Variazioni Meridiano – 8: Luigi Pingitore
Esilio, Lingua, Resistenza
Ed è tutto quello a cui potevi arrivare, volendo.
Il bambino si stendeva per terra e la sua agonia si curvava
(F.G. Lorca)
Un bambino si stende a terra. Tende allo spasimo il corpo, piega gli arti per raggiungerla; vuole sentire con la faccia il caloroso dolore; la sua agonia (per metonimia) si curva.
In poesia l’atto mentale e l’atto fisico sono imprescindibilmente legati. Non si può pensare se non si sente. Non c’è dimensione più fisica, linguaggio più sensuale e tattile di quello poetico. Nasce da questo; dal contatto – faccia sulla terra – per assorbire la realtà e l’irrealtà. Le cose del mondo vanno, hanno percorsi precisi o imprecisi, traiettorie di afa, indifferentemente da questo contatto. Ma come può questa indifferenza del mondo sminuire la sua necessità?
L’uomo si stende sul dorso del mondo, come un navajo che ascolti l’arrivo della guerra. Mentre pensa che sta arrivando, la sua mente costruisce l’immagine. Ne nasce una dipendenza che lo isola dal contesto della guerra. Il suo sforzo è rompere quell’isolamento ma senza disperderlo: deve comunicare, spalancare gli occhi verso l’esterno, ma non aprirli completamente. Perderebbe il sogno. Eyes wide shut.
Ecco l’esilio. Necessario. E comunque inevitabile.
Non c’è altra possibilità per fare letteratura che sentirsi sempre in esilio, foss’anche da se stessi; foss’anche dal contatto con “la realtà ruvida a spegnersi” da cui ha tratto immagini. Le immagini sono pellicole diafane che isolano mentre mostrano il mondo.
Metto in discussione la mia vista. Lo faccio perché ne ho bisogno, ho bisogno di vedere. In realtà, per essere più preciso, ho bisogno di visionare. Lasciar esplodere la vista nella sua antitesi, risalire all’indietro il fiume dei fasci nervosi e andare a cercare l’immagine non sulla retina, ma nel laboratori dei neuroni, quando vista e visione ancora coincidono.
Uso il termine bisogno senza retorica. Morirei senza visioni. La realtà, da sola, non basta. È una speranza inaccessibile.
Tutto deve cominciare da quel punto. Penso che tutta la poesia nasca così, da un grappolo di immagini che si induriscono, si calcificano nella mente e chiedono una struttura che le ingabbi mentre le libera.
L’esilio è tutto qui. Cambiare paesi, strategie, approcci e intenzioni non modifica di un millimetro questa contraddizione perenne. Nel bozzolo del suo isolamento egli fermenta una lingua, l’accudisce come una pupa per preservarla da tutti i tremori e da tutti gli stupori, ma senza risparmiargliene alcuno. Al momento opportuno li dovrà restituire.
Quando mi giro di scatto ho la sensazione che il regista abbia perso l’attimo giusto. Adesso sono fuori dall’inquadratura, la troupe mi sta urlando qualcosa – oltre questo semplice vetro del caffé la città non ha significati immediati. Una voce (ne sento il calore femmineo, forse una delle attrici) mi arriva incomprensibile. Non mi va di pensarci. È così semplice perdere di vista la realtà. Accade ed è immediato. Una bocca si muove a pochi centimetri dalla mia faccia.
Rimbaud, marzo o aprile del 1991. Un approccio sensuale e febbrile alle pagine della saison, frammenti scovati in un libro scolastico, uno di quei testi avvilenti che mortificano l’adolescenza (e la sua agonia) curva sui banchi. Ecco la condizione sociale da cui sgorghi, indelebile origine – è l’Italia che imputridisce, e nasce in quella piccola mafia che è la scuola e che oggi lampeggia sul fondo di certi occhi, critici scrittori produttori. Tutti alle prese col gesso nella mano, per tracciare il perimetro attorno ai propri piedi e viverlo come uno spazio.
Mi dico che posso salvarmi.
Più delle parole (ancor prima delle parole) carta, luce, la successione geometrica delle teste che ho davanti, e l’odore di primavera che evapora dai muri… ecco i segni che incidono il mio corpo.
Di nuovo una coesione sensuale, una danza primitiva. Al centro, per ora, le occasioni mancate. Gli oggetti del mondo sono sfuggiti di mano. Montale letto in due viaggi consecutivi in treno, uno verso nord e l’altro verso sud. E fu esercizio di allitterazioni, slittamenti continui, immagini compresse quasi che non potessero esistere se non all’interno della parola e non a contorno di essa. Rimbaud, Montale e all’improvviso Dylan Thomas, Londra 1996. Ci vado per stare due settimane, ci resto tre mesi. Tutti i giorni le orecchie bombardate da questa lingua estranea, esiliante, tutte le sere una pagina di Dylan. Apparentemente nella stessa lingua, ma in realtà una ferita verticale, un aprirsi dei sensi “Ora io giovane e semplice sotto i rami del melo / presso la casa sonora e felice quando l’erba era verde, / la notte sulla vallata radiosa di stelle, / il tempo mi lasciava esultare / e arrampicare d’oro nel rigoglio dei suoi occhi.”
Come fa in fretta il tempo a sparire, perdere significato. Quante volte avrei voluto esultare. La struttura sintattica si annebbia.
Montale era ritmo, sincopato, vorticoso, di melme. Dylan è il continuo sovrapporsi all’interno della stessa acqua di correnti diverse. In mezzo a tutto questo il silenzio di Rimbaud, che poi non ho più scordato. È diventato una domanda. Forse è così per tutti. Noi che veniamo dopo ne siamo corresponsabili. Siamo geneticamente implicati. Come dopo Auschwitz, ma non ho mai accettato l’idea che da quell’istante in poi non fosse più possibile fare poesia. Dopo ogni aberrazione storica al contrario è necessario ri-fare arte, ri-fondare la civiltà.
In ognuno di noi si consumano quasi ogni istante possibili aberrazioni. C’è qualcosa che impedisce che la struttura crolli. Un’inquietante immersione per scandagliare gli averni che custodiamo. La poesia traccia il filo di una resistenza nell’averno interiore.
Ma io non la ascolto, mi incanta il movimento delle labbra, due lamine di carne che scivolano una sull’altra. Appoggio la schiena all’incavo del sofà lasciandomi andare ad un brivido di terrore. Non ho direzione, non ho speranze. Al quarto piano di questa caffetteria la città in basso sprofonda opaca, non bisogna perdere la speranza nella bellezza. Ma la speranza non basta.
Resistenza. L’immagine scaturisce immediata. E non tanto nel suo significato più accessibile, nella definizione di un ruolo sovra-sensibile dal momento che lo scrittore è colui che eredita una lingua e la preserva; si fa perno di una tradizione e la innesta attraverso le sue sperimentazioni e le sue gioie e i suoi soprassalti fallimentari nel futuro. O perché, banalmente, gli si chiede un impegno quando l’impegno è sempre vigile, nello stile, sennò non è impegno. È fuffa.
Mi piace invero l’idea del filo elettrico – leggi resistenza – che per portare all’esterno luce e calore, deve farsi attraversare da questi. L’elettricità passa nel filo che resistendo si illumina, e scalda. Contatto.
Per vincere l’esilio – le sue intimidazioni, non certo la sua bellezza elegante che al contrario mi disseta sempre; è piacevole non sentirsi contestualizzati – rifaccio la strada al contrario, scendo verso le origini, il mito flegreo mi deflagra in mente, io sono esattamente nei luoghi in cui avrei voluto e dovuto essere. Devo imparare a toccarli. È una stagione di letture marine – Derek Walcott, Wallace Stevens, LeRoi Jones, D’Annunzio…
Mi giro di nuovo verso la troupe, ritorno a fuoco, nell’inquadratura. Mi dicono di bere il caffé e io bevo il caffé. Poi mi dicono di sorridere e io sorrido. Poi mi dicono… smetto – è qualcosa che si è inceppato molto tempo fa e allora la rivolta più elementare coniugava il corpo con la mente, lo scatto delle braccia nell’acqua con l’elastica torsione dei significati su se stessi, parole da avvolgere, strizzare, (come quei vestiti lavati a mano ed asciugati avvitandoli su se stessi). Ricominciavo da quella cosa lì – tutto assai semplice pensavo. Prendere una parola e avvolgerla sull’asse del proprio significato – suono puro, evasione dalla realtà. Volevo stare dall’altra parte. Nei grandi monitor al plasma incastonati nel muro guardiamo la scena di un film – un film di Bellocchio, Buongiorno notte e la ragazza sul letto mentre esplode shine on dei Pink Floyd. Cromaticamente Derek Walcott a 24 anni, in una primavera di gelsi siciliani, sotto l’ombra conica dello Spasimo di Palermo. Nel caldo delle pagine tra le dita e Derek cantava con voce creola “no, c’è strazio, ci sarà sempre, ma non fino a impazzire”. Non so decidermi se vale la pena costruire o celebrare la deriva, innamorarsi dello sforzo o proseguire l’abbandono ipnotico ai frammenti. Che cosa è per te… voglio dire perché scrivi poesia? Anche poesia? Il regista è in ansia, l’operatore va in dolly e ci sorvola, ho imparato tutta la stagione all’inferno a 17 anni, nelle ore di lezione, per immediata collusione psichica al giovane francese, ma in realtà mi stordiva di più Mallarmé che non capivo. Poiché aveva ragione egli, il nostro esilio è infinito, e non si interrompe. Esilio da cosa mi chiedi. Esilio dall’esultanza, e anche dall’esilio. Dall’altro che mi incalza – hai attimi che si disfano, che si sbriciolano.
Sono alla terza versione di questo scritto. Una prima versione l’ho buttata, un’altra che mi sembrava davvero buona l’ho persa. Sono le 10:47 di mercoledì mattina, 9 aprile. Leggo un’intervista alla Szymborska che azzera tutto: le chiedono quale ruolo può avere la poesia in un contesto di rafforzamento delle mitografie novecentesche come Patria, Dio, Progresso etc. Risponde semplicemente: “molto piccolo, quasi nullo. Ma bisogna credere in ciò che si fa.”
condivido tutto quanto è scritto!
il contatto nel sentire, anche stando fuori, lontano, in esilio…
Mi rallegro leggere il seguito di Variazioni Meridiano.
La vista dello scrittore come un soldato steso sul dorso del mondo è di una bellezza che impregna la mente. Il contatto con l’onda di vita scorre nelle pagina, si ascolta il rumore della terra, le lontane vibrazioni del mondo, le voci, e tutta l’onda entra negli occhi dell’uomo, steso come un soldato ferito.
-In esilio-, sei sempre in esilio, come separato della festa del mondo o dell’orrore del mondo, allontanato in un regno di linguaggio.
Grazie a Andrea Raos e a Luigi Pingitore per il piacere di leggere.
Chapucer, buona mattina a te. Sei ben mattiniera.
bellissima la scheggia impazzita, narrativa, all’interno della riflessione sulla poesia. E questa frase: La realtà, da sola, non basta. È una speranza inaccessibile.
Nichilista e suadente, non sono d’accordo ma sono d’accordo sul piano della suggestione
[…] Posted by mg on April 25, 2008 Su Nazione indiana: l’ottavo intervento della sequenza delle Variazioni Meridiano: testo di Luigi Pingitore […]
Ci sarebbero un sacco di commenti da fare. Il testo mette in luce tante verità. Quella che più mi è congeniale è la contraddizione della creatività, diciamo anche quella poetica: la raltà non basta, la visione ingabbia. Ergo, l’esilio. Allora il fatto che io sostengo, cioè che non esiste speranza se non come illusione necessaria per chi la vuole, e il fatto che io sia contraddetta o mal interpretata, non trova invece, qui, la sua teorizzazione? La poesia non può essere, per questo, consolatoria, perchè non c’è consolazione, né nella gabbia, né nell’esilio. Potremmo discutere sull’esilio, certo, ma se non è volontario…