Genealogia del male – 1

Bambini

di
Matteo De Simone

“Quanti anni hai?”
Lei fa quattro con le dita.
“Sei piccola”.
Il bambino la prende per mano, attraversano il corridoio della casa vuota. Fuori arrivano i colpi dei sassi contro il muro dei grilli, ma i colpi si attutiscono mentre i due affondano nella semioscurità del corridoio, fino al bagno. Hanno corso molto. In montagna d’estate certi giorni può fare caldo.
Chiude la porta a chiave. Solo lui e lei, nel bagno. L’appartamento si interra proprio in quel punto. Dalla finestra entra poca luce. Sa che mamma è uscita a fare la spesa e non ci metterà meno di mezzora. I fratellini sono fuori. Continuano coi grilli contro il muro. Gli altri li stanno ancora cercando, ma non entreranno mai dentro una casa che non è loro. Si stuferanno. Torneranno indietro a far vedere ai pidocchi dell’asilo là fuori cosa vuol dire ammazzare una grande quantità di grilli. O sezionare i ragni.
Eccoli, solo lui e lei.

Lui la guarda negli occhi, senza ombra di bontà. Si siede sulla vasca.
La bambina è ancora sporca di terra. Ha un muso di cucciolo. Non sa come muoversi. Non capisce questo bagno al semibuio, i colpi soffocati lontano dei sassi sul muro, il ronzio della lavatrice che va, si ferma, poi va. Guarda il bambino più grande di lei seduto controluce. Prova a sorridere. Non trova risposta su di lui. Stropiccia le mani contro la maglietta.
“Qui non ci trovano, tranquilla, siamo nascosti bene”, dice lui. Senza tono dolce, né ambiguo.
La bambina abbassa gli occhi.
Per terra c’è il pavimento bianco con le piastrelle come quello del bagno di casa sua in città. Controlla che non ci siano ragni negli angoli. La montagna è piena di ragni. Pensa senza sapere di pensare. Si è già accorta di come i bagni si assomiglino tutti. Quello di casa, quello della nonna, quello del suo migliore amico di asilo. L’ha notato. Quando sono in città, la mamma la porta spesso a casa del suo migliore amico, dove lei può giocare. Anche lei e il suo amico giocano a nascondersi. A lei piacciono i posti piccoli appartati. Nel bagno del suo amico c’è il cesto dei panni sporchi. Ma ora in montagna il suo amico non c’è. In questo bagno la bambina non vede niente di appartato. Anzi, sente qualcosa di sbagliato nel silenzio. Nella luce, nel ronzio atonale della lavatrice. Qualcosa che non è sereno. Non è sicuro.
“Ma tu quanti anni hai?”, si azzarda a dire senza alzare gli occhi da terra. Si vergogna, dondola il corpo sull’asse.
Il bambino la guarda e pensa.
E’ piccola davvero. E’ chiaro che ha paura. Osserva il labbro che trema. Le strisce di terra sulle guance, di poco fa, quando è caduta correndo e lui l’ha aiutata a sollevarsi e correre ancora, tenendola per mano, fino a rintanarsi in casa. A guardarla gli nasce una stretta invisibile alla pancia.
“Dieci. Sono molto più grande di te”. Risponde calmo.
Lei si dondola. Sta lì.
Mentre lo diceva, Sono molto più grande di te, la stretta saliva. Nei polmoni, verso la testa. E’ una fitta che lui conosce.
Il bambino si guarda nello specchio sopra il lavandino davanti a lui, mentre la piccola rimane in mezzo alla stanza, inciampa su se stessa, a testa bassa.
Ha la faccia dura. Stringe i denti. I suoi occhi sono immobili.
“Ma a te che ti frega quanti anni ho”.
Scende dalla vasca e fa due passi verso di lei. Il ronzio della lavatrice è sempre uguale, giro e pausa. La bambina rimane sorpresa ma ferma. Non ha il coraggio di cambiare posizione.
Il bambino respira veloce. Rumorosamente. Prende le mani della piccola e comincia a stringerle, prima piano, senza toglierle gli occhi di dosso. Sa come si fa. Suo padre a lui le stringe fino quasi a stritolarle, gli conta gli ossicini uno a uno. E’ dolore e piacere insieme. Suo padre sa rompere le noci tra le dita. Anche lui è forte. Può fare male. Stringe le mani della bambina finchè lei riceve col dolore la violenza del gesto e scoppia in lacrime.
Allora il bambino affretta uno schiaffo sulla guancia bagnata.
“Che piangi!”
Lei smette. Lo guarda per un attimo. Cerca di capire un modo di salvarsi. Lui risponde con gli occhi sbarrati, per schiacciarla di più.
“Eh? Puttana?”.
La pizzica sul collo.
“Hai un ragnetto qui!”
Pizzico.
“Qui!”
Pizzico. Schiaffo.
La bimba agita le braccia. Cerca di scacciare le sue mani. E’ inutile. Sbatte i piedi isterica. Grida e piange. Il bambino non perde la calma. La lavatrice va in centrifuga.
Schiaffo.
“Non ti sente nessuno, puttanella”.
Schiaffo.
Ogni grido scatena un brivido lungo la spina dorsale del bambino. I polmoni si riempiono di aria, vibrano sotto i colpi del cuore impazzito.
“E adesso giù i pantaloni”.
Lei dice no. Piange.
Lui sente la fitta invadere completamente il corpo. La fitta che gli viene a volte.
Come quando aspetta il botto sull’asfalto dopo che ha scagliato i giocattoli pesanti dalla finestra. Le volte che crocifigge le bambole della sorellina al muro o svuota il caricatore dei pallini contro un orso di peluche. Quando affetta un grillo. Nei pensieri di quando non è capace a rispondere a chi lo insulta. Quando sua madre lo chiama vigliacco perché ha detto una volta di troppo Non ci riesco. Le volte che lei grida. O piange. Le volte che afferra il fratellino per i capelli. Le volte che annota parolacce a caso sul diario, parolacce femminili una in fila all’altra. Con un pessima grafia. Senza tenere la riga. Le volte che si lascia convincere a piantare due pugni anche lui nella pancia del compagno debole e grasso. Le volte che schianta la testa contro il muro. Una due tre quattro cinque sei sette otto nove…
La bambina piange.
Non ha altro modo di sperare. Piangere. Finché il carnefice non provi pietà.
Ma non è fortunata.
Il suo carnefice è un bambino.

Nota
Il racconto è stato pubblicato nell’ antologia “Giovani Cosmetici” curata da Giulia Belloni

29 COMMENTS

  1. è un racconto crudo e violento. e purtroppo è vero. sempre più i carnefici sono poco più che bambini

  2. Un pugno nello stomaco. Il bambino ha imparato probabilmente, a sue spese come si fa: “Sa come si fa. Suo padre…ecc”. . Per lui questa è la ‘normalità’, come diventerà ‘normale’ per la bambina continuare a subire. Crescendo, si accorgerà con terrore della sua vita devastata. Il rapporto con l’altro sesso sarà per sempre compromesso. Nel pezzo finale, soprattutto “quando la madre lo chiama vigliacco ” traspare una certa indulgenza come a volerne giustificare il gesto psicologicamente. E’ cosi? L’autore pensa veramente che se non si fosse trattato di un bambino, la bambina sarebbe stata più fortunata? Quando ci indigneremo veramente? Comunque è la prima volta che leggo le sensazioni del ‘carnefice’, e rabbrividisco. Ho l’impressione che l’autore le esponga come se fossero state vissute in prima persona. Ha raccolto testimonianze dirette o, essendo uomo, ha immaginato molto realisticamente? Io posso immaginare molto bene lo stato d’animo della bambina, troppo piccola per non esserlo più. Grazie.

  3. Leggendo, mi è venuta una paura che taglia il fiato.
    E’ un testo con paura nascosta anche negli oggetti, ma cruda nell’espressione umana. La lavatrice, non so perché, mi fa paura come botta del sottofondo, come un ritmo di paura, in attesa.
    Il bagno è l’intimita, il corpo nudo, la violenza che lascia nessuna fuga.
    E’ strano, non ho visto vero il bambino, piuttosto l’ombra del padre, come se l’autore non osava parlare.
    Non so come Matteo da Simone ha riuscito a scrivere con verità, a entrare nella mente della bambina.

    E’ un testo forte, scritto con talento.

    Effeffe, ( please) un testo più leggero la prossima volta…

  4. Non sono quel che si suol dire un credente. Ma, alla violenza di questo narrare, mi viene da reagire in questo modo.

    «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.
    Beati gli afflitti, perché saranno consolati.
    Beati i miti, perché erediteranno la terra.
    Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.
    Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.
    Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
    Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.
    Beati i perseguitati a causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.
    Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia.
    Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli»,

    Matteo 5,3-12

  5. Ma state scherzando? Rispondere con le beatitudini? Amara e bigotta consolazione! ‘beati gli afflitti perchè saranno consolati’? Da chi sarà consolata l’afflizione della bambina? Quando? Da quale Dio? Dov’è questo Dio? Rileggendo le beatitudini mi si rivolta lo stomaco. E’ come dire: Non indignatevi, ringraziate chi vi fa del male, quale esso sia, perchè solo così potrete essere ‘beati’.
    Nel racconto, lo stato d’animo del carnefice è descritto con efficacia, non altrettanto quello della bambina. Dietro al ‘carnefice bambino’ c’è la perversione di un adulto.

  6. È talmente noioso, già sentito, già visto e inutile che mi sembra incredibile che possa avere trovato non dico un editore, ma un foglio di carta disposto a farsi imbrattare. La lingua è imbarazzante, la scelta del punto di vista mai chiara e ripetutamente sbagliata. Il lessico passa dal misero al pretenzioso nel giro di una frase senza riuscire a trovare un registro accettabile o anche solo una misura.
    Per non parlare dei personaggi che non sono neanche abbozzati. Tutto ciò che fanno è arbitrario, banale e porta con sè la misera speranza di destare sensazione. Non c’è, neanche per un attimo, l’impressione che siano credibili. Nello stesso tempo, è tutto così ovvio che sai già quello che succederà nelle righe successive, nei paragrafi successivi. Non c’è lo straccio di un’idea neanche a essere generosi. Al massimo qualche trito espediente come quello della lavatrice (che comunque è più personaggio di entrambi i bambini).
    Tutto galleggia nell’inutile e nel non necessario: si assiste tristi e rassegnati al giochino di un ragazzotto che non ha vissuto da raccontare e che non può prescindere dal derivativo, dal racconto di seconda mano.
    Insomma c’è meno talento in questo racconto che al fondo della tazza del cesso che racconta.

  7. Matteo De Simone è un narratore di talento.
    Ancora meglio di questo racconto, ne da prova l’ottimo “Tasca di pietra”, suo romanzo d’esordio per Zandegù

  8. a me questa storia è sembrata un po’ inverosimile…non riesco a prendere posizione. inverosimile perché la violenza minorile, tanto diffusa, mi sembra un fenomeno difficilmente ravvisabile fuori dal “branco”, un bambino che, come si evince dal racconto, ha subito maltrattamenti, prima di infliggerli a sua volta, è remissivo, abituato a subire, appunto, e anche qui la violenza di cui è stato nutrito e che ormai lo abita, si riversa su un soggetto più debole, ma è veramente difficile che la metta in pratica tutto da solo, ed è il gruppo, il branco a fare da scudo. non voglio dire che non esistano altri casi, ma io, al momento, non riesco a figurarmeli…quotidianamente invece ascoltiamo di abusi di minori che a turno stuprano una compagna di classe, o seviziano un disabile e addirittura si filmano o torturano altri soggetti deboli, il ragazzino “diverso”, perché fa il ballerino o quello che mostra atteggiamenti omosessuali e che spingono al suicidio…ma lo fanno sempre in gruppo. il motivo per cui le baby gang, ad esempio sono spesso in grado di terrorizzare più degli adulti è perché sfugge loro completamente il senso della misura: per 2 euro son capaci di prenderti a sprangate. ma, appunto, girano sempre in gruppo. la conclusione Ma non è fortunata.
    Il suo carnefice è un bambino.
    è sembrata anche a me una facile sentenza ad effetto. sbagliata perché quanti bambini non fortunati hanno avuto carnefici adulti che non hanno avuto pietà? e due volte sbagliata perché per ogni bambino carnefice c’è sempre un carnefice adulto a monte di tutta la faccenda, come traspare dallo stesso racconto, ma per sparire poi dietro le quinte. non so, non mi convince.

  9. Sembra la trasposizione di un gioco adulto, anche perchè solitamente i bambini che usano la violenza come registro comunicativo, tendono ad usare il corpo come un’arma.

  10. genealogia del male -1 è mio come titolo ad annunciare – ma senza strombazzamenti particolari – una serie di racconti sulla crudeltà.

    Per quanto riguarda i commenti che ci sono stati finora credo che valga la pena approfondire molte delle questioni sollevate e sono sicuro che matteo interverrà.

    Alex Romanelli pare sia in bagno…
    effeffe

  11. Riesco a concepire racconti simili solo come fatti di cronaca, triste, terribile quotidiana cronaca. Gli interventi delle strutture sociali a tutela dei bambini colpiti da violenza, o a rischio, purtroppo non sono mai sufficienti, nè quantitativamente, nè qualitativamente per risolvere il problema.
    Ma sfruttare la violenza fra, dei e sui bambini a scopi letterario commerciali è un’idea che non passa sotto le mie impalcature mentali.
    E il testo no, non è piaciuto neanche a me.
    Condivido alcune osservazioni sollevate da romanelli sul lessico, sulle idee e sull’inutile.
    Non condivido affatto modalità e toni con cui le espone.

  12. bambini che torturano e uccidono bambini ce ne sono sempre stati, il problema è perché e come si raccontano le cose e anch’io qui, come altri, non sono convinta né da un perché che mi sfugge né da un come che mi colpisca.

  13. plessus, solitamente io sottoscrivo i suoi commenti, però questa volta ha toccato un mio punto nevralgico e mi costringe a una mia personale palinodia. non è questo il caso, in verità, ma ci sono scritti (uno recentissimo, apparentemente innocuo, camuffato di retorica nostalgica e secondo me ferocemente razzista) che sucsitano in me fortissimo disgusto, però poi, rileggendo altri autori mi trovo di fronte a un bivio:

    Le ghiotte letture di Manganelli sono omicidi rituali compiuti con l’iracondia gioiosa di chi si compiace di trascinare la verità per i capelli in una regione in cui “il vero non ha alcun privilegio sul falso” e di contemplare con “perversa umiltà” i meccanismi orrendamente indifferenti, esatti, sadicamente inutili della scrittura. […]
    la discesa di Manganelli nella “rivelazione mistificatrice” della letteratura, il suo immoralismo impietoso, la sua diserzione anarchica dai tranelli dell’onestà e della buona coscienza gettano sul lettore le ombre beffarde dell’irrisione contro ciò che è costituito (opposizione compresa) e lo riducono su un lembo precipitoso, felicemente aperto sul nulla. Di qui il lettore potrà, se vuole, indignarsi e prendere le sue decisioni […]
    L’originalità di fondo è nella sua concezione della letteratura come cerimoniale blasfemo: la letteratura è quell’impossibile che trasforma la morte in figura retorica e che usa gli orrori del mondo come gradus ad Parnassum. Il linguaggio è un mostro generativo e indifferente all’illuminismo umanistico degli intelletuali; e lo scrittore non è che l’organo genitale del mostro

    di Alfredo Giuliani da Le cerimonie sadiche della critica, in Quindici Feltrinelli, 2008, a cura di N.Balestrini.

    Qualche tempo fa, durante una discussione, qualcuno citò: “Finché c’è al mondo un bimbo che muore di fame, fare letteratura è immorale”. Qualcun altro chiosò: “Allora lo è sempre stato” Giorgio Manganelli, da La letteratura come menzogna Adelphi, 2004.

    Date queste premesse, non posso però esimermi dal confermare che, alcuni scritti di alcuni autori, continuano a suscitare in me un incontrollabile senso di nausea e di disgusto. eppure, ripeto: non è questo il caso.

  14. Ho voluto rispondere con le Beatitudini per ricordare che nella storia del genere umano c’è anche un po’ d’aria pura. Che necessita, sempre più. Perché ne va della nostra salute e della sopravvivenza.
    Alla violenza, replico con l’innocenza. Per contrasto.
    Avrei potuto citare qualsiasi grande idealista, credente o laico che esso sia. Oramai non faccio più differenza. Come è giusto che sia.
    Fabrizio De Andrè, per esempio, parlava degli anarchici, e li definiva “santi senza Dio”.
    C’è bisogno di un’etica forte.
    Per vivere, senza impazzire di fronte all’ingiustizia e al delitto.

  15. Anch’io come Maria mi sono a lungo interrogato sulla questione nevralgica in letteratura del rapporto tra realtà (verità) e racconto della realtà. E ho sempre creduto che la “necessità” della letteratura sia tutta in quella capacità di umana sottrazione alla crudeltà, sottraendo alla realtà il “dovere” del racconto. In parole povere se Primo Levi non avesse scritto se questo è un uomo, l’unico racconto di quell’esperienza ce l’avrebbero fatte le carte dei campi, con gli elenchi e tutto il resto. Cosa che se ricordate bene farà Eichmann, al suo processo, quando articola la sua difesa. (vd documentario Un spécialiste (Le procès Eichmann à Jérusalem).
    La questione del cosa raccontare in certi casi non si pone nemmeno, in altri la cosa diventa un po’ più complessa. Altrimenti come spiegare il fatto che Cervantes di ritorno dalla più grande battaglia di tutti i tempi, quella di Lepanto, in cui perde anche una mano (ma non sapremo mai se fu la destra o la sinistra!!) invece di raccontare quell’esperienza scrive il Don Chisciotte. O forse era proprio quello il racconto dell’esperienza?

    Sul perché un vero talento letterario e musicale (Matteo de Simone) giovane ( beato lui che è ancora nei …enti anni e non …anta come parte di noi) invece di raccontare altro decida di vestire strettissimi panni di bambini, non lo sappiamo. Né ce lo dirà attraverso il racconto che avete appena letto. Quello che so è che indovina dei luoghi, dei tempi, e per quanto i personaggi siano sospesi (ricordo però un po’ a tutti che il racconto breve ha un’altra evoluzione rispetto al romanzo, più vicino al fumetto o alla forma canzone) incarnano in modo forte quell’esperienza della crudeltà di cui siamo stati tutti sia carnefici che vittime.
    effeffe

  16. Io non conosco De Simone e non giudico un autore da un solo breve pezzo, al massimo giudico il pezzo, ma in generale, a prescindere da De Simone, vedo usare spesso grandi autori per giustificare le scelte della materia da parte dei piccoli.
    Non mi sembra sensato.
    La domanda che ci si dovrebbe porre non è “perché questa materia?”, ma con quale forza questa materia è diventata scrittura? Quale necessità c’è dietro? E questa necessità, se c’è, è riuscita a mostrarsi in modo convincente?
    Ogni altro discorso mi sembra ideologico. Dai sostenitori del realismo a quelli del delirio verbale, del fantastico, della fiction etc tutti, secondo me, se si fermano qui, sbagliano bersaglio, per me l’unico problema è: lo scrittore c’è riuscito? nel suo genere, coerentemente con la sua natura di scrittore? Con i suoi strumenti di scrittore e di persona?
    I grandi scrittori sono tutti diversi l’uno dall’altro, la grandezza non sta certo nei temi, dalla Metamorfosi a Lolita, tutto è lecito, se il risultato è grande, o anche semplicemente buono o anche, direi, onesto.

  17. “Ragazzo, dammi retta! Tra qualche giorno, tra pochi giorni, questo nostro paese sarà pieno di gente affamata di sangue. Sentirai parlare di inyenzi, scarafaggi, diranno che bisogna ucciderli schiacciarli, bruciare tutti gli inyenzi. Sei tu ragazzo, sei tu lo scarafaggio che cercano…”
    ”..Allora ascoltami bene, ragazzo. Non importa se non mi credi, ascolta le mie parole e quando questa profezia si avvererà fa quello che ti comando. Fra qualche tempo tutti impazziranno su questa terra e gli uomini andranno a caccia dei loro simili: li colpiranno col machete, li decapiteranno, li faranno a pezzi e lasceranno i loro resti a marcire sotto il sole..”..Un giorno verranno nella tua casa…Ma tu non sarai lì, ti comando di non essere lì…””Tu sarai in un posto segreto che non avrai detto a nessuno nemmeno a me..” Sarai nascosto nella tua tana e, per l’amor di Dio, rimarrai lì nel buio e nel silenzio fino a quando Dio, solo lui, ti permetterà di uscire. Hai capito?..”
    Rwanda, la notte delle stelle cadute, di Roberto Mauri, ed. dell’Arco, comprato sulla spiaggia da un extracomunitario. Sono fresco di lettura di questo libricino su una delle più grandi tragedie dell’umanità dal dopoguerra ad ora. Con onu a guardare dal palazzo di vetro e onlus e ong impegnate a spedire i bollettini di c/c.
    Di fronte ad esso, il valore dei contenuti del testo presentato si ritraggono alle dimensioni della fettina di un grillo. E’ capitato di leggerlo, probabilmente, in un momento sbagliato. Ma l’involontario confronto ha esito comunque impietoso.
    Maria (v) la ringrazio per la colta citazione. Da modesto lettore confesso di non aver letto nulla di Manganelli. Potrei intanto ovviare con il libro che lei mi suggerisce, o con le sue interviste raccolte in La penombra mentale, Ed.Riuniti, o. Ma temo che diventerò vecchio senza riuscire a leggere nemmeno l’1% dei libri che vorrei.

  18. Penso che la verità si nasconde, che non è mostrata nel personaggio del padre: è il problema. Il bambino non credo, anche se i bambini sonno crudeli, ma nel testo è la crudeltà sadica di un adulto. L’ambiente è scritta con talento: semioscurità, bagno, solo lui e lei, la madre assenta: non sono preoccupazioni del bambino, ma di un adulto che vuole il segreto. Un bambino sfoga la sua violenza fuori della casa familiare.
    Trovo che i commenti sono un po’ troppo severi, perché il testo mi ha creato disaggio, un malessere diffuso, dunque è riuscito dal questo punto di vista.
    Per il bambino che soffre dall’adulto, si sfoga con gli oggetti: l’accenno alle bambole possiede un carattere di verità.

    Il testo è importante, perché mostra come un vincolo sadico e masochisto puo legare due bambini e fare entrare la vittime nell’infierno del silenzio, mostra anche la dominazione maschile e ringrazio effeffe per questo ascolto al dolore femminile. E’ anche il merito del testo.

  19. Vorrei dire due cose.
    La prima è che per me “Bambini” è uno sguardo indiscreto su una dinamica umana. Possiamo chiamarla crudeltà infantile, ma meglio direi: gioco di potere nell’infanzia. C’è una vittima e c’è un carnefice. Il carnefice è un bambino che non ha metabolizzato la teoria e la pratica della propria aggressività, ma si trova ad applicarle d’istinto. In questo si può leggere il germe di una perversione futura, come ha detto morgana, nella misura in cui il bambino continuerà a sentirsi per tutta la vita giudicato da un occhio morale che lo scruta dall’alto. E nella misura in cui possiamo supporre che qualcun altro abbia compresso/compromesso e avvilito la sua aggressività, che l’abbia plasmata su un modello adulto, conducendolo a quel gesto. Ma per il momento quell’occhio è dentro di lui. E dentro di lui è un dolore forte, così forte da doverlo trasmettere. Per essere trasmesso, quel dolore ha bisogno di un soggetto debole: la bambina. Credo, per concludere, che per tentare, più o meno goffamente, di indagare la genesi del male, si debba guardare al carnefice più che alla vittima. E’ quel che ho provato a fare.

    La seconda è che io so, ho imparato, nella mia breve attività di scrivente, di non essere bravo a maneggiare storie che mi riguardano da vicino. Piuttosto so immaginare le identità a me distanti, come le donne, pur essendo un uomo, o criminali tossicomani, pur essendo io sostanzialmente un pacifico borghese. O infanzie disturbate, pur ricordandone una discretamente serena. In questa facilità di immedesimazione credo stia almeno il 90% delle mie qualità di scrivente e credo la sola che io sia pronto a riconoscermi da solo.
    I nodi dell’umanità sono uguali per tutti: amore, morte, tradimento, potere, violenza, amicizia, successo, sconfitta… E’ variando i soggetti e il contesto in cui vengono trattati che la letteratura può avvicinarsi ad essere, o apparire, rivelatrice. E’ raccontando identità e mondi sconosciuti, animandoli di pulsioni proprie e conosciute che lo scrittore può sperare di produrre letteratura autentica. Non so se è quel che faccio, ma è quel che credo.

  20. Sai Alcor,
    non penso che “i piccoli autori” possano avere quella sfacciataggine altrimenti sarebbero piccoli autori pirla. E come te non credo che la “materia” assolva lo stile, anzi, come si sarà notato da alcune cose messe su NI, penso proprio che al contrario sia lo stile a creare la materia. Diciamo pure che la letteratura dovrebbe (attenzione al condizionale) creare o svelare una materia che prima non c’era. Un esempio:

    Si è spesso citata (mal tradotta) la frase ” inculare con l’ago le mosche ” attribuita a Celine. Contestualmente lo scriba maledetto accusa i letterati di fare una letteratura delle cose vane e inutili.

    In realtà Celine usa l’espressione:

    “enculagailler la moumouche.”
    su un ottimo dizionario d’argot troviamo la seguente definizione:

    Variante plaisante d’enculer. Probablement d’enculailler avec l’infixe -ag- à la javanaise, probablement par influence de encuguler (de même sens), avec une possible référence à gailleur (trompeur chez François Villon) ou gaillard.

    Una variante potrebbe essere la composizione di enculer e aiguille (ago) e allora in italiano si dovrebbe usare un neologismo del tipo:
    Inculagare o incuspillare

    del resto anche moumouche che significa mosca 8mouche) andrebbe tradotto differentemente, con per esempio ” zizinzule” (zinzula è zanzara in sardo. e dico così perché mi trovo a Cagliari) o un equivalente.

    Eppure non tutte le mosche sono “inutili”, imbarazzanti. Vorrei citare un vecchissimo post da me propost su NI che , a parte la grandezza dell’autore, I.B.Singer e la piccolezza del protagonista, una mosca, mette in crisi il teorema celiniano.

    https://www.nazioneindiana.com/2005/11/07/dellamicizia-iii-isaac-bashevis-singer/

    Teorema che del resto lo stesso Celine abiura quando scrive:

    L’homme est qu’un pauvre va-de-la-gueule… aux exploits de l’amour !… sous-sous mouche même ! oui, Colonel ! sous-sous mouche ! sa petite épilepsie de l’Espèce ? pour l’Espèce ?… que de préparations !… que de petits cadeaux ! succions ! serments ! chichis ! et après ?… huit jours sur le flanc ! le plus fragile système nerveux du règne animal !… la vérité ! la mouche à côté ? qui tire ses cent coups la minute ? une Titane, la mouche, Colonel ! une véritable Titane !
    – Vous croyez ?
    – Je pense ! toute la détresse de don Juan est de pas être puissant comme une mouche !
    Entretiens avec le Professeur Y L-F. Céline

    trad. sul finale…
    (l’uomo) il più fragile sistema nervoso del regno animale!…è la verità ! Vuoi mettere la mosca? Che tira i suoi cento colpi al minuto? Un Titano, la mosca, Colonnello! Un vero titano!
    -Dice davvero?
    – Altro che! Tutta la miseria di Don Giovanni sta nel fatto di non essere potente quanto una mosca !

    effeffe

  21. Per evitare un possibile equivoco sul mio uso di “piccoli”, non do del piccolo a nessuno in particolare, mi serviva solo per il confronto e un discorso generale.
    Sulla “piccolezza” della materia, concordo, nessuna materia è piccola, quando è ben trattata e come dici giustamente @effeffe, quando è una materia che prima non c’era, o non era stata vista o non era stata trattata da un nuovo punto di vista.

  22. @ Plessus, OT

    a proposito di modesti lettori, sono io a ringraziare lei perché sia il libro di Mauri, anche da me acquistato dai ragazzi extracomunitari che sempre di più arricchiscono le nostre vite e le nostre città, altrimenti spacciate nel loro più bieco provincialismo, sia quello di Gil Courtemanche “Una domenica in piscina a Kigali” più facilmente reperibile nei tradizionali circuiti di distribuzione, giacciono sepolti sotto i cumuli che si accrescono e rischiavo perciò quasi di perderli di vista, appena ti distrai un attimo…grazie perciò per avermi ricondotto a letture che mi attendono da un pezzo.

  23. ricordo i commenti a un breve racconto di mozzi che riguardava bambini e pedofilia.
    allora, e oggi, non vedo ragioni per non raccontare quel che, seppur non necessariamente vissuto in prima persona, appartiene al mondo dell’infanzia; seppure ad un’infanzia che non ci piace e che ci fa male.
    anche questo breve racconto mi sembra nato dalla necessità di comunicare un pezzo di verità plausibile, che sia stata una comunicazione riuscita, che ha sortito un pezzo dignitoso.
    credo che bocciarne il contenuto, solo perché “scomodo”, sia tendente all’ideologico.
    c’è numericamente una parte importante di infanzia che ha a che fare con la violenza. se anche la letteratura se ne occupa, lo fa in funzione culturale. e credo sia un bene.

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francesco forlani
francesco forlani
Vive a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman e Il reportage, ha pubblicato diversi libri, in francese e in italiano. Traduttore dal francese, ma anche poeta, cabarettista e performer, è stato autore e interprete di spettacoli teatrali come Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, con cui sono uscite le due antologie Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Corrispondente e reporter, ora è direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Con Andrea Inglese, Giuseppe Schillaci e Giacomo Sartori, ha fondato Le Cartel, il cui manifesto è stato pubblicato su La Revue Littéraire (Léo Scheer, novembre 2016). Conduttore radiofonico insieme a Marco Fedele del programma Cocina Clandestina, su radio GRP, come autore si definisce prepostumo. Opere pubblicate Métromorphoses, Ed. Nicolas Philippe, Parigi 2002 (diritti disponibili per l’Italia) Autoreverse, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2008 (due edizioni) Blu di Prussia, Edizioni La Camera Verde, Roma Chiunque cerca chiunque, pubblicato in proprio, 2011 Il peso del Ciao, L’Arcolaio, Forlì 2012 Parigi, senza passare dal via, Laterza, Roma-Bari 2013 (due edizioni) Note per un libretto delle assenze, Edizioni Quintadicopertina La classe, Edizioni Quintadicopertina Rosso maniero, Edizioni Quintadicopertina, 2014 Il manifesto del comunista dandy, Edizioni Miraggi, Torino 2015 (riedizione) Peli, nella collana diretta dal filosofo Lucio Saviani per Fefé Editore, Roma 2017