Il vivo corpo del male di Percival Everett
di Marco Rovelli
Poi sono risalito a Glifo, e mi sono fatto grandi risate, tra continue stupefazioni per la genialità della scrittura (un bambino che nasce imparato, che ha il linguaggio già compiuto prima di ogni apprendimento – e su questa idea di base Everett, professore di letteratura e allevatore di cavalli, fa sbizzarrire la sua stessa lingua e immaginativa, tra i servizi segreti che rapiscono il bambino e i dialoghi tra Wittgenstein e Nietzsche, tra Roland Barthes e Dio). Ma ho conosciuto Percival Everett con La cura dell’acqua. Un grandissimo libro sul Male. Il Male, il Dolore, la Morte. Una storia disseminata, in cui però non esistono frammenti, ché ogni parte è, immediatamente, il tutto. Ishmael Kidder, scrittore di romanzi rosa sotto eteronimo, a cui rapiscono violentano e uccidono la figlia di undici anni. Lui cattura il presunto assassino e lo tortura. Cerca quel punto dove il Male è al suo culmine – il crimine della vita – lo cerca in sé, avendo presenti i crimini di guerra commessi dal suo paese in giro per il mondo. Fa al violentatore quello che i suoi compatrioti goodfellas in missione di pace fanno nelle segrete irachene, o in altre dove sono stati trasportate vittime di kidnappings. La cura dell’acqua (lo waterboarding) è una tortura praticata normalmente, laggiù.
Fa di tutto per distrarsi e distrarci, Kidder/Everett – e infatti il libro è saltellante, perfino lieve, non conosce cupezza. Ma poi torna sempre al punto. Anzi, è il punto che torna sempre. Il punto cieco del dolore (“Ahi è forse l’unica proposizione compiuta”), quel dolore che ti invade il corpo e occupa lo spazio fisico che tu stai occupando e ne prende possesso, quel dolore che è e non è te. Il dolore, il Male – minano ogni logica, sfondando il principio di identità. E’ questo punto cieco ad attraversare tutto il libro, a farne senso. E ogni riflessione filosofica e linguistica – il libro è pieno di riflessioni filosofiche (viene attraversata e sminuzzata tutta la filosofia greca) e linguistiche, di grande finezza ed acume – che dovrebbero stabilizzare, fondare la vita sul lògos – ogni riflessione, semplicemente, sprofonda in quel fatto incontrovertibile che è il dolore, il Male. (E allora l’enunciazione fondamentale della riflessione dovrà essere: “cogito, ergo doleo”). L’esistenza non è un predicato, Everett ricorda l’argomento kantiano. L’esistenza sussiste, è incontrovertibile, prima di qualsiasi attribuzione di significato, e ogni sua disperata ricerca. Quale allora il significato della cura dell’acqua? Nessuno. Non c’è. C’è solo il fatto dell’acqua. (“L’acqua non si rinnova mai. Il linguaggio è un universo immorale”). Eppure quell’acqua è la cura del dolore, proprio nella misura in cui da quel dolore sgorga: è prodotta dalla ferita di un corpo mutilato e disidentificato. Mutilato come il linguaggio, nella sua scissione costitutiva tra significante e significato (“Io voglio sapere perché qualcosa significa qualcosa”). E allora i continui ritornelli di sgrammaticature, nonsense, limerick – dove Dio, per richiamare Nietzsche, è questione di grammatica (e qui, un pensiero al traduttore, Marco Rossari, che deve aver faticato non poco per restituire come ha fatto quei passaggi con così pochi appigli, in verticale, 7b+).
La cantina buia di Kidder, dove è nascosto il rapitore della figlia, è dunque insieme la verità di un’America genocida e la verità di un Male irriflesso e inarticolato – e in quell’estrazione di dolore il Male praticato viene finalmente articolato, nella sola proposizione compiuta. Ahi.
Glifo, Nutrimenti, 2007, 15 euri.
La cura dell’acqua, Nutrimenti, 2008, 15 euri.
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Questa roba non la darei da mangiare neanche al mio cane.
infatti si beve
Si Carla, sottoscrivo. Un saluto Marco.
sembra un autore davvero interessante!
Concordo Nadia, bella recensione!