La tirannia del bello

di Gianni Biondillo

Sembra quasi che sessant’anni siano passati invano. L’urlo di dolore di Bruno Zevi, che nel 1948 – ben prima che venissero costruite le tanto vituperate periferie – si lamentava di quanto poco sapesse d’architettura l’italiano medio, e di media cultura, pare echeggi ancora fra di noi. Non sappiamo nulla dei maestri che l’hanno sognata la città del Novecento, ma ci sentiamo in diritto di criticarli come fossero dei principianti allo sbaraglio. In altre discipline non è così: chi si sognerebbe di dire che le poesie di Zanzotto sono parole al vento, o che Berio non faceva musica ma rumore? Eppure questo è il livello della relazione al Congresso internazionale degli architetti del nostro Ministro della Cultura.
Non è sua prerogativa, ben inteso: tutti i politici nazionali, di destra o di sinistra che siano, quando parlano delle nostre città inanellano una tale serie di banali luoghi comuni da far rabbrividire. È che di architettura in Italia tutti ne parlano, così come di calcio, senza averne competenza alcuna. Forse è un bene. Forse significa che l’argomento è cocente, ma occorre superare la fase dilettantesca dei discorsi da bar.
La città contemporanea è stata in gran parte costruita da figure professionali differenti da quella dell’architetto. E le amate villette, che a dire del ministro “saranno banali, ma fanno vivere con dignità”, sono state le metastasi che si sono impossessate del corpo vivo del territorio deturpandolo definitivamente. Un modello insediativo identico dalle Alpi alla Sicilia, che s’è spalmato, spesso abusivamente, sui nostri fiumi, monti, laghi, coste, colline, pianure, e che ha moltiplicato il traffico privato, inquinato l’ambiente, annichilito la socialità dei centri urbani, creato i presupposti di una idea dell’abitare come fortilizio chiuso e avverso alla società. Come posso accettare critiche “estetiche” da chi, in quelle orribili abitazioni, appende sui muri i ritratti di pagliacci piangenti, beandosene?
Sono stufo della tirannia del bello. Non accetto il luogocomunismo dei politici nostrani. Non ci si può nascondere dietro le istanze estetiche, e soprattutto non lo può fare un ministro della Repubblica. Il bello di Stato mi inquieta, mi spaventa. Chi decide cosa è bello e cosa no? Il Novecento criticato da tutti ha saputo lasciarci, in realtà, esperienza d’architettura uniche che dovremmo curare come gioielli di famiglia. Ci sono, fra le (non da me) odiate periferie, esempi di tale coerenza e qualità che abbacinano, e che vengono studiati nei corsi universitari di mezzo mondo. Ma questo la politica del sentito dire non lo sa. Resta legata al banalismo del “centro storico” come spazio di qualità. Gli stessi centri storici che neppure un secolo fa avremmo voluto abbattere, perché luoghi di fame, disperazione, malattie, disordini sociali, così come oggi molti propongono di fare con le nostre periferie.
Cos’è il bello, secondo Bondi? Le parole, per me scrittore, hanno un valore, svelano il peso specifico del pensiero che le formula. “Non dico che non esistano realizzazioni spettacolari anche nell’architettura moderna”, dice il ministro. Spettacolari. (rabbrividisco.) Mi torna alla mente il sindaco di Milano Moratti che di ritorno da New York ha dichiarato qualche giorno fa di aver visto il progetto di un grattacielo che ha i piani che ruotano su se stessi (roba da cartone animato giapponese). Un progetto spettacolare. Lo vuole come simbolo dell’Expo. Ecco. Questa trovata da giostra dei divertimenti, questa trasformazione dell’architettura in spettacolo, in circo mediatico, questa idea di Milano che fa l’occhiolino a Dubai, piuttosto che alla tradizione urbana millenaria europea (e lo si vede chiaramente nel terrificante progetto di CityLife), è il “bello” visto dalla politica.
Ma io dalla politica non voglio opinioni estetiche. Non pretendo che il ministro della sanità sappia operare a cuore aperto, ma che faccia in modo che gli ospedali funzionino. Non voglio che il ministro dell’istruzione tenga lezioni di trigonometria ma che nobiliti la mortificata categoria degli insegnanti. E così dell’universo estetico del ministro della cultura non me ne faccio nulla. Da lui pretendo – esigo – che restituisca centralità alla cultura nazionale, che la rimetta in moto, che ne stimoli i talenti. Che faccia politica, insomma, che sappia avere una visione lungimirante del suo ruolo. Oggi parlare di architettura significa rispondere a problemi seri, etici prima che estetici: sviluppare un progetto di mobilità pubblica degno di questo nome, ripulire dall’inquinamento le nostre città, creare nuove centralità nelle periferie storiche, riprendere a costruire edilizia sociale dopo un trentennio dove la politica se ne è lavata le mani, lasciando che il mercato si impossessasse del territorio…
Lasci stare le questioni di gusto, signor ministro: faccia il politico. Faccia quello che non si fa più da troppi decenni in questa nazione. Crederci.

[pubblicato in forma lievemente differente su La Stampa del 3.07.2008]

31 COMMENTS

  1. faccio fatica a capire il centro di questo post di Biondillo.
    in rete non riesco a trovare l’intervento di Bondi.
    sarebbe utile per sapere cos’ha detto.

  2. L’italiano medio e di media cultura continua a pensare che zanzotto balbetti e che berio gema, l’italiano di media cultura che ha deciso di essere colto si è adeguato alla minidoxa e dice ah berio! ah zanzotto! senza ascoltarli né leggerli.

    A parte questa mia cattiveria, ché ho voluto spezzare l’illusione di Biondillo, anch’io non capisco bene.

  3. niente da eccepire su quanto detto. Il problema di questo paese è che solo i politici e gl’imbonitori televisivi hanno il potere di esprimersi sempre e ovunque, e perciò si arrogano il diritto di esprimersi su qualsiasi cosa. Tra la politica e la società civile c’è ormai un baratro, ed è proprio là dentro che il popolo sta sprofondando, un luogo buio da dove attende a bocca aperta questa pastura (come quella che si getta dalla barca per far venire i pesci) elargita dai nostri rappresentanti (nei quali non mi riconosco), misto di rimasugli prelevati dai luoghi comuni e dai cliché che stanno devastando un patrimonio ricco di secoli…

  4. Spettacolari. Le parole sembrano scelte a caso dalla mente ma la mente pesca da ciò che le viene inculcato. Questo uso della parola “spettacolo” ci rivela tanto della situazione italiana, per il suo essere totalmente schiacciata al “divertimento”, al “clamore”, all'”essere fashion”, all'”essere figa”.

    In questo “spazio dei divertimenti”, dove il premier organizza le leggi com e se stesse imbandendo una tavola per ospiti inattesi (ma il vino deve esser equello buono, perdio!) non c’è tempo per riflettere, pensare, pianificare.

  5. stando alla sintesi de La Stampa Bondi avrebbe detto:
    «Occorre recuperare la saggezza del progettare e del costruire, con il dovere di ricercare un necessario benessere e armonia tra gli uomini e tra l’uomo e l’ambiente». Lo ha detto il ministro dei Beni Culturali, Sandro Bondi, aprendo ieri a Torino il XXIII Congresso mondiale degli architetti. «Anche considerando solo il lato estetico -ha spiegato il ministro- ci rendiamo subito conto che i palazzi delle nostre città che hanno più di sessant’anni nell’insieme sonno gradevoli. Al contrario gli edifici con meno di 60 anni ci appaiono per lo più brutti, banali e insignificanti.

    Non dico ovviamente che non esistano realizzazioni spettacolari anche nell’architettura moderna. Il punto è che sono troppo rare i un mare di disperante squallore come le periferie delle nostre città». «Nel Dopoguerra in Italia -ha proseguito- si è costruito “molto e male” perchè è stata privilegiata l’esigenza di fare una casa a tutti in tempi brevi. Una volta superata l’emergenza di è però continuato a costruire seguendo questa filosofia. Così sono nate periferie mostruose: da quella di Roma a quella di Milano». Secondo il ministro Bondi «le città d’arte sono il frutto della libertà, mentre oggi paradossalmente piani regolatori, le leggi, hanno prodotto la bruttezza e lo squallore delle nostre città».
    in ogni parola di questa sintesi si annida un problema reale, talvolta drammatico, epocale.
    bondi ovviamente nemmeno se ne accorge.
    ma non è questo l’importante, non sono i ministri dei beni culturali a fare la cultura di un paese (questo peraltro Biondillo lo disce).
    bondi smarrona tremendamente quando dice che le “città d’arte sono il frutto della libertà” quando è vero esattamente il contrario: la bellezza della città italiana nasce sempre in regime autocratico, monarchico, papale, ducale, eccetera, mai “nella libertà”.
    non è la “libertà” che fa la bellezza.
    la democrazia produce disordine e bruttezza in misura enoermemente maggiore della città autocratica, persino della città fascista.
    fgino alla fine del fascismo, la città era considerata e considerabile come un manufatto.
    la democrazia l’ha resa quello che è oggi, un fenomeno difficile, forse impossibile da governare pienamente, di cui non si può determinare la forma, ma al massimo l’assetto.
    per non parlare della bellezza.
    questa è ormai affidata a singoli manufatti che puntano (qui Bondi invece ha ragione) ad essere “spettacolari” esattamente come voleva essere la Basilica di san pietro, il colonnato de bernini eccetera.
    l’architettura è sempre stato un potente mass medium.
    ma questa funzione rigurada l’unicum (anzi gli unica).
    il continuum è tutta un’altra storia, ma è lì che si gioca la vera partita.
    eccetera.

  6. Insomma la metterei così.
    Il problema della città democratica a partire dalla seconda metà del secolo scorso è nella sua incapacità di produrre bellezza nel continuum, cioè nel sistema dei manufatti, vale a dire nei tessuti.
    Molti urbanisti e molti architetti, da un lato sono restati ancorati ad un’idea di bellezza urbana producibile quasi solo in regime autocratico, dove i processi di pianificazione venivano gestiti da pochi, dove i tessuti erano ancora disegnati da qualcuno, invece che zonizzati, dall’altro e di conseguenza hanno scisso «l’urbanistico» dall’«urbano».
    Dove per «urbanistico» si intende appunto la disciplina degli assetti della città, mentre «l’urbano» afferisce più direttamente lo spazio pubblico e la sua vivibilità/abitabilità, che in questo caso può anche coincidere con l’estetica della città.
    Oggi si fanno norme per costruire la città, ma non si gestisce la prestazionalità – leggi abitabilità – dello spazio pubblico nella sua comune, quotidiana fenomenologia.
    Percepisco delle distorsioni disciplinari tremende, che hanno creato enormi vuoti di pensiero e azione sulla città, in un gioco micidiale di deleghe incrociate tra architetti e urbanisti, dove ciascuna categoria responsabilizza l’altra della città di merda che produciamo.
    Eccetera.

  7. il mediamente colto non ha mai sentito nominare nè berio nè zanzotto. il problema di molta arte contemporanea (anche architettonica) è stato più nell’utilizzo di materiali scadenti e induraturi che nella progettazione dell’opera finita. la democrazia genera bruttezza perchè non produce durata temporale e continuità nella gestione del potere, non per altro. bondi ha 49 anni. molta “architettura” degli ultimi decenni è stata architettata da geometri. l’antico ha sempre dignità estetica, il vecchio mai. come sarà bella questa bruttezza tra vent’anni. bisogna solo avere pazienza. molti architetti sono ignoranti come capre. questo intervento è confuso. quello di biondillo pure.

  8. Va fatta una distinzione tra architettura, cioè la scrittura, lo stile, e l’urbanistica, che è piena di contenuti: le nuove strade e superstrade, l’espansione delle zone artigianali e residenziali, la collocazione delle aree verdi ecc hanno bisogno di una scrittura? Ma lo stile non può rendere bello un contenuto brutto. E per contenuto intendo un fatto, una trasformazione del mondo, non la sua rappresentazione. Aree agricole periurbane, tesori delle città, vengono distrutte per fare spazio all’edificazione; superstrade tagliano in due territori di interesse naturale, li devastano; nessuna scrittura di qualità può nobilitare questi contenuti negativi. Nel 1990 fu varata una legge, la 142, che sanciva la nascita dell’Area Metropolitana, sorta di riunioni di comuni intorno alle città di “Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Bari, Napoli e gli altri comuni i cui insediamenti abbiano con essi rapporti di stretta integrazione in ordine alle attività economiche, ai servizi essenziali alla vita sociale, nonché alle relazioni culturali e alle caratteristiche territoriali.” (art. 17). Un’idea urbanistica interessante, perché avrebbe permesso di coordinare certe scelte (per esempio aree verdi contigue); non è mai stata applicata. Lo stile non può nobilitare questa rinuncia. Lo stile non può abbellire la dittatura del denaro, della speculazione, mentre il denaro e la speculazione influenzano pesantemente l’urbanistica. Finché impera questo modello di sviluppo produzione-consumo-speculazione, è poco significativo invocare un miglioramento dello stile, Bondi continuerà a scrivere le sue poesiuole e a fare relazioni e le città continueranno a esplodere e a degradarsi.

  9. L’intera vita delle società, in cui dominano le moderne condizioni di produzione, si annuncia
    come un immenso accumulo di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in
    una rappresentazione.
    Guy Debord – La società dello spettacolo

  10. Discussione interessante, specie i contributi professionali di G.B. e di Tashtego. Domando: come innestare cultura nella progettazione degli elementi cittadini senza che diventi “kultura”, anche a fini di integrazione etnica, tanto sentiti in questo periodo?

  11. Se sento parlare, male, delle realizzazioni dell’urbanistica dell’ultimo cinquantennio mi è facile trovare trovare, da me, degli esempi di questo scempio.
    Se ne sento parlare, bene, invece mi risulta difficile, se non impossibile.
    Non potrebbero, i professionisti, ogni tanto darci qualche dritta?
    Farci “vedere” il meglio, oltre che “capire” il peggio?

  12. Grazie!
    Non l’ho letto, ma lo leggerò.
    Recentemente, un amico architetto – della nuova facoltà di architettura di Aghero – mi ha parlato di Gianni Biondillo, ma non mi ha parlato di questo libro nel senso che mi viene proposto ora.
    Ho sempre avuto l’impressione che la pubblicistica urbanistica sia sempre alle prese con categorie ideologiche, che possono interessare soltanto gli addetti ai lavori.
    E che questa sia anche una delle cause della nostra ignoranza in merito.
    Mi auguro davvero che il libro di Gianni “mostri” e che dica l’essenziale.

  13. Ehi, eccomi appena tornato. Vedo che qui c’è da leggere.
    A Soldato blu: diciamo che io c’ho provato, quanto meno. Evitando il catastrofismo “facile” di testi “contro l’architettura”.

  14. L’ho letto il libro di Biondillo.
    L’ho ribattezzato, come faccio spesso: “Confesso che l’ho vissuta”.

    L’autore mantiene quello ha promesso. Un libro onesto, lieve, spesso piacevole. Anche se non sempre sono piacevoli le cose di cui parla. Anzi quasi mai.

    Molte cose le sapevo già, altre le ho apprese per la prima volta.

    Mi sarebbe piaciuto che avesse argomentato di più le sue preferenze stilistiche. Quanche lezione in più a noi principianti di “saper vedere l’architettura”.

    E’ invece sul “saper vedere l’urbanistica” – il mio quesito iniziale – che ritengo di non aver avuto una risposta esaustiva, anche se la risposta viene data : Robert Venturi: pag. 125. Risposta su cui l’autore sembra convenire, alla fine: pag. 205.

    In effetti, quando ho fatto il mio primo commento, ne ero già perfettamente convinto anch’io.
    Che certi fenomeni complessi, come le città, siano ingovernabili. Impossibile costringerli in un progetto. Come giustamente sottolinea Gianni.

    La conclusione, ovvia, è che non esiste una “scienza” urbanistica.
    Che per l’urbanistica è ancora peggio che per l’economia: una pletora di teorie più o meno dignitose, più o meno truffaldine, che non possono prevedere le conseguenze dei loro interventi.

    L’urbanistica [come l’economia] si trova al livello dell’architettura dei capimastro medievali e degli ingegneri e architetti rinascimentali: si tratta di “pratica”.
    Anche se si sono raggiunte vette, impensabili, come la Cupola del Brunelleschi o i capolavori dell’Alberti.

    D’altronde, una “scienza delle costruzioni in muratura” non sarebbe esistita nemmeno ai giorni nostri, se – un grande nel suo ambito disciplinare – non si fosse dato da fare negli ultimi anni per dargli un fondamento [Salvatore Di Pasquale].
    Forse in un estremo tentativo di arginare quel cemento che, al proprio interno armato, viene visto da molti e da me, povero citrullino, uccidere sempre più, con la bellezza, anche le nostre anime.
    E’ naturale che il citrullino esprimendo questa avversione, non alcuna possibilità di scegliere un’alternativa. Sa quanto ce ne siano di peggiori.

    Aspetta che la scelta la faccia chi è tenuto per mestiere a farla.
    E se mi viene detto che ciò che odio non ha alternative, mi iscrivo a un altro partito.

    Se l’urbanistica è mestiere, ciò che conta è il poterlo esercitare.
    Ma esercitare il mestiere di modificare la città è prima di tutto potere.
    E in urbanistica soltanto chi agisce autonomamente è pienamente urbanista.
    Gli altri, vedi P.R. o cose simili, sono poco più che “operatori ecologici”.

    In questo senso è giusto parlare di urbanistica mussoliniana.
    E, negli ultimi decenni, di urbanistica caltaginoresca.
    Perchè i politici, che dovrebbero detenerlo, il potere, hanno rinunciato ad esercitarlo in cambio di mazzette per sé e per i propri partiti e per gli stipendi delle loro burocrazie. A sinistra come a destra.

    Gli urbanisti, invece, perchè pensavano, e ancora pensano, che sia una questione di pensiero. E passano il loro tempo, pagati, a frequentare convegni in cui si parla di ciò di cui non si può parlare.

    Invece di costituirsi, loro, in partito, in lobby, in massoneria [!], per strappare quel potere autoritario con cui, solamente, si può intervenire coerentemente sul tessuto urbano.
    Per poi stare a vedere cosa succede.

  15. Si, scusa Tash, la non chiarezza è frutto di un dubbio: li chiamano ancora così oppure P.U. ? Questi ultimi sono la stessa cosa o sono cose diverse?
    Naturalmente intendevo: chi stila tali piani.
    Che in effetti più che piani sembrano appianamenti impossibili di liti tra portatori di interessi divergenti.
    Questa funzione di mediazione è infatti quella che produce mostruosità,
    e immancabilmente, al momento della realizzazione, con le varianti.
    Distruggendo anche quel poco di buono che l’operatore aveva fatto: per nascondere la vera natura dell’operazione, speculativa sempre, sotto la foglia di fico del “progetto”.

  16. Ho potuto leggere solo adesso lo scritto di Gianni e non posso far altro che convenire con le sue osservazioni. Aggiungo una postilla. Gli architetti devono fare gli architetti i politici i poiltici. Sempre più spesso c’è l’improvvisazione del politico che con gusto estemporaneo disserta sul bello e dall’altro lato abbiamo sempre più architetti che si sostituiscono (o si trovano de facto a sostituire) i politici nelle scelte di fondo sulla città che dovrebbbero essere esclusivamente terreno della politica (intesa nell’accezione alta). Il dilettantismo nel campo dell’architettura è il male peggiore…

  17. Un commento/provocazione: non è che l’antico ci piace perchè gran parte delle cose brutte che hanno costruito nel passato sono già state demolite???

  18. pedro, l’antico ti piasce perchè ti consola dal fatto che non capisci il moderno.
    ci piasce perché quello che esiste già ha sempre la meglio su quello che potrebbe esistere.
    un sacco di antico di merda esiste ancora, nessuno l’ha demolito, e però ci piasce lo stesso perché già occupa uno spazio, risolve un problema, o meglio, lo tiene a bada.
    è questo non buttare mai via niente, quasta incapacità di eliminare gli errori, di ricominciare da capo nella contemporaneità, che costituisce una delle più tremende malattie del Paese.
    il liceale medio italiano, quando diventa adulto, mette in pratica quello che gli ha insegnato la serie di pressoresse che part time (l’altra metà del tempo erano a casa a fare la calza) si sono occupate della sua formazione, dunque diffida del moderno, del cambiamento, del contemporaneo, non lo capisce, gli pare brutto, non gli sembra “arte”…
    oppure, futuristicamente, ridicolmente, se ne esalta…

  19. Non perdiamo di vista il valore lenitivo, consolatorio, del sempre dato, dell’eterno ritorno, del passato come ordine a noi precedente. Il nuovo è frattura, disordine, caos, critica dello status quo.
    Detto ciò io mai e poi mai farei il peana dei demolitori futuristi, e l’esaltazione acritica del contemporaneo come valore in sé.
    Ecco: non credo che il passato e il futuro siano, in sé, valori. Sono solo condizioni cronologiche.

  20. ok, biondillo.
    la città, in quanto di tutti, non può che essere retorica, cioè elaborazione del conosciuto.
    in questo risiede una delle tristezze strutturali dell’urbanistica come disciplina.
    cioè la condanna alla non-invenzione.
    tuttavia ciò che non è invenzione non è pensiero.
    il pensiero è sempre uno strattone, una cosa estremista.
    da parte mia, mi accontenterei anche solo di un po’ di manutenzione dello spazio pubblico: tuttavia le rare volte che mi imbatto nell’invenzione urbana nel contemporaneo, godo.
    se no si finisce per piazzarsi nella posizione del Riegl: “l’uomo moderno si rallegra della percezione del divenire e del trascorrere”.
    eccetera.
    frase vera e perfetta.
    e anche molto utile.
    ma solo per capire.
    l’invenzione è altra cosa.

    bast.
    scus.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Nel 2011 il romanzo noir I materiali del killer ha vinto il Premio Scerbanenco. Nel 2018 il romanzo storico Come sugli alberi le foglie ha vinto il Premio Bergamo. Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.