La rosa nera delle avanguardie

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di Marco Simonelli

La chiamano La rosa nera delle avanguardie. Da 25 anni Diamanda Galás presta la sua ragguardevole estensione vocale per incanalare in un flusso sonoro (spesso agghiacciante, spesso insostenebile persino per l’ascoltatore più estremo) un lamento funebre straziante che pare prodursi nelle viscere di un inferno dantesco.

E se scorressimo superficialmente la sua discografia la potremmo addirittura scambiare per una satanista, dal momento che la sua prima incisione discografica si intitolava The Litanies of Satan, una rilettura per voce ed elettronica del poemetto baudeleriano. Il disco fece girare la testa a più di un critico, fiorirono leggende metropolitane sulla sua realizzazione (si vocifera di notti insonni trascorse in una cantina londinese ed ampio consumo di stupefacenti). Ma a ben guardare, il lavoro di Galás non punta all’adorazione di Satana bensì alla rappresentazione del male satanico che esseri umani infliggono ad altri esseri umani. Niente di luciferino, dunque, piuttosto uno sguardo atterrito sulle catastrofi in corso sulla parte superiore della Terra. Nutrita di imprescindibili fonti letterarie, Diamanda Galás passa gli anni ’80 a comporre e interpretare il suo lavoro più estremo, quel The Masque of Red Death, (La mascherata della morte rossa, titolo ripreso dall’omonico racconto di Poe) che la imporrà alla critica musicale come la Callas avant-garde di fine millennio. Una trilogia che successivamente verrà dedicata alla morte del fratello, apprezzato drammaturgo stroncato dal morbo che l’America bigotta e sessuofoba di allora definiva “la punizione divina per la sodomia”. Galás compose una partitura per urla e riverberi elettronici, usò la duttilità espressiva della voce per interpretare il dolore ed il martirio corporeo e psicologico di chi ormai non poteva più esprimersi. Baudelaire, Corbière, anonimi medioevali, salmi e mantra continuamente spezzati, frammentati, interrotti, solenni quanto cacofonici sotto l’occhio implacabile di un Dio vendicativo da Antico Testamento la cui collera si abbatte sui corpi umani, piagandoli e piegandoli. Seguono altri lavori, performance vocali realizzate con amplificazioni elettroniche attentamente calibrate: Vena Cava (otto tracce senza titolo che costituiscono un poema sullo stato di demenza che i malati terminali di AIDS sperimentano prima di morire, un lavoro che sul piano testuale potrebbe essere paragonato a Psicosi delle 4.48 di Sarah Kane, sviluppato su più piani narrativi continuamente allucinati e privi di apparente logica) e Schrei 27 (concerto per urla gutturali elettrificate che, nelle intenzioni della compositrice vorrebbero mimare la catastrofe psicologica del prigioniero sottoposto alla tortura dell’isolamento). Dal 1992 in poi, con l’uscita di The Singer, Galás si impegna nella compilazione di un repertorio classico che, avvalendosi di standard tunes che spaziano dal blues, al jazz e al country possa essere portato in giro per il mondo. Non si tratta però di una “svolta commerciale”, piuttosto di una risemantizzazione radicale del concetto di interprete: accompagnandosi ad un pianismo di note allungate o spasticamente contratte che spezzano la melodia in segmenti sonori monolitici e tramite un cantato che alterna un registro soprano drammatico a vocalizzi gracchianti, Galás prosegue il suo progetto di pianto lirico col piglio di una prefica civile i cui lamenti guidano i funerali dei diseredati. Se scegliere è un modo per definire la propria visione del mondo, il repertorio di Galás si distingue per l’impegno sociale: in Malediction & Prayers (1998) canta Iron Lady di Phil Ochs, metafora della sedia elettrica, 25 minutes to go di Silverstein, un countdown che descrive gli ultimi minuti di vita di un condannato a morte in una prigione americana, una rilettura in lingua originale di Supplica a mia madre di Pasolini e ancora Abel et Cain dell’amato Baudelaire, una cover di Gloomy Sunday, motivo composto all’inizio del secolo scorso a cui una leggenda urbana attribuisce la nefasta fama di canzone capace di risvegliare istinti suicidi nell’ascoltatore. Il suo ultimo disco Guilty! Guilty! Guilty! , uscito a fine marzo, è una raccolta di sette brani che continua la strada delle interpretazioni viscerali. Galás sorprende ancora per la coerenza e la scelta eterogenea: canzoni d’amore “omicida” (definizione d’autore) che nella sua rendition tendono a sottolineare più il Thanatos che l’Eros. Long Black Veil, resa famosa da Johnny Cash, è una murder ballad in cui un innocente giustiziato per omicidio incontra una dama velata che potrebbe essere la donna che volle proteggere in vita quanto un fantasma di rimpianto; Interlude (già riproposta in duetto da due artisti britannici come Siouxsie Sioux e Morrissey negli anni ’90) potrebbe essere una storia d’amore sbocciata post-mortem. Stavolta le fonti letterarie (sempre presenti nel lavoro di Galás) si spostano nell’ambito della canzone d’autore con Autumn Leaves (il madrigale Le Foglie Morte di Prevert), sorretta da pianismi dodecafonici e canto sospirato, mantiene la melodia originale inframezzandola ad acuti spasmodici. Ma è forse la più improbabile delle scelte a rivelare le vere intenzioni del disco:Heaven Have Mercy, la Miséricorde di Edith Piaf, dove una donna ripercorre quello che si rivelerà l’ultimo incontro con l’amante partito al fronte, riporta all’attenzione il dramma storico, la prospettiva di chi, impotente, si ritrova privato degli affetti a causa di un conflitto bellico. E una sirena d’allarme attraversa il brano come a sottolineare che il pericolo è sempre in agguato.

20 COMMENTS

  1. Ho avuto l’occasione di conoscere questa grande artista ascoltando uno Storiyville su Radiotre dedicato a lei, è stata una grande scoperta; ho ascoltato il racconto della sua vita intramezzato ad ascolti della sua opera. Mi ha colpito la sua personalità così forte, il suo non omologarsi mai a nulla e il non piegarsi a nessuno, soltanto al suo talento musicale. Straordinario talento musicale sconosciuto ai molti purtroppo.

  2. @nadia: è vero, voce graffiante ma nelle interviste si rivela dolcissima e molto alla mano!

    @veltins: ah, non sapevo si fosero interessati a lei a storyville. Se lo merita, è una grandissima artista dell’espressività. Consiglio vivamente il suo ultimo disco!

    @Luigi: la Galas è un incrocio fra la Callas e l’Idra!!! :-)

  3. No, non UNA voce, ma tante, incredibili voci insieme. Che donna, Diamanda… Nel 2004 l’ho vista in concerto a teatro e posso dire di non aver mai (più) vissuto un’esperienza del genere. La Galas è uno sciamano!

  4. Leggo: “Apprezzato drammaturgo stroncato dal morbo che l’America bigotta e sessuofoba di allora definiva ‘la punizione divina per la sodomia’ “.

    Se questo Marco Simonelli fosse un uomo coraggioso, avrebbe chiamato quella malattia con il suo nome: aids. Invece non è un uomo coraggioso, però vorrebbe esserlo, e allora non chiama la malattia con il suo nome, bensì crea un nuovo tipo di eufemismo: la citazione dell’eufemismo altrui. E gli pare di aver fatto chissà che, magari si sente molto politicamente corretto, o gli pare di avere assestato un buon colpo al conformismo americano.

    Chiamate le cose con i loro nomi, giovanotti. Se non lo fate, siete servi sciocchi.

  5. Caro Marco,
    ringrazio davvero Radiotre che con il suo Storyville che ogni volta mi da la possibilità di apprezzare molti artisti che altrimenti non avrei mai potuto conoscere perchè fuori dai più comuni circuiti. Comunque il tuo articolo mi sembra buono, e sinceramente la polemica di valentina mi sembra un po’ cercare il pelo nell’uovo. L’importante è far giungere i messaggi.

  6. Valentina, se leggi poco più avanti ti accorgi che invece la chiama proprio col suo nome, e che qui forse la perifrasi non è fatta per rispetto del politicamente corretto (per non dire la parola AIDS, come certe vecchie signore che dicono “quel male” invece di dire cancro), e non è nemmeno un eufemismo (visto che non attenua affatto il nome proprio della malattia, anzi lo carica ideologicamente), ma per dire un’altra cosa, appunto di come fosse bigotta e sessuofoba una tal definizione.
    A me è sembrato così, almeno, e l’articolo mi è piaciuto molto. Come dice Nadia sopra, che tigre.
    R

  7. [in certi particolari casi consiglierei assolutamente l’uso di eufemismi – anche il silenzio e il foglio bianco]

    Sono incappata felicemente in Diamanda Galàs per un futuro prossimamente su questi schermi VivaVoce su Celan e la sua versione di

    Todesfuge

    che anticipo volentieri per ringraziare Marco e Francesca, è da brividi lungo la schiena con quella cascata argentina cubetti di ghiaccio dei tasti destri alti e l’alternare il suo soffiare le parole allo sputarle acide, bile, giallo stella di david cucita addosso, la loro progressione su di un fiato solo e il ritmo dei bassi sinistri da passo dell’oca sotto che la martella e l’ultimo verso che si spegne nel pianissmo.

    ,\\’

  8. @Valentina: se noti, nell’articolo, parlando di Vena Cava, uso la parola AIDS. Riferito al paragrafo precedente: credo che più che di coraggio o paura si debba tirare in ballo la sintassi. Essendo articolo divulgativo, dovevo condensare in una frase vari concetti ed evitare ripetizioni. Comunque io preferisco essere “codesto Marco Simonelli” piuttosto che “questo Marco Simonelli”, mi suona meno aggressivo.

    @veltins: che tu sappia, quella puntata di storyville è disponibile in podcast su radiorai? Ti ricordi chi ne parlava?

    @renata: mi sembrava giusto in quel paragrafo usare il termine sodomia. Quello sì, ci tenevo. C’è un brano della Galas che si intitola Give Me sodomy or give me death. contenuto nel live Plague Mass: parla del malato terminale di AIDS che così risponde al prete al suo capezzale giunto per confessarlo.

    @orsola: grazie.

  9. 3 citazioni che mi sono portata dall’incontro con la Galàs a Mantova lo scorso anno:

    1. “io uso la voce per ispirare imiei amici e torturare i miei nemici”

    2. “faccio con la voce quello che Hendrix faceva con la chitarra”

    3. “il mio essere greca misalva dalle immondizie americane”

    Bell’articolo. Saluti a tutti.

  10. @Monia – son tutte e tre molto pertinenti ma quella di hendrix la trovo adattissima per descriverla a chi non l’ha mai sentita!

    @Francy – il calamaro aspetta attè

  11. @valentina. Personalmente non amo molto il Simonelli (ma questa è una storia lunga e personale), ammetto però che l’articolo è molto sentito e sicuramente ben scritto. L’eufemismo è un mezzo retorico e quando è usato con ironia o sarcasmo invia più del suo significato letterale, in questo modo lo usa il Simonelli. Fra le altre cose, mi pare impossibile che qualcuno ometta la parola Aids di proposito, soprattutto su NI.
    (A parte, se tutti chiamassero le cose con i loro nomi ci perderemmo qualcosa… tipo la metafora. Viva il rock e viva la poesia!)
    Saluti cordiali.

  12. Ebbene sì, Marco Simonelli non è un uomo, ma un calamaro gigante che adora indossare borsello nero e pantaloni arancioni, però. Appena uscito da Men in Black 3.

    Dopo questo annuncio shock aggiungo: Vena Cava è sconvolgente. Un album che sono riuscita ad ascoltare sì e no cinque volte finendone sempre devastata. Di Malediction and Prayer ho invece un bellissimo ricordo, legato alla Supplica di Pasolini, ascoltata ormai ere geologiche fa proprio a casa Simonelli in “liturgico” silenzio. E quindi: grazie Marco e grazie ai commentatori!!
    @Faviv e Simo fate pace!

  13. @ Faviv – premesso che, come ripetono mia madre e il mio compagno, chi non mi ama fa bene, ho il sospetto che tu a distanza di anni abbia confuso me col tizio che quella sera mi stava accanto (era un mio ex ex ex risalente all’estate del 99): io ero quello coi capelli, lui quello senza. Lui quello che ti attaccò da un punto di vista ideologico, io quello che con te voleva provarci (ma avevi la maschera e non fu possibile). Rimediamo?

    @Fra – sei come un unicorno che straccia il ventre di una vergine

  14. Marco Simonelli è un calamaro gigante, bellissima definizione. Io mi sbatto da una vita per essere alneno calamaro media grandezza. D’altronde ognuno a ciò che si merita.

    @Valentì? me sa che non si capito còsa!

  15. ovviamente alla “a” manca la famosa “acca” dimentica della tastiera. Potere della fretta.

  16. @Marco. Completamente sotterrata l’ascia di guerra (dopo 5 anni mi pare il minimo, son mica Bette Davis, cioè, magari lo fossi…).
    Se un giorno la Matteoni venisse a Firenze si potrebbe anche bere qualcosa insieme (premesso che la succitata va solo ad acqua e succo d’arancia).
    Rimediamo?
    Rimediamo.

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francesca matteonihttp://orso-polare.blogspot.com
Curo laboratori di poesia e fiabe per varie fasce d’età, insegno storia delle religioni e della magia presso alcune università americane di Firenze, conduco laboratori intuitivi sui tarocchi. Ho pubblicato questi libri di poesia: Artico (Crocetti 2005), Higgiugiuk la lappone nel X Quaderno Italiano di Poesia (Marcos y Marcos 2010), Tam Lin e altre poesie (Transeuropa 2010), Appunti dal parco (Vydia, 2012); Nel sonno. Una caduta, un processo, un viaggio per mare (Zona, 2014); Acquabuia (Aragno 2014). Dal sito Fiabe sono nati questi due progetti da me curati: Di là dal bosco (Le voci della luna, 2012) e ‘Sorgenti che sanno’. Acque, specchi, incantesimi (La Biblioteca dei Libri Perduti, 2016), libri ispirati al fiabesco con contributi di vari autori. Sono presente nell’antologia di poesia-terapia: Scacciapensieri (Millegru, 2015) e in Ninniamo ((Millegru 2017). Ho all’attivo pubblicazioni accademiche tra cui il libro Il famiglio della strega. Sangue e stregoneria nell’Inghilterra moderna (Aras 2014). Tutti gli altri (Tunué 2014) è il mio primo romanzo. Insieme ad Azzurra D’Agostino ho curato l’antologia Un ponte gettato sul mare. Un’esperienza di poesia nei centri psichiatrici, nata da un lavoro svolto nell’oristanese fra il dicembre 2015 e il settembre 2016. Abito in un borgo delle colline pistoiesi.