lì venne il nome dell’altra, quella carioca.
Le strade strette corrono verso il lago, affiancate da case basse perlopiù verniciate di bianco. E si concentrano tutte verso un punto preciso, la piazza che dà sul santuario. Un patio immenso presidiato da pochi mendicanti che se ne stanno immobili, avvolti nei mantelli rossi, la mano tesa, lo sguardo sempre basso. Nel centro del cortile due grosse costruzioni, a destra un cubo aperto, con arcate a tutto sesto su ogni lato, a sinistra un parallelepipedo, una specie di campanile interrotto. Il tutto di un bianco accecante, ossessivo, come il corpo centrale della chiesa. Accanto all’entrata Tito Yupanqui, l’indio che vide per primo la Vergine Morena, gigantesco in bronzo; dentro, un’unica navata stretta, l’altare coloniale incastonato d’oro, i fedeli silenziosi, apparentemente spettatori di una funzione invisibile.
Di nuovo fuori, nella piazza, decine di veicoli in fila, a motore spento, inghirlandati di fiori come tori condotti alla fiera del paese. A coppie, a piccoli gruppi, gli autisti e i loro familiari innaffiano il muso e il parabrezza di birra. Rivoli di spuma corrono lungo le guarnizioni di gomma, scivolano sul cristallo esplodendo in minuscole bolle trasparenti, gocciolano sull’asfalto, raccogliendosi in pozze dall’odore intenso. Ride senza denti la signora che si stringe nella mantiglia ricamata, appoggiando il palmo della mano sulla griglia del radiatore. Ride l’uomo che è con lei, riempiendo i bicchieri di carta, che poi passa alla donna – moglie? madre? – e a noi, invitandoci a vuotarli d’un colpo. Ride, alle sue spalle, una ragazza appoggiata al cofano di un camioncino, mentre una bambina con la cuffietta di lana si affaccia al finestrino, incastrata più che incorniciata dallo sportellino scorrevole. Ride il grassone baffuto che spruzza birra sul suo furgone, saltando a destra e a sinistra sulle punte, come un giullare troppo cresciuto.
Stanno ch’allando, offrendo alcol alla Vergine o alla Pachamama, a entrambe o a una sola. È un rituale quechua, immune alle divisioni artificiali dettate dalle frontiere. Perciò molti degli autisti vengono dall’altra parte del lago, da Puno o da altre città peruviane.
Qualcuno suona il clacson per festeggiare, mentre in fondo alla strada in salita che viene dalla riva del lago si accalcano centinaia di veicoli, un gioioso ingorgo che chiude ogni varco.
Bevete, bevete, dice adesso lo spilungone magro e sghembo che tira fuori una bottiglia dopo l’altra dal cruscotto del suo pulmino, lustrando con la manica della camicia le cromature della calandra e lo stemma ovale della Ford che riluce sbronzo sotto il sole.
Ai lati, lungo i marciapiedi, ridono tra i colori le donne sedute dietro le bancarelle di fiori gialli, fiori rossi, fiori lilla buganvillea, fori bianchi, candele, fazzoletti ricamati, bambole di pezza, lama di lana, rullini della Kodak, gomme da masticare, quinua in busta, aranciata gassata e succhi di mango. Ridono tutte, come se ci stessero circondando, senza lasciarci via di scampo, ostaggi dell’allegria.
Ancora nel cortile del santuario, sulla fiancata sinistra, due donne scivolano quasi di nascosto in una porta stretta. L’entrata anonima e si direbbe clandestina di una cappella disadorna, un corridoio angusto e buio che si allunga all’interno come una trincea o un tunnel. Attorno a un lungo tavolo di pietra, incavato come il bancone di una pescheria o la lettiga di una morgue, decine di persone accendono candele e le sistemano diritte, sul ripiano lievemente concavo. Lo fanno con gesti misurati, muovendosi appena, in un silenzio che è l’illusione acustica di un mormorio inesistente.
I loro profili si disegnano incerti al tremolio giallastro delle fiamme. Sono loro ad accendere le candele, eppure sono le candele a creare le loro figure, altrimenti invisibili, perciò inesistenti. Altri fedeli avvicinano le candele alle pareti di pietra umida, sciolgono la cera e modellano sul muro con i polpastrelli figure semplici, una casetta, un cuore, le lettere di un nome. Tracciano questi disegni corrugando la fronte, aggiungendoli all’affresco pallido che scorre in orizzontale, tra le nuche e i nasi, i menti e gli zigomi. Poi biascicano una preghiera o un voto e restano ad attendere.
Lungo la calle 6 de agosto che scende al lago si aprono ristoranti con bei giardini, alberghi, sportelli di cambiavalute, bancarelle di ponchos e cd contraffatti. Tra l’una e l’altra, acciambellati sui marciapiedi, strani personaggi intrecciano collanine di semi e le sistemano su stuoie di totora o lenzuoli bianchi. Ragazzi pallidi e dimagrati, i capelli acconciati in treccioline simil-rasta. Ragazze bionde o fulve, emaciate, il corpo d’acciuga perso in camicioni di lino, le gambe infilate in calzoni troppo larghi, a righe verticali. Piedi nudi o sandali francescani, pietre dure e Bob Marley a palla dal radiolone naufrago di un tempo senza i-pod.
Mi fanno tenerezza, prima che tristezza: reduci di altri decenni di protesta, che adesso sono scappati via e li hanno abbandonati qui. Nessuno li ha avvisati che la guerra degli hippy è sfiorita trent’anni fa, che la ribellione contro la placenta delle case e delle patrie passa ormai per i blog e per youtube e non si fa più sbattendo la porta, uno zaino in spalla, l’autostop per strade polverose, i chili perduti lungo il cammino, il peyote o gli acidi, le costole che assediano la cresta iliaca, lo sguardo svuotato di forza, orgogliosamente fisso sulla parete di fronte.
In una delle bancarelle della piazza mi incanto davanti a una scultura della Vergine di Copacabana. Sarà alta quasi un metro, tutta rivestita di organza blu, una corona di stelle dorate, la mezzaluna o barchetta pure d’oro, il volto da antica bambolina di porcellana, il velo ricamato, la base di legno con i due piccoli indios in adorazione. Delicato equilibrio tra il kitsch e il sublime.
Chiedo il prezzo alla venditrice. Duecento bolivianos, venti euro. La ringrazio e mi allontano, preso da un improvviso pudore. Giro a largo, poi torno sui miei passi, fingo di ammirare le altre statue, più piccole, le vesti bianche, gialle, rosse. Tiro avanti, nella seconda bancarella una ragazza ignora gli acquirenti, legge un libro e prende note su un quaderno. Più in là ci sono le fioraie, nascoste dalla selva di rose margherite orchidee gigli bocche di leone.
Torno per la terza volta e non ci penso più. Ecco i soldi, è deciso, la compro. La donna, felice, imballa alla perfezione la Vergine nelle pagine di un giornale, smonta la corona, non prima di avermi mostrato come riassemblarla, e depone ogni cosa in una scatola di cartone che ha contenuto frutta in conserva. Afferro il mio trofeo e lo porto alla macchina, indifferente ai lazzi a stento trattenuti dei miei amici.
La ragazza della seconda bancarella ha seguito la scena con un sorriso. Le chiedo che cosa stia studiando. Lei dice che frequenta l’ultimo anno delle superiori e che deve fare una relazione su una delle figure che più hanno apportato innovazioni a beneficio dell’umanità. Bene, commento, e tu chi hai scelto? Galileo Galilei, Newton, Alessandro Volta? No, risponde: Marcel Proust.
Mi mostra il quaderno, vezzosamente scritto con penne di diverso colore ed evidenziatori gialli, verdi e arancioni, fitto di note e commenti sulla Recherche. E da sotto sfila un libro e me lo fa vedere: una versione spagnola della Parte di Swann.
Le faccio gli auguri e ci rimettiamo in viaggio, lungo la strada costiera, verso il lago, le zattere, i Santi Pietro e Paolo, l’altopiano, portando con noi la Vergine Morena e l’immagine miracolosa di una lettrice di Proust.
WoW!
è tornato il mio boligrafo! :-)
dopo ti leggo….
Guardo le destinazioni alla fermata di Humahuaca e sono tentata di oltrepassare il confine con la Bolivia. Mi avvicino alla anziana donna trasfigurata dal tempo e osservo i suoi gesti, le sue movenze; nell’inganno dell’attesa mi siedo al suo fianco enfatizzato da colori e spessori tessuti. Mastica e sputa, abituale usanza mai osservata da tanto vicino. Arriva la giovane donna che l’accompagna e insieme tornano verso Jujui distogliendosi dal mio sguardo che sull’orizzonte si perde estasiato nella policromia polimorfica della Quebrada.
Sai creare un’atmosfera degna di quei luoghi (mai visti) che così bene descrivi, lasciando esplodere le immagini, i colori, i rituali, in tutto il loro splendore….
volevo chiederti….
durante il rito dello “challare” (non sò se l’ho scritto giusto)
perchè offrono alcol alla Vergine?
ciao
In realtà non offrono alcol alla Vergine ma alla Pachamama, la Madre Terra. C’è però un sistema religioso sincretistico molto complesso, meno strutturato rispetto alla santería, al vudú o al candomblé, nel cui contesto puoi sapere con certezza, per esempio, che Santa Barbara si identifica sempre con Changó.
Ciao,
Silvio
P.S. Credo che challare vada bene, è comunque una translitterazione di una parola quechua, lingua che non usava il nostro alfabeto.
la lingua quechua…
solo il nome incita ad apprenderla…
come si saluta in quechuo…?
:-)
Rimaykullayki, imilla!
RimayKullayKi! :-))
E imilla, Chapucer, che significa hermosa ragazza.