L’altro

di Gianluca Morozzi 

[A Bologna, domenica 24 Febbraio alle 19,30, XoMeGaP presenta il libro di racconti Mutazioni (LAB – Giulio Perrone Editore), al salotto post litteram dell’Arterìa (Vicolo Broglio 1/E). XoMeGaP è un un progetto letterario nato nel 2005: un “gruppo di affinità”, tra amici scrittori, in rete come sito e come blog. Da qui è nato Mutazioni, dodici racconti di dodici autori: Ivano Bariani, Sara Bosi, Simone Covili, Eliselle, Michele Governatori, Ettore Malacarne, Gianluca Morozzi, Massimiliano Prandini, Cecilia Randazzo, Giuseppe Sofo, Gabriele Sorrentino, Fulvio Tosi. Di seguito, il racconto di Morozzi.]  

1.

Questo è quello che è successo all’inizio.
Un demone si era annidato nel cervello di suo padre.
E gli aveva ordinato di uccidere tutti.

Senza sapere nulla delle voci nella testa di suo padre, Deidra era seduta al tavolo di cucina della sua casa a sei chilometri da Limerick. Aveva tredici anni.
Il sole era tramontato. Sua madre stava lavando i piatti, canticchiando la canzone alla radio. La canzone, un grande successo di un paio di stagioni prima, si chiamava Yesterday.
Suo padre era seduto in poltrona senza dire niente. Il demone gli stava sussurrando delle cose nella testa.

La casa era collegata alla strada asfaltata da un lungo sterrato, costeggiato per un breve tratto da un fosso profondo un metro e mezzo. Tutt’intorno alla casa, costruita su due piani, c’erano campi verdi, campi verdi e ancora campi verdi.
Suo fratello Pat calciava un pallone di pezza tra due sedie. Ogni volta che il pallone varcava lo spazio tra le sedie, urlava rumorosamente Gol! Poi andava a riprendere il pallone, palleggiava due o tre volte, e tornava a calciare mirando quella porta improvvisata.
Deidra stava disegnando una ballerina che danzava davanti a incantati spettatori. Deidra voleva diventare una ballerina, da grande.
La canzone Yesterday era giunta al suo snodo centrale. Il padre di Deidra continuava a guardare il vuoto.
Pat aveva preso il pallone sotto braccio. “Ehi, ranocchia, basta disegnare, vai in porta”.
“No” aveva sbuffato Deidra senza neppure guardarlo.
“Dai” aveva insistito Pat “quaranta rigori poi torni a disegnare”.
“No” aveva detto Deidra, mentre la canzone Yesterday superava lo snodo centrale.
“Trentacinque” aveva mercanteggiato Pat, mentre suo padre si alzava dalla poltrona.
“No” aveva ripetuto Deidra mentre suo padre scompariva nell’altra stanza.
Pat aveva urtato la mano destra di Deidra. La matita aveva tracciato un lungo frego nero sopra tutti gli spettatori in contemplazione della ballerina.
“Scemo”.
“Bleaaah”.
Pat aveva ripreso a tirare rigori tra le sedie. Deidra non si era scomposta per quel frego sul disegno. Lo aveva utilizzato artisticamente, trasformandolo nel bordo di un tendaggio. Yesterday stava sfumando alla radio.
Sua madre aveva detto “Bambini, non litigate”. Aveva un piatto in mano.
Suo marito era tornato in cucina.
Aveva un fucile.
Il primo colpo aveva fatto esplodere la testa di Pat. Pezzi del suo cervello erano schizzati sul tavolo e sulla radio e sul disegno della ballerina.
Deidra si girata a bocca aperta, guardando il corpo decapitato che cadeva all’indietro. Sua madre si era voltata con gli occhi sbarrati. Aveva lasciato cadere il piatto, che si era infranto sul pavimento di cucina.
Il fucile aveva sparato di nuovo, e la testa della madre era esplosa come una zucca scagliata giù da un grattacielo.
Mentre sterminava la propria famiglia, l’uomo aveva un’espressione lontanissima e assente.

Nel momento in cui il piatto si infrangeva sul pavimento di cucina e la pallottola lasciava la canna del fucile per conficcarsi nella testa di sua madre, due forze contrapposte lottavano nel corpo della giovane Deidra.
La prima forza, quella chiamata shock, tendeva a paralizzarla. Lasciandola preda inerme della pallottola successiva.
La seconda forza, quella chiamata istinto di conservazione, urlava disperatamente di lasciare quella sedia e correre come il vento verso la più vicina via di fuga.
L’istinto di conservazione aveva vinto.
Mentre suo padre si girava verso di lei, Deidra era schizzata sulla scala che portava al piano di sopra. La canna del fucile aveva cambiato rapidamente direzione, seguendo la corsa della ragazzina, ma la terza pallottola si era conficcata nella pietra di un gradino.
Deidra, velocissima, aveva raggiunto la porta del bagno di sopra. Si era chiusa dentro, ansante e terrorizzata. Si era appoggiata alla parete, con gli occhi spalancati e il cuore che batteva a mille all’ora. Al di là della porta chiusa a chiave, sentiva i passi pesanti di suo padre salire lentamente i gradini.
Doveva pensare a salvarsi la vita.
Sarebbe stato uno scherzo, per la macchina di morte che era inspiegabilmente diventato suo padre, far saltare la serratura dall’esterno. Sarebbe bastato un colpo di fucile.
Deidra aprì la finestrella del bagno e guardò sotto, nel buio. Erano solo pochi metri. Poteva saltar giù e scappare via, correre per sei chilometri fino a Limerick, entrare in un pub e chiedere aiuto.
Suo padre era a pochi gradini dalla porta. Deidra aveva messo un piede oltre il davanzale, poi l’altro piede. Aveva chiuso gli occhi.
E aveva fatto il salto.

Pochi istanti dopo, aveva dovuto soffocare un urlo terribile. All’impatto col suolo, il suo piede sinistro si era piegato in modo innaturale con un piccolo e agonizzante crac!
Deidra aveva appoggiato una mano a terra, lì, nel cortile in cui giocava con suo fratello Pat. Piangeva, stringendo i denti.
Uno sparo l’aveva fatta trasalire. Suo padre aveva fatto saltare la serratura del bagno.
Di lì a pochi secondi si sarebbe affacciato alla finestra cercando di individuare sua figlia nel buio, e l’avrebbe freddata dall’alto come un cecchino. Deidra doveva ignorare il dolore, allontanarsi, cercare rifugio nell’oscurità.
Zoppicante, piangendo per il dolore a ogni passo, si era allontanata dalla casa. Non aveva osato girarsi. Temeva di vedere la sagoma del padre contro la finestra aperta, e la canna del fucile puntata in direzione della sua testa. Aveva continuato a zoppicare nel buio, spinta soltanto dall’adrenalina.
Non sarebbe mai arrivata fino a Limerick, col piede in quelle condizioni. Doveva trovare un rifugio lì, subito.
L’unico nascondiglio possibile era il fossato. Non un grande rifugio, ma l’unico che c’era.
Deidra si lasciò scivolare giù per un metro e mezzo, cercando di non atterrare sul fondo con il piede ferito. Era a trenta passi da casa, ma forse il buio, il fango, le foglie…
Deidra si era raggomitolata sul fondo del fossato e aveva iniziato a pregare, gli occhi chiusi e le orecchie attentissime a captare i passi di suo padre. Sentiva solo il battito feroce e accelerato del suo cuore che martellava nelle tempie.

Il tempo aveva preso a scorrere in avanti, la sera a diventare notte. A un certo punto Deidra si era convinta che sarebbe morta di freddo, lì, in una nottata irlandese, in mezzo al fango umido e ghiacciato con una camiciola inadeguata addosso. Strani insetti e animali strisciavano intorno al suo corpo ghiacciato e terrorizzato. Il battito dei suoi denti si era fatto così forte che suo padre -si era convinta- avrebbe potuto trovarla seguendo quel rumore.
Ma le ore erano passate, e il pazzo che aveva ucciso sua madre e suo fratello non aveva dato segni della sua presenza. Deidra non aveva udito passi fuori di casa, non lo aveva visto aggirarsi per i campi con una torcia elettrica. Niente.
Che si sia suicidato?, aveva pensato allontanando un ragno, Che il rimorso lo abbia convinto a farla finita?
Se si era suicidato, di certo non aveva usato il fucile. Forse lo aveva fatto in modo silenzioso, con un coltello, o magari con un cappio.
Deidra aveva deciso di aspettare. Il suo corpo ormai era una centrale di freddo e di terrore, raggomitolata com’era nel fango e nelle erbacce.
A un certo punto, dopo secoli, il cielo sopra di lei aveva iniziato a rischiararsi. Deidra aveva cercato di sviare i pensieri dal gelo e di concentrarsi sulla situazione.
Di lì a poco sarebbe stato giorno, e la protezione dell’oscurità sarebbe venuta meno. Che fare? Rischiare il tutto per tutto e ritornare in casa, sperando di trovare suo padre appeso a un cappio? Zoppicare fino alla statale?
Mentre analizzava le varie ipotesi, un suono l’aveva fatta ritornare in vita.
L’ubriacone della zona stava cantando in lontananza, lungo lo sterrato. Stava cantando un vecchio traditional, la canzone del figlio di Mrs.McGrath che perde le gambe combattendo in guerra. Quel canto, per Deidra, era la salvezza.
L’ubriacone della zona amava camminare fino a Limerick al sorgere del sole, ad aspettare l’apertura del suo pub preferito. Per andare a Limerick, doveva per forza passare davanti alla loro casa.
Usando le mani e il piede buono, Deidra si era alzata in piedi. Era alta un metro e sessanta, così che la sua testa si trovava a sbucare di circa dieci centimetri sopra il fossato. Aveva iniziato ad agitare le braccia in direzione dell’uomo, che era a una cinquantina di metri di distanza.
“Aiuto!” aveva gridato “Aiuto!, ho bisogno d’aiuto!”
Era salva. Sì, avrebbe avuto incubi per anni, l’incubo di suo padre impazzito in una sera di marzo, l’incubo dei corpi di sua madre e suo fratello devastati dai proiettili, l’incubo di una notte in un gelido e fangoso fossato, ma era salva. “Aiuto!” aveva gridato di nuovo “Signore, mi aiuti!”
In quel momento, un’ombra aveva coperto il pallido sole.

Suo padre era in piedi accanto al fosso, col fucile in mano.
Guardava in giù, con gli occhi spenti e inespressivi.
L’ubriacone in lontananza aveva smesso di colpo di cantare.

Suo padre aveva puntato il fucile contro Deidra.
Deidra aveva fatto un passo indietro.
Il dito di suo padre era fermo sul grilletto.

Il dito di suo padre si era mosso.

Deidra aveva sentito un pugno, fortissimo, nel petto.
Era caduta all’indietro, di nuovo riversa nel freddo e nel fango.
Aveva fatto in tempo a sentire l’ubriacone gridare qualcosa, e a vedere suo padre puntarsi il fucile sotto il mento. Poi non aveva sentito né visto più niente.
Il suo corpo era caduto leggero attraverso il fango e il buio, giù, sempre più giù.

2.

Deidra si svegliò sotto un lenzuolo ruvido, in una stanza sconosciuta.
Si guardò intorno, sconcertata. Si toccò il petto. Non c’era alcuna ferita.
Un sogno, pensò, E’ stato tutto un sogno, per fortuna.
No, lo sapeva, non era stato un sogno. Troppo reale il dolore al petto, troppo concreta la sensazione di affondare nella terra, il freddo, lo shock, la paura.
Si guardò intorno. Era in una stanza d’albergo dalle pareti azzurrine e spoglie. La porta della stanza era semiaperta.
Deidra scostò il lenzuolo e si alzò in piedi. Il piede ferito la sorreggeva senza procurarle alcun dolore. Uscì.
Si ritrovò nel corridoio di un albergo, con un lungo tappeto di linoleum rosso e tante porte numerate. Alcune delle stanze erano chiuse. Dall’interno di quelle stanze uscivano dei singhiozzi sommessi, o delle voci che sussurravano parole incomprensibili in lingue strane.
Le porte di altre stanze erano aperte per metà. Dentro si potevano vedere i letti disfatti, le lenzuola sul pavimento, i cuscini privi di federa.
In fondo al corridoio c’era una grande finestra, e accanto alla finestra una scala che portava ai piani inferiori. Deidra si affacciò per guardare fuori.
L’albergo sorgeva su una spiaggia illuminata da un sole freddo e autunnale, una spiaggia frustata dalle acque ghiacciate dell’oceano. A pochi passi dal bagnasciuga, a un centinaio di metri dall’albergo, c’era un tavolo da the. Intorno al tavolo erano sedute quattro persone.
Deidra corse giù per la scala che portava ai piani inferiori, fino ad arrivare nella piccola reception deserta. Uscì dall’albergo, direttamente sulla spiaggia.
Si avvicinò al tavolo da the. Quando fu a pochi metri dal bagnasciuga, riconobbe quelle persone.
C’erano sua madre e suo fratello, con espressioni spaventate e tristi. Un po’ scostato da loro, a bordo del tavolo, suo padre singhiozzava rumorosamente, disperato, la testa tra le mani.
La quarta persona era una donna sorridente, truccatissima, con un’incredibile massa di capelli cotonati sulla testa.
“Ben arrivata” disse a Deidra “ora ci siete tutti”.
Deidra guardò sua madre e suo fratello Pat, e capì razionalmente quello che in cuor suo aveva già compreso.
“Siamo morti, signora?”
La signora sorrise. “Piccola, nessuno muore veramente”.
“Siamo morti, signora?” ripetè Deidra, più forte.
La signora sorrise di nuovo.
“Le vostre vecchie vite sono finite, sì. Questo è un luogo di passaggio. Vi è stato concesso un po’ di tempo per rivedervi e salutarvi, prima di tornare nel mondo della carne”.
“Tesoro” sussurrò sua madre con vocetta tremante “Vieni qui”.
Deidra non la ascoltò. Stava fissando suo padre con gli occhi in fiamme.
“MALEDETTO!” urlò scagliandosi contro di lui “TI ODIO! TI ODIO!”
La donna la fermò, cingendola in un abbraccio gentile ma deciso. Aveva un profumo fortissimo e dolciastro, come zenzero spalmato nel miele.
“Piccolina” disse “Non c’è motivo di provare odio o rancore. Tuo padre sta soffrendo terribilmente per le conseguenze del suo gesto, ma solo perché è ancora legato alla sua precedente esistenza. Tra poco tutto sarà dimenticato, e nessuno di voi dovrà soffrire per le azioni passate”.
“BASTARDO!” continuò a strillare Deidra “TI AMMAZZO! GIURO CHE TI AMMAZZO! TI ODIO!”
L’uomo continuava a singhiozzare disperato con la testa tra le mani. La donna, tenendo ben ferma la ragazzina, scosse la testa con aria corrucciata.
“Be’ ” disse “data questa persistenza di sentimenti negativi, credo che sia opportuno accelerare il passaggio. Signora, vuole andare lei per prima?”
La madre di Deidra si alzò. Fece qualche passo verso l’oceano, immerse i piedi nell’acqua gelata. Continuò a camminare fino a trovarsi le onde all’altezza delle spalle.
“Vedi?” disse la donna, sempre tenendo ferma Deidra “L’acqua cancellerà ogni ricordo di quello che è stato prima. L’anima conserva i ricordi, la memoria no. Quella che un tempo era tua madre rinascerà in qualche altra forma ancor prima che sulla Terra sia mattina”.
Deidra continuava a lottare per liberarrsi, guardando a turno la madre immersa nelle acque e il padre che singhiozzava disperato. Alla fine domandò “E se dovessimo reincontrarci, nel mondo della carne? Cosa succederebbe?”
“Avvertireste una certa istintiva affinità” rispose la donna “le vostre anime si riconoscerebbero instantaneamente, ma nulla più. Non ricordereste niente del tempo passato come madre e figlia”.
Deidra guardò con odio il padre e pensò intensamente: Io voglio ricordare. Voglio vendicarmi. Per vendicarmi devo ricordare.
Poi tornò a guardare la madre, ormai nell’oceano fino agli occhi.
Quando l’onda si richiuse su di lei, sul pelo dell’acqua risuonò una combinazione di note. Deidra capì cos’era: era l’anima di sua madre, il concentrato di tutto quello che era stata in quella vita e nelle vite precedenti.
Dopo toccò a Pat alzarsi dal tavolino, affrontare l’acqua fino a immergersi del tutto nelle onde. Quando scomparve, una combinazione di note diversa da quella della madre ne salutò il ritorno al mondo della carne.
Poco a poco, sempre singhiozzando, anche suo padre affrontò l’oceano. Sotto lo sguardo carico d’odio di Deidra, che ascoltò con attenzione quella sequenza di note. Do. Fa. Intervallo. Do. Intervallo. Sol.
“Ora vai, piccolina” disse la donna “E buona fortuna”.
Deidra si buttò in acqua di corsa, come per inseguire l’anima del padre giù negli abissi. L’acqua salì in un lampo fino alle sue ginocchia, e poi fino ai fianchi, e al seno che non aveva avuto il tempo di formarsi. Nella sua mente era stampato il pensiero Io voglio ricordare!
Quando Deidra fu completamente immersa, ebbe una terribile sensazione.
Qualcosa non stava funzionando. Non c’era nessuna musica, nessuna sequenza di note.
Per un attimo ebbe paura.
Cercò di tornare indietro per mettere la testa fuori e avvertire la donna, ma il pelo dell’acqua si era improvvisamente alzato fino a toccare il cielo. Milioni di metri cubi di un intero, nero oceano incombevano su di lei.
Deidra terrorizzata guardò in basso e

di colpo fu travolta da una cascata di luce. Il suo corpo era piccolissimo e indifeso, manipolato da mani enormi e sconosciute.
Ecco, pensò distintamente, sono nel mondo della carne, sono rinata come neonato.
Non vedeva chiaramente ciò che la (lo?) circondava. Sentiva delle voci, il pianto di un altro bambino. Una donna che diceva Gemelli! e poi aggiungeva Un altro maschio! Una seconda donna che diceva Datemelo in braccio!
E un altro suono.
Delle note, una combinazione di note. Do. Fa. Intervallo. Sol. Intervallo. Sol.

Quando realizzò di essere rinata (rinato?) come fratello gemello di quello che era stato suo padre, la creatura che era stata Deidra cominciò a urlare di rabbia, odio e frustrazione. Il grido uscì stridulo e indistinguibile attraverso la sua piccola bocca, man mano che quei pensieri all’inizio lucidi e razionali si vaporizzavano in un cervello troppo minuscolo per poterli contenere tutti.
Sarebbero rimasti in fondo a quel cervello, a germogliare come semi. In attesa.

3.

I due gemelli erano nati in Grecia, figli di una coppia di fan maniacali dei Beatles. In nome di questa passione, nonostante le proteste dei nonni tradizionalisti, Deidra ora si chiamava John. Quello che era stato suo padre, adesso si chiamava Paul.
I genitori dei piccoli Paul e John erano assolutamente intenzionati a mettere al mondo a breve anche Ringo e George, ma nel frattempo avevano iniziato fin dalla culla a educare i figli alla religione beatlesiana. I gemelli erano cresciuti col perenne sottofondo dei dischi dei Fab Four.
Paul e John sembravano gradire la musica dei Beatles, in linea di massima. Solo la celebre Yesterday provocava inaudite reazioni in uno dei due.
L’ascolto di Yesterday non scuoteva minimamente il piccolo Paul. John, invece, cominciava a strillare come un’aquila fin dalle prime note.
Alla fine, all’ennesima crisi isterica provocata da Yesterday, i genitori di Paul e John avevano deciso che la religione beatlesiana poteva temporaneamente fare a meno di uno dei pilastri della fede. Per amor del quieto vivere.

I gemelli erano cresciuti a pochi passi da un promontorio a picco sul mare. Si erano abituati a giocare a pallone a due passi dal baratro senza che i genitori si preoccupassero minimamente per la loro integrità. Il promontorio, da sempre, era parte integrante delle loro vite.
Un pomeriggio stavano giocando a pallone a pochi metri dall’abisso, come sempre, cercando di non far volare il pallone giù nel vuoto. Erano diventati abilissimi in questo.
Il sole era enorme e sfavillante dietro la roccia, la madre stava allattando il piccolo Ringo, da poco arrivato, il padre stava riparando il tetto, quando i semi erano germogliati nel cervello di John, ormai perfettamente formato. Aveva guardato il fratello, che rincorreva il pallone per non farlo cadere nel vuoto, e aveva provato un intenso dolore all’altezza del petto.
Come un pugno fortissimo.

Aveva sentito un’ondata di odio montare da dentro, un grido di vendetta urlare in ogni cellula del suo corpo di bambino.
Paul aveva stoppato il pallone con l’esterno del piede, a un passo dal baratro. Pronto a rimetterlo in gioco, si era girato verso il fratello.
E aveva visto John corrergli incontro.
Con una faccia che non era la sua faccia.

John aveva spinto il fratello con tutta la forza delle sue piccole braccia. Poi aveva puntato i piedi, per interrompere l’inerzia della corsa.
Con un piccolo singulto sconcertato, Paul aveva cercato di restare in equilibrio sul ciglio dell’abisso. Prima di arrendersi alla gravità, aveva stretto le dita su qualcosa di solido.
Il braccio destro del fratello.
John e Paul erano volati giù insieme. I loro corpi erano stati ingoiati dai cavalloni e dagli scogli.

4.

John si era risvegliato direttamente sulla spiaggia, all’ombra dell’albergo. Era seduto al tavolino da the, sul bagnasciuga, ma di fronte non aveva la signora sorridente. Stavolta c’era un uomo anziano e arcigno, silenzioso e accigliato come un vecchio maestro di scuola. Intimidito, John non aveva osato rivolgergli la parola.
Aveva bevuto il suo the, e si era girato verso l’albergo.
Paul era affacciato alla finestra di una camera, la mano che scostava una tendina, spaurito, gli occhi fissi sulla spiaggia. John aveva distolto lo sguardo.
Quando aveva finito di bere il the, l’uomo anziano aveva fatto un cenno con la testa in direzione dell’oceano. John si era alzato, in silenzio, camminando verso l’acqua.
Doveva dire al vecchio quello che era successo l’ultima volta? Doveva dirgli che qualcosa non aveva funzionato, che l’acqua non aveva cancellato il ricordo della sua vita precedente? Che per vendicarsi aveva ucciso il fratello, finendo per morire a sua volta?
Si era voltato a guardare il vecchio, che lo fissava severo e impaziente. Così severo e impaziente, che John si era affrettato a immergersi senza dire una sola parola.
Ancora una volta, quando le onde si erano chiuse su di lui, nessuna combinazione di note aveva salutato il suo ritorno nel mondo della carne.
La creatura che si era chiamata Dreida e che si era chiamata John, lo sapeva, era condannata a ricordare ancora.

5.

Vent’anni dopo stava uscendo dalla cerchia dei viali, in sella al suo motorino. Aveva passato la serata in un cinema d’essai del centro di Bologna, da solo come sempre, e ora stava tornando a casa pronto a passare la notte sui libri. Avrebbe dovuto sostenere un esame, di lì a pochi giorni, alla facoltà di filosofia che frequentava con grande profitto.
In questa incarnazione si chiamava Nemo, ed era tutto tranne che una persona allegra. Aveva in continuazione terribili incubi, fossati fangosi, teste esplose, pallottole nel petto, cadute. Soffriva di vertigini, di dolori allo sterno, e non poteva sentire Yesterday senza soffrire di attacchi di panico. Era un ragazzo molto solo.
Il motorino aveva imboccato via san Donato, aveva superato il ponte, aveva girato a destra passando davanti al mercato. Nemo era assorto in profondi pensieri.
In parte stava meditando sul film che aveva visto, sì, in parte si stava preparando all’immersione nei libri e negli appunti che lo aspettavano a casa, ma soprattutto stava pensando all’Altro. Lo spirito affine. Colui che era stato suo padre e suo fratello. Colui che lo aveva osservato rinascere, dalla finestra di una stanza dell’albergo sulla spiaggia.
Cosa farò quando incontrerò l’Altro in questa vita?, stava pensando mentre girava a sinistra. Come mi comporterò?
In Irlanda era stato ucciso dall’Altro. In Grecia era stato lui a uccidere l’Altro. Morendo a sua volta, d’accordo, ma questo era stato uno spiacevole corollario.
Funzionava così, la ruota del karma? Azione e reazione? La vittima diventa carnefice e poi il carnefice diventa vittima, vita dopo vita? Toccava a lui, in Italia, morire per mano dell’Altro?
Nemo girò a destra alla rotonda, imboccando via Ristori.
Io ho un vantaggio, pensò. Io ricordo. Io so tutto. Appena incontro l’Altro, appena sento la combinazione di note che lo identifica, lo uccido. Scombino la ruota del karma.

Immerso in queste profonde riflessioni, apparentemente poco adatte a un ventenne studente di filosofia belloccio e tenebroso, Nemo spinse il suo motorino sputacchiante fino all’incrocio tra via Ristori e via Duse. A sinistra dell’incrocio spuntavano i fari di un’auto, obbligata a fermarsi allo stop. Nemo fece per superare l’incrocio, sempre immerso nei suoi pensieri.
Sentì lo stridore della frenata. Vide i fari vicinissimi.
Poi si trovò con la faccia sull’asfalto.

Confuso, cercò di tenere gli occhi aperti e di non perdere conoscenza. Il motorino gravava con tutto il suo peso sulla sua cassa toracica.
L’auto non aveva rispettato lo stop.
Lo aveva investito, scaraventandolo dall’altro lato dell’incrocio. Il conducente aveva aperto lo sportello, e ora stava correndo verso di lui per soccorrerlo.
Nemo sentì due cose prima di perdere conoscenza. La voce di una ragazza che strillava isterica “Oddio mi dispiace non ho visto lo stop, non ho visto lo stop, oddio, mi dispiace”. E una combinazione di note.
Do. Fa. Intervallo.
Sol. Intervallo. Sol.
Un attimo prima di scivolare nel buio, Nemo riuscì a scorgere la ragazza più bella che avesse mai visto.

Si svegliò in un letto d’ospedale, bendato, immobile e incapace di parlare. L’Altro era accanto a lui, nelle sembianze della ragazza. Lo aveva vegliato giorno e notte, divorata dal senso di colpa e da qualcosa di primordiale ed intenso, un legame, un’attrazione alla quale non era riuscita a dare un nome. Parlando dolcemente, spiegò a Nemo che tutto era andato bene, che nel giro di poche settimane avrebbe ripreso a parlare e a camminare. Gli promise che sarebbe stata accanto a lui per tutto il tempo necessario a guarire e anche dopo, per la riabilitazione. I suoi occhi giganteschi sembravano voler aggiungere E anche dopo, per sempre, se vorrai. Era innamorata dell’uomo che aveva investito, innamorata fin dal primo istante, senza sapere perché.
Nemo, che conosceva benissimo il perché di tutte le cose, sospirò. Il suo spirito sembrava cantare sotto le bende, nel ritrovarsi accanto al suo spirito affine.
Erano già innamorati senza speranza.
E uno dei due avrebbe dovuto uccidere l’altro.
Sarebbe stato un amore difficile.

20 COMMENTS

  1. complimenti, ero scettico ma mi ha appassionato veramente.
    forse un pò troppi avvitamenti, ma l’idea è proprio bella e lo sviluppo interessante.
    saluti
    luca navarra

  2. si passa da un cannibalismo letterario in versione fast food ad una metempsicosi dal sapore di melassa mal stemperata. il tutto in uno stile minimal che nella seconda parte non regge bene il non detto.
    comunque l’idea è originale .

  3. solo per dire: ma questi che vogliono fare? entrare nel guinnes dei primati?
    cioè esiste la categoria maggior numero di racconti pubblicati a casaccio dagli stessi autori nel maggior numero di antologie pubblicate a casaccio?
    soloperdire, eh!

  4. immerse i piedi nell’acqua gelata

    “gelata” chi lo dice, chi lo sa? Messa nella seconda pausa-incarnazione, e non nella prima, avrebbe avuto un senso. Messa nella prima pausa-incarnazione è: o sprecata (quante cose ci si poteva costruire, su quel “gelata” messo proprio lì, con due o tre tocchi), o sbagliata. Il punto di vista, porca miseria, non è un giochetto facile.

    E li pubblica Perrone, come cambiano gli editori.

  5. …caro Gianluca, leggendo questi commenti viene voglia quasi quasi di non pubblicare più racconti su questo sito…

  6. Hai ragione, Roberto M.
    Un racconto che si chiama L’altro non deve confrontarsi con L’Altro. Eh, vivaddio…

  7. Appassionante, il racconto. Anche l’idea mi sembra originale e sviluppata piuttosto bene.
    Ma.
    “un piccolo e agonizzante crac!” ad un piede, e la successiva difficoltà a camminare, sono evidenti segnali di sofferenza e dolore fisici manifestati da Deidra. “Il suo corpo ormai era una centrale di freddo e di terrore”: efficace l’immagine, manca però il valore aggiunto del dolore fisico. Non le faceva male il piede, presumibilmente rotto?
    Un piccolo dettaglio omesso.

  8. Io credo che ci sia quella virgola alla cinquantaquattresima riga che inceppa la diegesi.Per non parlare delle ridicole agnizioni presenti quasi in ogni capitoletto,veramente ridicole.Ridicole tout court,direi.

  9. Ma no, Roberto M.
    Non prenderla in questi termini. Scusami anzi per il tono. Tuttavia è una buona storia, è un peccato che abbia degli sbilanciamenti così evidenti, il primo e più banale dei quali è la rinuncia al tono particolare delle prime tre righe, il secondo dei quali è un certo ondeggiamento (da sfruttare di più, mi consentirai, in un racconto di orlandismi) del punto di vista, il terzo dei quali è la poca o nulla presa drammatica dell’ultima parte.

    E’ una buona storia, e un’edizione magari meno “alle stampe! alle stampe!” avrebbe offerto un po’ di buio e silenzio all’autore per calibrare meglio il suo lancio.

    Si percepisce, purtroppo, quando l’autore esce dalla storia: secondo me è dentro fino alla prima reincarnazione, poi ne esce. Lascia cadere la storia fuori da sé. Purtroppo si vede.

  10. è una bella storia, scritta da uno che è capace di raccontare. Con buona pace di chi si mette in cattedra appena svestito il grembiulino della Holden o di chissà quale altra sedicente scuola per scrittori.
    Non rosicate, fa male

  11. Tra leggere e rosicare c’è differenza, caro Wakefield.

    Il giorno in cui lo dimentichi, appendi pure l’aglio fuori dalla porta e ribattezzati Robert Neville – quello del libro, non quello del film…

  12. Gianluca ciao, ho letto solo ora, altrimenti sarei venuto a bo.
    Il tuo racconto è davvero bello. Secondo me sei l’unico che sia riuscito a frullare quello che è inglese/americano in un modo tuo e poetico. Tu ‘sei’ questa scrittura, non la punti e basta. Si sente che vuoi davvero bene a Moore, King, Springsteen, Gaiman, Kirby…
    E loro ovviamente ti ricambiano.

  13. Io trovo che certi commenti siano un po’ troppo snob. E volgari anche, come il “mi fa cagar” di Anna Maria. Perché ti fa cagar?
    Io trovo che Gianluca Morozzi sia di gran lunga più originale e bravo di tantissimi altri che scrivono commenti pontificando su virgole e virgolette. Forse la vostra è solo invidia, perché Gianluca ormai è un nome importante e seguito.
    Detto questo anziché criticare e basta l’iniziativa di LAB volevo chiedere a soloperdire cosa intende per casaccio.
    Ettore Malacarne è bravissimo. Ho letto sull’ultimo Satisfiction il suo racconto “Un individuo che annega” e devo dire che è un fuoriclasse. Eliselle ha scritto un romanzo bellissimo, Ecstasy Love che è lontano anni luce dalle prugne secche di questi anni. Gianluca credo non debba dimostrare nulla a nessuno. Ivano Bariani nemmeno…
    In più se ci metti che l’antologia ha una sua progettualità… credo che a casaccio ci siano solo i commenti a questo post

  14. Grazie Andrea, grazie Marika. Il vostro equilibrio e la vostra lucidità sono consolanti per tutti coloro che amano veramente leggere e non semplicemente giudicare a partire dalle proprie frustrazioni, vi abbraccio (virtualmente)

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marco rovelli
marco rovelli
Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.