I cantieri del romanzo – 1
di Giacomo Sartori
1. Il romanziere e le sue materie prime
Come moltissimi altri autori contemporanei di narrativa, anch’io per ogni testo che scrivo, e naturalmente a maggior ragione per i testi lunghi, per i romanzi, utilizzo molti materiali che mi servono per attingere delle idee e delle informazioni di vario tipo. Che mi servono quindi come ‘documentazione di base’, come ‘materia prima’. Dando a questo termine un senso lato: si va da testi teorici che poi si riflettono nelle tesi di fondo/assi centrali del testo, a scritti tecnici molto specialistici legati appunto a qualche dettaglio di minore importanza (testi sul linguaggio corporale per descrivere un determinato e non ricorrente gesto di un personaggio, testi sulle armi da fuoco per descrivere un fucile che appare nelle mani di un personaggio…).
L’insieme di questi materiali comprende a seconda dei casi testi di storia, di filosofia, di psicologia e di psicanalisi, di etologia, scientifici, tecnico-specialistici, iconografici, biografici e autobiografici… (Naturalmente tra i materiali di documentazione ci sono anche quelli che provengono da internet, che io stesso come molti altri scrittori utilizzo in modo sempre più massiccio. E qui, proprio per il carattere aleatorio della navigazione, la ricostruzione dei percorsi, dell’ordine temporale e della gerarchizzazione dei vari strati di informazione, delle quali parlerò nei paragrafi seguenti, si farebbe ancora più difficile). Tralascio volutamente di includere i testi letterari, i quali beninteso possono e sono effettivamente quasi sempre usati come fonte di idee e di informazioni, o comunque come contesto di riferimento e/o come referenti di simboli e stilemi, perché questo versante della genesi di un testo è molto più assodato. Un nostro automatismo mentale, del quale sarebbe interessante rintracciare le origini, fa sì che quando consideriamo un dato autore pensiamo subito alle influenze letterarie esplicite o implicite, o anche ai dati biografici, ma molto meno, a parte qualche caso tutto sommato raro (per esempio Gadda), all’influenza degli scritti e delle fonti non letterarie.
Naturalmente certe materie prime lasciano delle tracce così evidenti che i critici e i lettori avveduti li rinvengono con relativa facilità. Sappiamo per esempio che Bergson è stato essenziale per Proust, dopo gli scacchi del Jean Santeuil e del Contre Sainte-Beuve, per arrivare al progetto della Recherche. E non possiamo non vedere Nietzsche quando leggiamo D’Annunzio. Questi sono per così dire i materiali che rimangono a vista anche dopo lo smantellamento dei cantieri di cui si è servito l’autore: gli architravi, le imponenti chiavi di volta. Molti altri materiali forse meno nobili ma altrettanto essenziali – le minutaglie utilizzate per i riempimenti e per gli isolamenti, le sabbie inglobate nelle malte fini, i pigmenti delle vernici… – sono però per la maggior parte destinati a restare nascosti nell’opera.
Questi materiali che nutrono il testo possono essere, e di solito lo sono, molto abbondanti. Per quanto mi riguarda, sono cosciente per esempio che fare a posteriori un rigoroso inventario di tutti i testi che ho utilizzato per un determinato romanzo, e soprattutto valutare poi con una accettabile approssimazione il rispettivo apporto al testo finale, sarebbe un grosso lavoro, un lavoro improbo, se non per certi versi, soprattutto a distanza di anni, impossibile. Dovrei riuscire a piazzare nel loro ordine cronologico la farraginosa e disordinata, e per molti versi ‘casuale’ (si veda più sotto) concatenazione di testi, e situarli nei loro rapporti con il testo in fieri, o per meglio dire con le varie e successive versioni del testo in fieri, in uno spazio temporale che abbraccia diversi anni (diciamo da 2-3 a 5). Naturalmente molti testi sono serviti come semplice rimando, hanno rappresentato solo una via – pur sempre necessaria, giudicando a posteriori – per arrivare ad altri testi, come quelle persone che nella nostra storia sono importanti soprattutto perché ce ne hanno fatto conoscere altre che si sono rilevate effettivamente importanti, svolgendo quindi una funzione di ‘ponte’. Sarebbe insomma un paziente lavoro da archeologo che non ho il tempo di fare e che a che dire il vero non ho mai avuto la tentazione di fare.
Sono però convinto che questa impresa certosina di ‘critica genetica’ sarebbe molto utile, e mi insegnerebbe molte cose. Sono sicuro che questa operazione di riesumazione della ‘bibliografia sommersa’ mi permetterebbe di intaccare almeno in parte l’aspetto misterioso che il testo finito ha per certi versi ai miei stessi occhi (perché proprio quel dettaglio della vicenda?, perché proprio in quel momento?, perché un cappotto rosso?…), riportandomi alla memoria dei dettagli della genesi del testo che ho finito per dimenticare io stesso. Ma andiamo con ordine.
2. Le materie prime e i cantieri
Nell’attività che chiamiamo ‘scrittura’, e per la quale mi sembra appropriata la metafora del cantiere, il romanziere lavora su delle materie prime di varia natura e varia origine, e le riordina, operando continuamente delle scelte, centinaia di scelte, migliaia, il più delle volte di tipo binario (la prima persona o la terza?, il dato tema troverà spazio o no?, il dato personaggio morirà o non morirà?, nel tal paragrafo fuma una sigaretta o non la fuma?…) o anche di tipo non binario, in relazione a codici culturali consci o solo parzialmente consci (ad es. il posizionamento morale di un personaggio, le posizioni corporali…). Il processo mentale corrispondente all’attività che chiamiamo scrittura consiste principalmente in una organizzazione di materiali operata mediante una successione di scelte tra varie alternative possibili. Queste scelte sono naturalmente in rapporto con i testi che accompagnano e alimentano la scrittura, dai materiali cioè che alimentano il cantiere.
Se, tanto per intenderci, voglio descrivere un coltivatore dell’età del bronzo nella regione che corrisponde all’attuale Carelia, argomento sul quale supponiamo che non sappia nulla prima di documentarmi, i caratteri del mio contadino protocareliano deriveranno esclusivamente (anche se certo passati al setaccio dal mio buon senso, della mia ‘conoscenza generica dell’uomo’…) dalla mia documentazione ad hoc (faccio volutamente astrazione dal filtro costituito dalla cultura letteraria). Spesso invece l’apporto dei testi di appoggio è meno assoluto, perché si innesta su un sapere pregresso. Se per esempio devo descrivere un milanese contemporaneo nevrotico, i testi sulla nevrosi e sui maschi nevrotici che consulto serviranno a integrare le mie conoscenze e letture precedenti e la mia esperienza di vita (e naturalmente il ricordo della miriade di personaggi nevrotici della letteratura da me conosciuta; ma, ripeto, sto concentrando l’attenzione sui dati non letterari). E se descrivo un abitante di una galassia che si chiama BŴ-C2y, mi rifarò, per quel che mi potrà servire, alle esperienze dei viaggi spaziali, a quello che si conosce del cosmo e della sua origine, all’ingegneria genetica e all’intelligenza artificiale, e via dicendo. Ma, è questo che mi preme sottolineare, qualche elemento più o meno significativo dei testi consultati migrerà pur sempre nel testo letterario.
Potremmo ipotizzare, come mi sembra si faccia comunemente, che questi materiali abbiano una pura funzione di ‘materie prime’, che vengano cioè impiegati nell’azione di scrittura senza lasciare alcuna scoria, senza modificare la percezione dello scrivente, senza esercitare alcuna influenza sulla scrittura stessa. Mi pare molto più verosimile che tra il testo letterario e le sue materie prime si instauri il più delle volte un rapporto che non si limita ai ‘contenuti’. In altre parole la scrittura, a cominciare dalle scelte lessicali e sintattiche, è condizionata in qualche modo dal lavoro di documentazione. Lo scrivente stesso non è più lo stesso, dopo essersi documentato: la sua percezione si è allargata/modificata, la sua lingua ha ricevuto degli apporti/contaminazioni.
3. L’oblio del lettore e l’oblio del romanziere
Kundera ne Il sipario ha descritto in modo molto convincente il ruolo invadente dell’oblio nella fruizione da parte del lettore di un romanzo. Oblio, ci dice Kundera, a tutti gli effetti inevitabile, vista la quantità di elementi contenuti nel testo. Oblio, si potrebbe aggiungere, in fondo necessario per ‘rafforzare’ l’effetto estetico complessivo dell’opera, prendendo le distanze dal marasma dei dettagli (qualcosa come la maestosa visione d’insieme, necessariamente lacunosa rispetto alla miriade di possibili scorci a distanza più ravvicinata, ma destinata a imprimersi per sempre nella memoria, entrando in una cattedrale). Kundera contrappone tale «oblio devastatore del lettore» a «l’indistruttibile castello dell’indimenticabile» costruito a fatica dall’autore.
Si potrebbe forse obiettare a Kundera che qualcosa di simile all’oblio del lettore si può rinvenire anche nel lavoro dello scrittore, nella scrittura stessa. In realtà già nelle fasi finali della stessa, l’autore ha dimenticato certi aspetti del testo al quale sta lavorando, ha per esempio almeno in parte dimenticato i dettagli della miriade di cantieri che stavano dietro alle singoli frasi. Ha dimenticato, se non altro, i dettagli delle impalcature che in quei cantieri sorreggevano ogni singola frase in attesa che si reggesse da sola. Nelle ultime fasi della scrittura, per quel che mi riguarda, faccio attenzione ‘all’impressione generale’, ‘vado a intuito’, ‘ascolto la musicalità’, prendendo le distanze dal lavorio senza alcun paragone più cerebrale (l’infinita sequenza di scelte alla quale ho accennato più sopra), prendendo le distanze dai testi che ho utilizzato per la documentazione, in un certo senso appunto ‘dimenticandoli’. Anzi, questo oblio nelle fasi finali della scrittura ha forse l’importante funzione di lasciare più spazio alla visione d’insieme, è forse un presupposto indispensabile per avanzare verso il testo finale. È come cioè – per restare nella metafora del cantiere – se l’autore aprisse un cantiere conclusivo che ha come finalità la ripulitura degli spazi occupati dalla miriade di cantieri precedenti, l’eliminazione dei detriti e dei materiali non utilizzati, senza preoccuparsi troppo della specificità del lavoro che è stato svolto in ciascuno di essi. Un cantiere a un livello gerarchico più alto, se si vuole esprimersi con il gergo utilizzato per le tassonomie.
Se rileggo a posteriori la versione definitiva di un mio testo, devo ammettere che moltissime delle scelte che mi sono trovato di fronte e che ho fatto (intendo: l’alternativa precisa che si è presentata alla mia mente, il corredo di motivi e di implicazioni e di significati e di simboli che accompagnava ciascuna possibilità…), proprio per il loro numero infinito, le ho dimenticate, proprio completamente dimenticate. O meglio, grazie alla dimestichezza che ho con il mio modo di scrivere, rileggendo una data frase mi rendo conto che dietro si annidano delle scelte, so benissimo che ogni parola corrisponde a scelte ben precise, e che la versione finale della frase è il risultato di una serie di passaggi via via più riusciti. E facendo uno sforzo posso in parte intuire queste scelte e queste varianti meno riuscite, riesco a ricostruirle parzialmente. Ma devo riconoscere che della maggior parte di queste decisioni ho perso la memoria, non ritrovo in me alcuna traccia di esse. Semplicemente mi sembra che il testo vada bene così com’è, che ‘scorra bene’, non sia insulso, non sia migliorabile.
Non sto dicendo che ho dimenticato tutte le scelte e tutti le versioni intermedie di quel mio testo che sto rileggendo, perché come è ovvio molte, a cominciare naturalmente da quelle che considero essere le più importanti, le ricordo nei dettagli. Ma per ricostruirne molte altre dovrei fare mente locale, e per altre ancora anche facendo mente locale non arriverei appunto a nulla. E comunque anche per molte di quelle che mi sembra di ricordare bene, farei molta fatica a ritrovare adesso il corredo di testi che le hanno determinate o comunque influenzate.
Naturalmente il fatto che lo scrittore dimentichi via-via quello che fa va contro l’idea dell’artista che abbiamo e alla quale restiamo in fondo attaccati. Quest’idea, questo mito, che si porta dietro un pertinace bagaglio romantico, presuppone che l’autore controlli ogni elemento del testo, dove questo controllo è inteso come un imperio assoluto e avulso dal tempo (senza dimensione temporale, e quindi anche successivo della conclusione della data opera, anche precedente). Quasi che nella persona (il cervello) dell’autore esistesse un quadro di comando costantemente collegato ai singoli elementi del testo (il testo definitivo), una distesa di bottoni e di cursori non destinati a invecchiare e a ossidarsi, e sempre in funzione. Come se il testo definitivo non fosse il più delle volte il risultato di una graduale azione di affinamento svolta su varianti successive. La stessa letteratura, e in particolare Proust, con le sue riflessioni sulla memoria e sulle fasi successive nell’esistenza degli individui, ma anche e soprattutto le scienze cognitive (in particolare i recenti lavori sulla ‘memoria di lavoro’ durante l’attività di scrittura), e la psicanalisi (il ruolo degli elementi e delle istanze non coscienti), ci hanno dimostrato che così non è.
Si potrebbe forse osare un parallelo con la pittura. È evidente per esempio che ogni singola pennellata di un quadro di Tiziano si può considerare essenziale per la realizzazione dell’opera finita. Evidentemente Tiziano mentre dipingeva ha sentito la necessità di quella specifica pennellata (in opposizione a un pennellata diversa, o in un altra zona della tela…) su cui fissiamo l’attenzione, considerandola appunto insostituibile, e tutte le pennellate che hanno seguito hanno tenuto conto di essa e della sua insostituibile specificità. Ma si può ragionevolmente dubitare che Tiziano alla fine del quadro (e tanto più a distanza di tempo) serbasse memoria di ogni singola pennellata, e della precisa successione delle varie pennellate. Si può più ragionevolmente ipotizzare che Tiziano si servisse a partire da un certo momento di una intuitiva ‘impressione d’insieme’ (le scienze cognitive sarebbero molto più precise). Quindi Tiziano è sì il ‘controllore’ di ogni millimetro del suo quadro, e di ogni pennellata, ma questa sua capacità di controllo non può essere intesa come una facoltà fuori dal tempo, destinata a sussistere ab aeternum, ma come un potere legato alla successione temporale del lavoro mentale – con la sua precisa dinamica – che ha portato alla realizzazione del quadro in questione.
4. Le mie materie prime
Per ogni mio romanzo ho un’idea abbastanza precisa di come può essere suddivisa o classificata la mole di testi di documentazione che ho utilizzato. In parte sono libri che ho comprato e che quindi conservo: molti scaffali della mia biblioteca sono legati a una specifica tematica legata a un dato testo (ad es. i testi storici sul fascismo utilizzati per Anatomia della battaglia). Sono nati da un’accumulazione utilitaristica ma anche casuale (man mano che mi serviva approfondire un dato aspetto, e senza alcuna ambizione di esaustività), una disposizione che per pigrizia, o forse anche per attaccamento a quella casualità che rispecchia pur sempre in un certo senso l’essenza del testo finale, non ho più sconvolto. Altri testi invece li ho presi nelle biblioteche, o me li hanno prestati, ma hanno lasciato delle tracce ben riconoscibili (nel testo stesso, o nelle ‘note scritte di appoggio’, che conservo, al testo). Molti altri testi non hanno invece ahimé lasciato traccia alcuna, e mi sarebbe invece più problematico rintracciarli. Questo però non mi impedisce di poter individuare senza difficoltà, come dicevo, le grosse categorie di documenti che hanno contribuito a un dato testo testo.
Quale che sia la natura dei documenti di cui mi servo, nel lavoro di ricerca che faccio per ogni mio testo posso riconoscere, ormai lo so anche prima di cominciare, due fasi ben distinte. La prima fase è quella che precede l’inizio della scrittura vera e propria. Ogni volta che comincio a lavorare a un nuovo testo – quando cioè qualcosa dentro di me ha deciso che il dato abbozzo mentale è promettente e adatto, e farà del suo meglio per diventare un romanzo – inizio a documentarmi. La documentazione mi sembra un aspetto fondamentale e imprescindibile del lavoro di ‘scrittura’ (dove appunto la ‘scrittura’ comprende quindi anche le attività a monte, alla scrittura vera e propria).
Questa esigenza di documentarmi è forse dovuta al fatto che sono un autodidatta, e che non ho fatto studi superiori umanistici-letterari. Probabilmente è una forma di sindrome dell’autodidatta, quel complesso di chi non riesce a liberarsi della sensazione di non sapere niente di niente. Ma certo in parte è anche una deformazione professionale dovuta alla mia formazione scientifica e al mio lavoro scientifico. Un articolo scientifico inizia sempre con un cappello che introduce la problematica, e che rimanda alla bibliografia più significativa in materia. E poi integra le conoscenze acquisite, o le mette alla prova, o anche, come ha teorizzato Kuhn, le sovverte radicalmente. Ma insomma non perde mai di vista il contesto della comunità che ha lavorato su quella stessa problematica.
Ebbene, grazie a questa deformazione io prima di iniziare a scrivere sento sempre il bisogno di documentarmi il meglio possibile. Se parlo di un assassino, vado a vedere cosa si dice sugli assassini, se parlo di un assassino psicolabile, cosa dicono i testi di psicopatologia. Se descrivo un cielo, o un ghiacciaio, o dato albero, vado a vedere se trovo qualcosa sui cieli, sui ghiacciai, sul quel dato albero. Non per dare poi al mio testo una verosimiglianza realistica, intendiamoci bene, ma come mia conoscenza di base. L’albero nel mio testo potrà risultare rosso scarlatto (spesso succede proprio così!), o azzurro, ma io so che nella realtà è invece verde pallido e in autunno diventa giallo oro.
So che molti autori lavorano come io lavoro, e sono cosciente che in quanto sto dicendo non c’è nulla di originale. Mi stupisce però che molti altri scrittori utilizzino, per quanto si può capire, altri procedimenti, che astraggono completamente dai saperi specialistici. A mio parere si può dire per esempio, e si potrebbero portare molte prove, che la psicanalisi non è molto presente nella narrativa italiana contemporanea. Molti romanzieri italiani contemporanei mostrano di essere completamente ignoranti in materia, e non sembrano preoccuparsene. È sufficiente un’infarinatura di base di psicanalisi per rendersi conto che i loro personaggi e le loro storie non stanno proprio in piedi dal punto di vista dei meccanismi che operano nella psiche. Devo confessare che trovo questa situazione piuttosto imbarazzante. Non tanto per la mancanza di coerenza psicanalitica in sé, che non è certo un elemento necessario, ma appunto per il fatto che questa incoerenza non sembra essere in alcun modo essere voluta, non sembra essere cosciente di se stessa, con un conseguente inevitabile sconfinamento nei clichè (il più delle volte inconsci) presenti nella cultura italiana.
(continua)
Questo testo è stato letto al Seminario Internazionale sul Romanzo coordinato da Massimo Rizzante, che si è tenuto all’Università di Trento nel corso del 2007 e che uscirà in volume, assieme agli altri interventi, nel 2008.
Molto interessante. Vorrei soffermarmi in particolare su un passo. “Quest’idea, questo mito, che si porta dietro un pertinace bagaglio romantico, presuppone che l’autore controlli ogni elemento del testo, dove questo controllo è inteso come un imperio assoluto e avulso dal tempo” che Sartori, ovviamente, smonta.
Effettivamente, quest’idea “romantica” (nel senso comune di immediato e naif) del romanticismo (come momento storico letterario concreto e filosoficamente, né immediato né naif), nonché dell’attività dell’autore in generale persiste e prospera, e mi chiedo come mai questo mito irrazionale abbia tanta forza.
Suggerimenti?
Grazie mille Andrea, per questo lungo brano che ho letto con lentezza. ammiro molto Giacomo Sartori, anche se la vista del cantiere cheè una parola giusta non la condivido. Parla del lavoro di documentazione. Mi chiedo se questo lavoro no fa perdere la sensibilità, la libertà. Forse no amo avere un piano preciso: un cantiere pasticciato, direi.
L’idea di scelto è bella, vera. Il cammino nel romanzo è il consenso della perta e nello stesso momento di un “pieno”.
La parte riguardando l’oblio è magnifico, come un velo che copre le notte di ricerca, le interrogazioni, la musica dell’anima. L’oblio è forse la condizione per scrivere di nuovo, affondare nella notte.
Ho amoto anche quando Giacomo Sartori evoca il suo lavoro nel suo ultimo romanzo.
il mito occidentale della Creazione si rispecchia nella figura dell’Artista dalla notte dei tempi, vedi Platone
… tirare in ballo l’oblio mi sembra veramente interessante… scordare tutto in un romanzo ma non le atmosfere è un modo con cui si crea una possibile comunicazioe fra lettore e autore…l’autore sa cosa dimenticherà subito il lettore, il lettore sente quello che l’auore vorrebbe che ciascun lettore ricordasse… e si può essere assolutamente in disaccordo… fra-intendersi, come in ogni vera comunicazione, è scambiare la memoria coll’oblio, avere la mente in cose diverse sconoscendone la ragione
Sì, Ida, e sono convinto infatti che l’errore sia un po’ quello che potrebbe indicare Platone: trovare eternità/perfezione nell’oggetto creato e non nell’idea rispecchiata. Quindi, il nemico sarebbe il solito, banale individualismo di massa… interessante la propettiva di Vito, grazie!
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