Angelo Maria Ripellino (1923-1978)

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Ripellino muore il 21 aprile del 1978. Lo ricordiamo con una prosa tratta dal volume: Oltreslavia. Scritti italiani e ispanici (1941-1976), a cura di Antonio Pane, Istituto Euro Arabo di studi superiori, Mazara del Vallo, 2007.

Giovedì 24 si terrà alla Casa delle Letterature (Piazza dell’Orologio 3, Roma) la presentazione di due nuovi volumi ripelliniani, entrambi a cura di Antonio Pane. Interverranno Corrado Bologna, Alessandro Catalano, Andrea Cortellessa e Alessandro Fo. Qui l’invito.

IDOLA THEATRI
di Angelo Maria Ripellino

Parvenze larvali, crisàlidi, labili maschere, figurine retrattili, filiformi fantasmi, quasi frange di una diffrazione, ingombrano le partiture oniriche di Guido Davico Bonino: il poemetto Somnia, questi Idola theatri. Idola theatri o piuttosto: diaboli inventa. Alla notturna entomologia di Somnia succede la demonìa di una recita dopo la recita, quando la platea è ormai scema di spettatori e i personaggi ritornano sul palcoscenico scontenti, grifagni, perfidi.
Questo teatrino di guitti, di rozzi bagattellieri, montato sulla piattaforma di un carrozzone o nell’androne di una taverna o in un cortile con ballatoi, assume nei diversi riquadri diverse significazioni: ora di bruegeliano trionfo della morte (con l’impiccato), ora di tana da Zaratustra, di Höhle, in cui strampalate sembianze si danno convegno, ora di immensa scatola cosmica, con aggiunta di «rospi e violini e stelle comete». I quattriduani mostacci che appaiono alla ribalta (cappellaio, sorbettiere, olivaro, servitore, baularo, monaco ed altri stereòtipi di vocazioni e mestieri) sono usciti da un libro di sogni o da un manuale astrologico o dalla smorfia del lotto o da un mazzo di negre carte di streghe. Interpreti forse di una farsa spettrale o proiezioni di un pazzo ombròmane, a tratti sembrano scendere nella platea ad ascoltarsi, a beffeggiare il loro istrionesco alterego che si agita sul palcoscenico.
Passa per fasi diverse il turbolento spettacolo. Il pigia pigia iniziale, la ressa dei personaggi che si presentano diventa poi «lugubre ridda», «infame tregenda», che un lessico tratto dal ballo e dal giuoco («balzelli», «ruzza», «trabalza», «prillavano», «gambetta», «trescone», «scambietti») rende ancor più grottesca e scurrile. C’è un attimo in cui il pandemonio che impazza per la boccadopera sfuma nelle convenzioni dell’operetta, acquistando un improvviso moto viennese, una cadenza di valzer, un colore Sezession (la marsina amaranto).
Il putiferio, il viluppo, il dimenìo delle ombre nasconde abissi di putridume. Gli idoli informi ballettano sopra un pantano. C’è in tutto il poemetto qualcosa di ibrido e di verminoso. Ad accrescere questo sentore di impurità, di selvatico concorrono, non solo i vocaboli aspri, mutuati da testi italiani del Due, del Trecento, ma anche la grande consorterìa di animali: il cane, l’orso, la gatta lurca, il toro infuriato, vipere e rospi. A guardar bene, il poemetto certifica che, svincolati dal riscontro del pubblico e fuori del naturale contesto, i personaggi di teatro si fanno sgraziati e ghignanti, sorgive di insonnia, cattivi. E che, dopo la recita, i palchi, che pure furono tratti da boschi incantati, diventano palchi da impiccagioni, assiti per trebbi e veglioni di tarocchi e versiere.
Il fitto ricorso di gerundi aggrandisce l’onirica instabilità di questi versi. Tutta una sequela di notazioni vocali li percorre («frizzi», «biasteme», «becero sghignazzo», «rugghio», «muglio dirupante per il boccadopera»): notazioni che anch’esse testimoniano della ruvidità disadorna del parapiglia guittesco, dell’«informe arruffìo». Non bastano il «raggiare di asterie» o i «leggiadri accenti» a soavizzarlo. La parte più bella del poemetto è il finale: qui i personaggi si muovono ormai senza accalcarsi, sbandati, a rilento, e come se fosse già spenta la furia che li ha sommossi. Si va dissipando il torbido sogno. Essi bruciano nell’oscurità che a mano a mano divora il teatro. Come fascine di fieno la rissosa marmaglia si incendia. Il cappellaio è l’ultima carta visibile. Nel terminale assopimento del vano putiferio il rogo di quelle larve da vecchio lunario si fa allegoria del destino degli uomini, che anch’essi non sono che polvere ed ombra.

5 COMMENTS

  1. Ciao Antonio,
    era il 1987, mi pare, quando parlammo, tra di noi, per la prima volta dell’angelo Maria. Poi l’ultimo e il penutimo ce li siamo divisi.

    Ma, *ridetemi* e *siate buffi*, che accoppiata!

    fu quella che mi insegnò
    di più

    altre cose

    altro che *sconfitta*

    come si fa divertirsi tanto con la morte?

    E’ vero io provenivo da un altro insegnamento,
    di un altro immortale: Marinaru:

    *Lu cori meu è manchendi
    tuttu è bugiu in giru a me

    e soru ca no cumprendi
    s’è priparendi a pignì

    Piccadu chi non possia dì
    cantu lu cori meu è ridendi

    risa di paradisu
    risa chi no fini mai.

  2. qualche volta non si può fare a meno di ribadire cose ovvie e scontate e quindi ribadisco l’obbligatorietà della lettura di tutto quanto Angelo Maria Ripellino (tra l’altro viene da chiedere se al giorno d’oggi ci siano ancora combinazioni così felici di nome e di cognome) abbia prodotto, ivi compresa la raccolta di articoli scritti per l’Espresso pubblicata da poco

    sebastian

  3. Angelo Maria Ripellino poeta è stato ricordato con un post su Viadellebelledonne nel novembre dello scorso anno. Fummo confortati allora dagli apprezzamenti di Alessandro Fo e Federico Lenzi, curatori delle raccolte unitariamente pubblicate da Einaudi (ai commenti 23 e 25). Grazie anche a voi per averlo ricordato.

    http://viadellebelledonne.wordpress.com/2007/11/01/amore-e-morte-in-angelo-mripellino/iadellebelledonne nel novembre 2007.

    Saluti cordiali
    Antonio

  4. A me piace ricordare qui Il trucco e l’anima. I maestri della regia nel teatro russo del Novecento, Einaudi, un vero piccolo capolavoro.

    Francesco c.

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Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.