Per non lasciare le penne
Passaggio all’atto
di
Isabella Borghese
La tua telefonata. Sei tu, vero? Era lui l’ Editore, sì, il caro Mio Editore. Doveva dirmi che avevano in mano la copertina. Invece, No. Lui c’era ma a dirmi che saltava la pubblicazione, chiudeva la collana. E così mentre la sua voce stronza gracchiava a esortarmi di uscire dalle mie storie, da Glavaise, da Angel, da Sofia e di scrivere di me senza costruzioni e di tornare da lui dopo un anno poiché mi avrebbe letto, io concludevo, Credimi pure, stronzo!, non tornerò mai da te, clic, e andavo a strappare il mio contratto.
Ho lanciato il cellulare sulla scrivania accanto al letto dove ha dormito Jacques in quella notte romana. Mi son persa per ore in quello schermo bianco a percepirlo quasi ingombrante, a sentirmi ai tempi di scuola quando rimanevo per momenti infiniti nell’incipit di un tema. Quello schermo, ora, non l’avrei mai riempito con la mia vita. Era il mio pensiero fisso alla sua eco, caro Mio Editore, intende?
Tra i glitter e gli abiti del camerino una sera che Mme Vanesia ripassava l’interpretazione di I will survive, mentre in sottofondo dalla grande sala rossa giungeva la Valentino di Comprami, Sofia che si muoveva alle spalle di Mme Vanesia, prestava attenzione a una sua ustione, le porgeva il boa rosso con le piume dorate, e lei si soffermava pochi minuti a raccontare a Sofia di quando viveva ancora a Cuba. Di quel pomeriggio in cui a sedici anni un’uscita in bici, una corsa sfrenata, una sgommata brusca per evitare un cane randagio, e poi, di lì a pochi attimi il suo precipitare a terra, sulla ghiaia e pezzi di vetro.
Ho trascorso un intero pomeriggio su Pene d’amore. Il titolo ha un doppio senso che diverte parecchio, tra l’altro, e quei racconti erotici in un’antologia tutta al maschile sono una novità: lo sguardo degli scrittori sul nostro universo. Mi soffermavo su un racconto in particolare, un fare curioso il mio, anche morboso, forse. Perché mi scoprivo appassionata nel leggere le parole di quell’autore e a compiacermi nel credere che questo bastasse a farmelo sentire vicino.
Qual è la domanda, Se l’intimo rapporto fra il narratore e il lettore è profondamente erotico?
Poi, con cinque centimetri di zeppa e dieci di tacco diventava statuaria Mme Vanesia e mentre Sofia restava a guardare e a sorridere sfiorava con un gesto rapido quei suoi tre centimetri a rocchetto, che la facevano restare pur sempre una donna in miniatura.
Indossate anche le scarpe Mme Vanesia abbandonava la sedia, sistemava il petto, che si vedesse bene intendo e cercava la conferma di Sofia che il rossetto non risultasse troppo poco evidente; l’eleganza e la sobrietà non costituivano di certo il suo stile, e se Sofia arricciava il naso, Mme Vanesia apriva il cassetto della toletta, ne estraeva un lucidalabbra rosso passion, brillantinato e luminoso e impugnava varietà di polvere bianca, anche dalla sua pochette, per ritoccare occhi e umore.
Io restavo piuttosto orgogliosa, caro il Mio Editore, su Glavaise, Angel, Sofia, facendo tesoro di altri consigli che conservavo invece come preziosi.
Poi decidevo di chiudere il pc.
Sceglievo di distrarmi e puntavo Pene d’amore ancora una volta e a soffermarmi, io, sulle mie pene d’amore, e sul pene d’amore del cavaliere, quello sconosciuto.
E restavo per ore a ricordare che per comprendere il mio atto d’amore per anni ho raggiunto Anna come fosse un oracolo. Il mio.
Mi sedevo lì, di fronte al suo sguardo, al suo timbro, a volte indulgente, altre severo, altre ancora interrogativo. E ci restavo un’ora intera anche quando il silenzio era l’unico racconto che sapessi proferire. Anche quando le parole c’erano, ma non trovavano forma e consistenza effettiva. Una volta mi sono arrabbiata con Anna. Le ho sputato addosso rabbia e tremori, o forse solo insicurezza e paura, le mie. Decideva che ero pronta a proseguire da sola, un altro paziente avrebbe preso il mio posto. Doveva essere qualcuno di bisognoso, mi dicevo. Ma non mi importava, l’egoismo era il mio portabandiera. Le ho gridato che per quell’abbandono io non ci stavo. Le ho rimproverato la sua freddezza, la sua scelta impertinente, amara, inappropriata, anche incompetente. Sì, io a prendermi il lusso di qualificarla un’incompetente nel lasciarmi andar via in quel modo. In quattro e quattro otto.
Allora Sofia la guardava nella sua completezza e come capitava sempre in questi loro incontri, in quel preciso istante l’ammirava «Sei bella Madame!» si pronunciava solare, e Mme Vanesia puntuale, piegava le ginocchia a pareggiare l’altezza di Sofia e: «Bella sarai tu Sofia! – diceva, – Io sono fa-vo-lo-sa!».
Il mio sembra un andirivieni di pensieri morbosi, sciocchi, ma finanche deliziosi, per me.
Perché poi lo ammetto, sì, dopo la lettura di quelle pene c’ero io a perdermi nel mio atto d’amore.
L’atto d’amore è una faccenda bizzarra della mia vita. Sembra cresciuto a seguito di un’educazione sessuale, o anche solo di esperienze che non hanno avuto nulla di coerente. Quando dura un’intera notte, quando vive in pochi minuti che sanno bastare, quando manca, quando sembra insipido e quando risulta straordinariamente armonioso. L’atto d’amore che richiede raffinatezze e variazioni assai distanti dall’eleganza. Quando poi i rapporti chiaramente torbidi e insani imbrogliano ancor di più la questione, quasi a farmi inciampare.
E quando l’atto d’amore desidera e capita anche questo: un cavaliere ancora sconosciuto mi avvicina a una sessualità che so sì bramare, ma l’ho scoperto per caso, proprio così, solo con le sue parole che erano anche bende, corde e sevizie.
L’abito di Mme Vanesia, in quella mancanza di stoffa sul fianco destro, lasciava intravedere parte di quell’ustione e Sofia cadeva così nell’impulso di un commento fugace, «Juana, chi ha bruciato Mme Vanesia? Non è frutto di una caduta quella…».(…)
Cristo! Ad Anna avevo da poco messo sul piatto d’argento la mia verità: non mi scopavo più Enrico da un anno e da cinque eravamo fidanzati. Mi faceva schifo il suo corpo addosso, a sentirlo sopra di me scaturivano se non fiotti di rivoli un forte senso di nausea; ma lo capirebbe lei, che mi esorta a raccontare? Ma che ne sa lei, caro Mio Editore, di quel senso di nausea fastidioso? Un cazzo! Allora sì che dovrebbe ascoltarmi, poiché dopo vorrei vedere Io vomitare Lei.
Paolo aveva quarantatré anni, Angel ancora ventidue.
L’italiano riusciva a conoscere Angel a Cuba in un modo così personale da restarci in contatto anche al suo rientro in Italia.
E Paolo con la sua attività commerciale ben avviata e assai produttiva e qualche casa di proprietà pure, decideva di potere e voler mantenere uno sguardo più attento e reale sulla storia di Angel, giacchè lui ne era a conoscenza da quella vacanza cubana. Chiedeva così un visto turistico e di lì a un anno Angel arrivava a Roma.
Enrico poteva spogliarmi sì, certo, nessun problema, lo faceva da anni, ma da tempo e d’improvviso quando il suo corpo cercava di sdraiarsi sul mio e si avvicinava la penetrazione, cristo! Che schifo! D’un tratto ho cominciato a vedere un altro corpo su di me e nemmeno mantenere gli occhi aperti liberava i miei pensieri, no, perché anche le mani di Enrico che toccavano la mia pelle mi riportavano al tatto dell’altro. Quell’uomo malato a cui ho dovuto per anni prestare il mio corpo per sdraiarcisi sopra, accogliere le sue lacrime, la sua disperazione, il suo amore malato, cazzo! Caro Mio Editore, perché affacciarsi alla mia vita? Che ne può sapere lei di queste ossessioni? Della morbosità? Sì, io conoscevo e studiavo nero su bianco la malattia di quell’uomo, per farmene una ragione, allora sceglievo di giustificare quel suo fare perché inconsapevole. E la comprensione e la conoscenza diventavano negli anni la mia forza.
E dio solo lo sa quanta fatica e quanto fa male anche guardare l’uomo che si ama dritto negli occhi, non presentargli i tuoi fantasmi, ma implorarlo di scoparsi qualcun’altra perché per il sesso non c’era più posto adesso.
(…)
E Angel al suo nome affiancava quasi nell’immediato quello di Mme Vanesia.
Paolo metteva a disposizione di Angel il suo monolocale sulla Tiburtina dopo il raccordo. Lo aiutava nell’integrazione facendolo lavorare tramite conoscenze e così Angel viveva di giorno insegnando balli caraibici privatamente, e Mme Vanesia di notte lavorando come cameriera in un ristorante omosessuale della capitale e aprendo poi le danze con qualche spettacolo drag nelle serate programmate.
Ogni martedì come un automa alle 14.00 qualsiasi cosa stessi facendo e ovunque stessi raggiungevo Anna, un appuntamento inderogabile il mio. Entravo da lei in quella stanza, io a poggiare la borsa sulla sedia vicino alla finestra e ad accomodarmi su quella di fronte a lei. Anna mi diceva puntuale, Allora, come stai? E io dicevo sempre bene, poiché mi piace proprio dire Sto bene, è un bel suono, un buon inizio pure. Sì, mi piace parecchio. Poi però partivo da un sogno e ogni volta io a perdermi tra mille domande e infinite sfaccettature che vedevo nelle questioni e nei ricordi in cui mi sembrava di inciampare. E Anna si pronunciava sempre pronta a dirmi di rallentare e focalizzare le cose com’era giusto che dovessero essere viste dal mio sguardo e come io non riuscivo a vederle, mai. Poi andavo via, con una forte stretta di mano e un grazie ad accompagnarla, ogni volta, e le sue parole da conservare.
Ecco, mi confidavo con Anna in quegli anni che il mio atto d’amore assumeva sfaccettature assai complesse.
E lei dopo pochi mesi dal mio confidarmi voleva congedarmi. Senza chiedermi, senza lasciarmi il tempo di capire, avvertire il distacco nei tempi che volevo mi spettassero.
Ma poi Anna incassava le mie parole, anche gli insulti, e mi accoglieva ancora. Erano giorni di sole quando percorrevo la mia via, poi il lungo viale alberato e la piazza che ogni volta sceglievo di attraversare da un punto differente e dopo pochi metri in salita la svolta a sinistra. E lì a raggiungere Anna tiravo un respiro di sollievo, maturavo la consapevolezza che le ombre della mia vita dovevano essere solo un accessorio, seppur scomodo, ma che non facevano l’intera mia vita.
Anna diventava la parola che mi portava a un pensiero positivo, era una riflessione che mi faceva vedere le cose da una prospettiva e un’angolatura differente, era la voce che sapevo ascoltare e le orecchie che volevo mi sentissero, a cui sapevo confidarmi.
E per parlare bisogna trovare orecchie che sappiano ascoltare a dovere, caro Mio Editore, perché mai dovrei credere che uno come lei abbia tale propensione? Mi fa ridere, mi creda pure!
Mme Vanesia esisteva davvero per pochi e per poche realtà: per le sue amiche drag, per gli uomini della notte che a sfiorasi di giorno sceglievano di non riconoscerla, e per i banchi del mercato rionale, sua mèta quotidiana. E lì, raccontava rassegnata Juana che anche lei conosceva bene certe dinamiche, a incontrare Mme Vanesia erano sempre sguardi curiosi, sì, ma sapevano anche sorriderle. Come le signore anziane dei banchi storici: quelle che la osservavano curiose a non capire chi ci fosse davvero in quel corpo e con la voglia di scoprirlo, ma l’imbarazzo che non fa proferir parola e quelle che invece bofonchiavano incuriosite, sì, ma con il fare di chi vivendo una vita di soli sacrifici e lavoro, ignorava l’esistenza di molte questioni, anche della diversità. Allora su Mme Vanesia poggiavano sopra il loro sguardo, con gli unici strumenti che possedevano a commentare, ma senza alcun piglio malevolo ad accompagnarle.
Quando la terapia da Anna terminava e per davvero era fine luglio, un luglio che mi scopriva serena, armoniosa, solare.
Io e Anna ci siamo riviste a settembre e per la prima volta non eravamo in quella stanza, ma davanti a un caffè, a condividere una mia gioia. Poi l’ho incrociata in autobus, a novembre, poche parole Tutto bene? Sì, Anna, tutto bene; e lei a scendere di corsa, la sua fermata era arrivata, sùbito.
E poi? Adesso Anna non c’è più, non c’è più dal 10 dicembre, un infarto, e io solo a gennaio l’ho saputo e quando gennaio era quasi febbraio e mi scendevano rivoli incontrollabili mentre ripercorrevo i miei anni con lei. Tutti.
Il cuore tremava poiché capivo che non l’avrei più potuta cercare, né incrociare casualmente.
Il peso della sua assenza quest’inverno restava qualcosa di insormontabile. Poi col tempo mi soffermavo sulle miriadi di parole che ci siamo scambiate e si sono incastrate a dovere nel corso degli anni. E maturavo che la loro consistenza nella mia vita doveva avere un peso maggiore di quello dovuto all’assenza fisica di Anna. Così a poco a poco accompagnata da questo pensiero mi riscoprivo serena e oggi quando un ricordo mi riporta ad Anna nessuna malinconia sembra più appartenermi.
Mi delizierebbe solo la possibilità di incontrarla almeno una volta per sentire la sua voce chiedermi Come stai? E poterle dire ancora una volta, e che sia pure l’ultima se così dev’essere, Anna sto bene.
Questo, sì, mi incanterebbe.
Come m’incanta soffermarmi su Glavaise, Angel o Sofia. Del resto, lo scrivevo in Angel, il figlio che era davvero: scrivere è un’attività solitaria in cui il lettore esiste come una speranza e un incanto.
La storia di Angel a Sofia la raccontava Juana mentre sul palco passavano le interpretazioni di Material girl, Pedro e Somewhere Over the Rainbow.
Oggi Mme Vanesia non vive più nel monolocale di Paolo, condivide un bilocale a Tor Pignattara con delle amiche, ma sono in sei a viverci dentro e con un unico bagno cieco.
Notte romana, caro il Mio Editore., sono certa però che le stiamo dedicando due sguardi molto distanti l’uno dall’altro.
Ogni cosa da me adesso sembra riposare: il mio cellulare, l’antologia erotica, anche l’atto d’amore. Quello che giorni fa mi teneva sveglia quasi l’intera notte deliziandomi di sensazioni rare e care con quell’uomo che conosco da tempo.
E l’atto d’amore di questa notte, che prima di vedermi riposare, accompagnato dal pensiero di quella lettura pomeridiana verrà nella mia mano mancina e con la passione per quel cavaliere che invece non ho mai incontrato.
E immagino di sì, allora, è anche profondamente erotico il rapporto tra il narratore e il lettore.
Quella notte nel locale Mme Vanesia spariva statuaria, un’andatura che pareva voler rivelare dell’orgoglio ad accompagnarla e mutava ritmo solo appena saliva su quel palco di pochi metri riscaldato e illuminato da fari che riportavano agli anni Ottanta e incorniciato dalla voce di Gloria Gaynor.
Sofia e Juana partecipavano alla sua esibizione sempre insieme, silenziose, aspirando una camel light e sorseggiando una un long island, l’altra un cosmopolitan. E quel degustare non durava che il tempo di un’interpretazione, quella sera sulle note di I will survive, sei minuti e venti secondi.
Allora, carissimo il Mio Editore che non tornerò mai da lei, sono al punto di credere, e da anni ormai, che bisognerebbe essere dentro la testa della gente per capire ogni questione, ma la testa non sempre funziona a ragione, siamo anche tutti così comprensibilmente differenti. E se certe menti sragionano a dismisura diventa assai più difficile cercare delle risposte che sappiano soddisfarci a dovere, donandoci chiarezza.
Del resto la verità, per essere unica, bianca o nera, se unica e sola dev’essere necessita di un lungo percorso, soffermarsi anche sulle sfumature, il grigio. Ecco. Sembra banale ma anche piuttosto umano tutto questo. E la mia verità rispetto a lei, caro Mio Editore, oggi è unica, sebbene mi sia interrogata più e più volte quasi a desiderare di riconciliarmi con lei. Tentativo vano: se non avessi firmato nemmeno il contratto e avessi avuto anche solo la sua parola per la pubblicazione, mi creda, non avrei compreso lo stesso la sua telefonata. Allora mi delizierei IO a leggere un suo racconto per scoprire cos’è il rispetto e l’onore nella sua vita, se esistono, intendo.
Sono tornata al lei, so che non la disturberà, ma faccia conto che sto rispettando la sua veneranda età. Del resto è necessario per me poiché ormai non so assegnarle un posto più vicino.
Il passato di Angel era l’orrore che alberga nelle piaghe della vita familiare, il presente di Mme Vanesia restava invece incastrato in uno sguardo che a voler chiedere un riscatto alla vita non conosceva però le parole per farlo.
E oggi nei suoi occhi noisette non ritrovo ancora una luce differente.
E domani riprenderò le mie storie con le parole che so usare, mentre qualche raggio di sole taglierà la tenda gialla della mia stanza a cambiarne la luce.
E sto bene. Un bel suono, un buon inizio.
Caro il Mio Editore…
Stendiamo il classico velo pietoso.
Li ho conosciuti, gli Editori. Quelli “ufficiali” intendo. Ma neppure quelli cosiddetti “alternativi” scherzano. Anzi. Proni, di fronte alle leggi del mercato, avendo meno “margini”, sono anche più feroci.
Questo è il genere umano.
Il tutto, condito con i classici meccanismi, mafiosi, che ci massacrano fin dalla nascita. In tutte le attività, in ogni campo e ambiente e luogo.
Pensate,… mi lamento del ministero dove mi tocca lavorare. E giustamente. Dei suoi rituali feudali. Ma, credetemi, gli ambienti dei cosiddetti intellettuali sono anche peggiori.
Non siamo che una massa di ipocriti, al massimo.
Noi esseri “umani”…
Post Scriptum.
Le Montblanc della foto non mi sembra si addicano molto… Ironia?
Oh beh anche in campi agricoli mica si scherza (campi agricoli potrebbe sembrare un bizzarro gioco di parole ma non lo è), ma nemmeno in quelli assicurativi o bancari o forensi o commerciali.
Lupi dietro alle pagine scritte, sanguisughe dietro ritardi nei pagamenti, gente che si rimangia la parola, che considera la propria firma su un pezzo di carta un errore, una distrazione, un insignificante segno di inchiostro senza troppo peso.
Penali? Non esistono e se sono previste dài, dài, mettiti in mano ad un avvocato così magari ti sveni il doppio e pure il fegato diventa enorme e il sangue come fiele.
Io trovo difficile stare qui al mio posto agricolo ma anche tu nel tuo posto intellettuale. Io non farei molta distinzione tra intellettuali e non intellettuali anche se gli intellettuali dovrebbero, dovrebbero, in virtù di ciò che li rende titolari di un simile appellativo, rendersi responsabili della giustezza di questo mondo e, magari, anche della sua bellezza.
Ma poi sulla giustezza di questo mondo ognuno se la costruisce nel suo piccolo, giorno per giorno. Così come la bellezza, ognuno nel proprio piccolo, giorno per giorno.
Dò sfogo alle parole che diversamente non avrebbero quiete nei miei giorni. Dò sfogo a questa cosa così, per simpatia nei confronti di chi ha scritto questo post amarognolo come un cerisier selvatico ma con un finale che mi fa immaginare un masai, fermo sul promontorio con la sua lancia, a rimirare la radura più sotto piena del tutto di cui lui ha bisogno.
Sì, meglio avere sempre qualche parola ancora a disposizione, darsi un compito quotidiano, darsi un nuovo orizzonte.
saluti.
@sergio: ciao sergio, rimando al caro Forlani il tuo post scriptum, poiché è la sua associazione.
@bevitore: grazie della ‘simpatia’ e del commento. lungi da me dal sentirmi ‘un intellettuale’ però. Mi paleserei piuttosto e anche più semplicemente una donna che aspirerebbe a entrare ‘nelle case e nel cuore della gente’ con le storie che racconta; perché nella condivisione di alcuni stati d’animo e storie c’è la vita che sappiamo riconoscere e toccare con mano.
e forse questa voglia di arrviare ‘alle persone’ resta davvero la mia unica aspirazione. E spero non siano queste parole a restare in questo commento, come intrappolate’ e con ‘la supponenza’ che non mi appartiene, ma piuttosto ed esclusivamente con ‘l’amore’ per la parola. questo sì.
grazie ancora,i.
ecco allora diciamo che gli intellettuali dovrebbero essere così: arrivare nelle case e nel cuore della gente.
:)
c’est mon blanc à moi
effeffe
“ecco allora diciamo che gli intellettuali dovrebbero essere così: arrivare nelle case e nel cuore della gente.”
beh, diciamo che putroppo già sono così, già fanno così, entrano “nelle case e nel cuore della ggente” per dare emozzioni.
e si sa che ormai senza l’emozzione non passa la nozzione.
lo fanno coi libri, ma soprattutto con la televisione, il cinema, la radio, la narrazione e l’informazione, che è sempre un tipo di narrazione.
putroppo sono diventati esattamente questo: gente che per denaro punta diritta al “cuore della ggente” invece che, per esempio al cervello, alla mente.
intellettuali completamente ricondotti nell’ovile del pensiero unico – tutti – il che significa lavorare in modo più o meno diretto per l’organizzazione del consenso.
insomma, manovali della narrazione (poco per quella cartacea che non conta, molto per quella televisiva, che fa vincere elezioni su elezioni) e non solo di quella, pagati il giusto, né tanto né poco (ma ci sono le eccezioni).
sognate pure il cuore della ggente, prima o poi qualcuno vi consentirà di arrivarci.
caro Tash,
mi esprimo sotto forma di epistola, non me ne vorrai. Sapessi chi sono saresti contento. Sì ci conosciamo ma è inutile che ti racconti la rava e la fava, non ha molta importanza. Una volta ci mandammo benevolmente a quel paese e nulla più ci dicemmo, ma fa niente: siamo ancora qui a contarcela.
Però le cose che hai scritto mi hanno fatto riflettere nel senso che forse ho ponderato male le parole, le ho usate un po’ a casaccio, con poco criterio e poca considerazione. “La gente” è davvero un termine così astratto da meritare la tua giusta critica. Io però, da buon agricolo, non è che mi sappia spiegare tanto bene. Ci avrò i calli alle mani per quel che faccio e non so se ciò di cui vado parlando può avere un senso oppure no. Però la “gente” è troppa e quindi passibile di mille condizionamenti: televisivi, giornalistici, sportivi (perché Berlusconi anche su quelli s’è basato, forse), ma poi c’è anche altra “gente” che, come me, in tv guarda solo blob o anche altre cose tipo documentari su Alice Ceresa o cose così. Ecco, a persone come me e come queste altre che mi somigliano, chi ci pensa? Forse persone come Isabella Borghese? Può darsi ma anche può darsi di no. Però io che sono “gente” vorrei che mi fosse tirata roba buona per il cuore (e anche per la testa e questo mi sembrava insomma abbastanza scontato ed/od evidente) non shampoo per lavarmi i pensieri.
Non so se mi sono spiegato.
(Non so se mi sono capito, anche)
@tash: ho messo tra virgolette la frase ‘nelle case e nel cuore della gente’ o ‘ggente’ se ti sembra più simpatico, fai pure, proprio perché in questo contesto e in poche righe non mi sembrava il termine più preciso.
ma parlare del discorso economico in relazione al mercato editoriale mi sembra un po’ eccessivo; quanti scrittori e/o narratori in Italia vivono solo grazie a ciò che pubblicano? Camilleri e pochissimi altri, azzarderei.
ed escludendo poi, anche, la questione denaro, non credo, che puntare ‘al cuore della gente’ significhi escludere necessariamente la mente.
o almeno… può essere che non si ha l’abilità e/o il talento di raggiungere né l’uno né l’altro, ma potrebbe accadere che entrambi possano esistere e anche interagire, tra l’altro, e sarebbe perfetto. no?
il discorso che fai tu in merito alle trasmisisoni televisive lo condivido a pieno. Del resto però, ne fanno di pietose con share comunque alti per le fasce che ricoprono. significa che invece di educare uno spettatore qualsiasi a vedere trasmissioni che possano stimolarlo e in qualche modo renderlo partecipe, si presenta un prodotto meno impegnativo perché – furbizia loro- il pubblico da casa non mancherà lo stesso.
@bevitore: ci conosciamo?
un saluto,i.
Il vincolo tra la letterature (scrivere, leggere) è un nastro erotico tra l’immensità immaginaria e l’esaltazione ritmica delle parole.
Primo l’oggetto che mi ha fatto sognare da bambina, la penna che unisce dolcezza del corpo, bellezza, nobiltà delle forma e del colore, e la punta dorata che delinea il sogno d’inchiostro, cosi violente il desiderio che ho rubato quello di una vicina di classe, perché in realtà non era questa penna che desideravo, ma quella del mio maestro.
Il racconto mi è piaciuto per lo slancio verso l’orizzonte dell’incontro tra l’autore e il narratore e la disillusione, il momento dove la scrittura incarna il grido d’amore, la fame, l’assenza nel centro del desiderio anche nel disgusto che descrive con forma perfetta Isabelle Borghese,
è un corpo erotico che prende forma sulla pagina, un richiamo che si avvolge di bellezza.
Allora si puo contemplare questo ciliego selvatico, questo viaggio, questo paesaggio, questo corpo/anima offerto al lettore.
no isabella, non ci conosciamo…….ma magari, che so, berci un bel bicchiere di vino locale non sarebbe male……………cioè, poi dipende da cosa si intende per “locale”……mio lambrusco/malvasia/ e, poco più in là, gutturnio et similari etc…etc….ottimi direi (ma non cera Grey!!!)..
effeffe, nascondi bene il tuo stylo Montblanc: sono capace di rubare in fretta e con talento.
Dopo aver letto il testo, ho fatto un giro in una cartoleria e il vecchio demonio si è svegliato: penne, quadernetti, tutto è tentazione da scrivere, ma sono uscita ben saggia.
Cos’è un “nastro erotico”?
Cristofore, per me, significa che è une tessuto setoso che unisce l’immaginario e la scrittura, è un vincolo che non si puo toccare, ma immaginare.
Quando tu scrivi, per esempio, un brano erotico, fai scorrere nella mente immagini come carezze, ma sono carezze fantasmi, che hanno la dolcezza di un sogno.
Dunque il nastro esite solo nella sua percezione immaginaria: è il piacere della scrittura: nutrire il sogno erotico meglio che la realtà.
Non so se sono chiara, perché non possiedo bene la lingua, è più facile per me spiegare nella mia lingua.
Perdonnami, volevo dire Cristoforo
L’ho letto. E’ brutto.
l’ho letto.tutto.
effeffe
Non credo nella separazione tra “immaginario” e scrittura. Non esiste un mondo platonico delle idee, dell’immaginario, e la scrittura che tenta di rappresentarlo in maniera più o meno fedele. La scrittura è già essa stessa pensiero, soprattutto nella sua espressione inconsapevole (o ispirazione cosciente, che è la stessa cosa). Dante, tentando di spiegare come gli venne in mente una delle canzoni della “Vita nuova” dice: «la mia lingua parlò quasi come per se stessa mossa».
E si sa che lingua e nastro erotico setoso costituiscono un’accoppiata pericolosa…
¿Hay alguien que podría explicar, por favor, estas expresiones, estas ecuaciones?
– mondo platonico delle idee = immaginario
– espressione inconsapevole = ispirazione cosciente
He perdido.
Gracias.
Risoluzione delle equazioni per donna Prassede:
1) il mito della caverna interpretato in senso idealistico, di una realtà staccata dall’esperienza;
2) la creazione artistica è un’attività consapevole, quindi se si ragiona in termini di “ispirazione” anziché di “espressione” tale ispirazione non è passiva ma cosciente appunto (estetica di scuola tedesca vs. estetica di scuola italiana).
@bevitore: i tuoi vitigni, mi sembra di capire, non siano laziali, ma non siamo poi così lontanissimi. :-)
@veronique: grazie per l’attenzione e per il commento apprezzato nel suo divenire e per aver colto le mancanze, la fame e l’amore. Merçi, chère Veronique.
@a chi c’è e a chi non c’è più: il racconto l’ho scritto. l’ho letto. l’ho riscritto. l’ho riletto. brutto e bello che sia e anche senza spiegazioni al seguito. tant’è.
tento di spiegare le mie parole: si intrecciano questioni, vite e parole che conosco alla perfezione. non c’è nulla di immaginario, ciò che va oltre la realtà, in queste parole; ci son parole misurate, in alcuni passaggi, questo sì, né una di troppo né una di meno. c’è la conoscenza di quello narrato, che non è voluta andare oltre, adesso, ma se qualcuno l’ha fatto è perché la sua interpretazione l’ha condotto a. c’è però l’energia di raccontare, del resto, non cito a memoria, ma gradivo le sue parole, quelle di A.B., quando scriveva che amare e scrivere son cose che richiedono un atto di forza per abbandonarvisi.
può essere che quella forza -così totale- mi manchi ancora o può essere solo che non mi va di cominicare una storia e finirla per il gusto di vedere come va a finire, ma continuarla per la conoscenza che ho della storia e del rispetto e la collocazione che vorrei donarle, a dispetto di tutto.
scrivere non è come avere un amante, appunto, che sai come andrà a finire.
direi piuttosto che qui le parole misurate hanno creato intorno a loro un immaginario che non è stato frutto consapevole delle mie battute.
@iannox: comunichi che sia brutto, punto e basta rispondo l’ho scritto, punto e basta. e mi piace anche ora che l’ho riletto pensando che fosse ‘brutto punto e basta’.
so che la stroncatura rimarrà immotivata.
alla ‘tua bruttura’ sulle mie parole, il mio sorriso! iannox, felice notte :-), più a me che a te però ;-)
¿Entonces el imaginario, como un conjunto de representaciones simbólicas, coincide con el iperuranio platónico, con lo que es puramente pensable?
¡Ah!
@isabella
come non detto.
non commentavo il tuo post, che ho letto solo per un quinto.
commentavo un commento.
cercavo di spostare il discorso dall’editore venale che non pubblica il bel libro che non si vende, alla complessiva conditio dell’intellettuale, che mi pare più interessante.
ante.
le emozzioni, certo.
la ggente, certo.
p.s. l’abrogazione di marx dal vostro orizzonte mentale si sente, eccome.
Grazie a Isabella per la risposta gentile e a Cristoforo per l’osservazione fisolofica.
¡Ah! Se trata de una observación filosófica?
¿Sí?
Bueno …
… las emocciones
… la ggente
che noia…
che barba…
Non preoccuparti, Isabella. Questi incidenti di cammino sono capitati a tutti noi; consideralo la tappa di un viaggio iniziatico che un giorno albergherà nella tua mitologia personale. Il tempo è DAVVERO galantuomo, quando si hanno i tuoi talenti.
Due baci dove sai
Lo siento así, por favor.
Me había olvidado que hay también una filosofía de vianellos y mondainas.
Saludos. Y salud.
Melquíades Fermín Herrera
:D
io non so lo spagnolo anche se somiglia molto a “noi”
Estimado ‘bebedor’, cuando voy a estar en Milán, le ofrecemos una cerveza para beber de la mano. Tal vez, en el jardín de Precotto, mientras leemos los versos de Francisca Gentes.
Saludos. Y cin cin.
sì ma troppo onorato….troppo, troppo……io no intiendo como quello del grana padano padao…..non so se mi sono spiegato e/o capito……ah ma no, che stupido, quello era portoghese che è ancora diverso.
chiedo venia per la disquisizione…..e anche io salutos
caro chevalier,
piacevolmente sorpresa e incantata nel trovarti qui.
distratta da altre letture mi son persa qualche commento, non il tuo, certo.
…la vera saggezza consiste nel raddoppiare la somma dei propri piaceri, non nel moltiplicare quella delle pene. (parole di juliette)
trovarti qui ha raddoppiato la somma dei miei piaceri ;-)
saluti a tutti e due baci per te (i tuoi presi e i miei rinnovati)
sorriso,i.
a me piace tanto tashtego che scrive di aver letto il pezzo per cinque righe… un vero signore.
vai isabella, che siamo con te.
@franz
mai detto di essere un “signore”.
leggi bene, ho scritto di aver letto per un quinto il pezzo, non per cinque righe.
nessuno è obbligato a leggere nulla fino in fondo.
è il testo che, per un motivo o per l’altro, ti deve trascinare fino all’ultima parola.
se non ci arrivi non è colpa di nessuno (eri distratto o il testo non ti interessava, o era brutto, eccetera), ma nemmeno ti devi vergognare di niente.
dunque, non sono un “signore” (che vorrà dire la parola “signore” al giorno d’oggi?): mi sono limitato a dichiarare che commentavo un commento e non il testo.
Mi è piaciuto molto questo racconto e il modo in cui le parole mi hanno condotta dentro e fuori il confine tra vita e letteratura, e nella terra bastarda che non è l’una né l’altra.
Bello.
sabrina
a me piace tanto tashtego.
mi delizia e mi fa sorridere che l’anonimo sia un fan del culo di tash (che ahimè non conosco di persona e non posso per cui condividere), ma forse – E DICO FORSE – non è questa la sede e il post per dichiararsi restando poi anonimi.
:-D
direi che si esagera malament equi, allora questo post va in vacanza, chiude così please. Con un applauso a ‘fan culo’ per l’exploit, così sarà contento e soddisfatto.
:-)
isabella
Un abbraccio a te, Isabella.
Continua da scrivere.
Non so, non capisco. Devo avere dei limiti.
Ciononostante – perdonate il termine che poco si addice al mio essere femmina, intensamente profusa da femminile dolcezza – m’incazzo! Perché è veramente intollerabile non riuscire mai ad aprire un dialogo civile, onesto, privo di offese e rozzerie varie, quando leggiamo e ci confrontiamo con scrittori che propongono i loro elaborati.
Tutto si fa tranne ch’entrare veramente nell’universo di chi scrive; di ciò che l’autore scrive; il suo stile; l’architettura del testo: tutti aspetti pertinenti, legittimi.
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Cari signori, ma chi vi credete d’essere? Ben altri sono i critici letterari – quale crisi, comunque, in questo settore! -; ben altri sono gli intellettuali e i pseudo-intellettuali.
E perché il geniale, amato Marx dovrebbe diventare il fabbro filosofico, il battito-riferimento capitale di/per ogni scrittore? A ciascuno il suo miocardio!
Isabella non ha bisogno né di Marx, né di raggiungere per forza il cuore della gente. Riconosco in lei un’umiltà che s’impone da sola: la guida verso il “fare” scrittura, verso l’altro. E con questo racconto lei si propone, credo, senza volontà di uno squartamento puramente mentale – già c’è quello del cuore, e in questo caso ha una profonda pesantezza.
E’ la sincerità, un senso di verità vera che ritrovo in ogni passaggio cromatico (esiste anche la percezione soggettiva del colore o del b/n in scrittura), in ogni sua singola parola. Mi piace. Fa poco fiction.
Mi piace lo slittamento dalla realtà all’immaginifico, e viceversa; la moltitudine di tematiche che l’autrice propone: tutte molto scottanti, poiché penetrano l’animo umano dell’umano essere in bilico, sempre al confine tra esistenza oggettiva e sogno.
Isabella porge la sua materia in maniera calibrata, squisitamente elegante, a tratti retrò, con padronanza dei mezzi espressivi. Un racconto con miniature liriche potenti, ed un ritorno alla narrazione su piani diversi assolutamente equilibrata. La storia si srotola diretta, senza inciampare: è addirittura perfetta in tal senso.
Inciampano, piuttosto, i sentimenti. Com’è giusto che sia. Non hanno orizzontalità né verticalità né direzione, questi calvari interiori: riempiono quel maledettissimo vuoto che vive abusivamente in ciascuno di noi. Senza pretese intellettualistiche, senza sovversioni o tracce filosofiche ostentate… Attenzione però, ci sono anche quelle, e solo un occhio ed un’anima attenta arriva a percepire il non-detto, il carico del pensiero occulto.
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C’è tutto qui, magistralmente raccontato senza edulcoranti né frenesie appariscenti.
C’è l’amore, la pena, il dolore, il sogno, la perdita, il ricordo, una storia, più storie, la finitudine.
C’è soprattutto Isabella. Con la sua generosità ci porge un mondo che cerca di condividere con l’altro da sé: il lettore, talvolta sputasentenze immotivato.
A volte mi viene da dire: Ma perché dovremmo scrivere rivolgendoci all’altro, quando l’altro – il famigerato lettore, appunto – non se lo merita affatto questo dono! Quando preconcetto e malizia sono i parametri principali per giudizi inesistenti, inutili, offensivi”.
Cari signori, motivate il vostro “Mi fa schifo!”. Abbiate la compiacenza d’un gesto che non sia “ora dico il mio dappoco, scappo e fuggo”. Sa tanto di viltà.
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Posso solo complimentarmi con Isabella Borghese, invitandola a proseguire felicemente il suo percorso letterario. E le chiedo scusa, come a Forlani, per i toni un po’ accesi ed irruenti.
Nina