Ascoltare è un’esperienza
[I brani pubblicati sono tratti dal romanzo Occhi dopo la polvere, Marietti 1820.]
di Vito Punzi
3. Ascoltare è un’esperienza
Il profumo del caffè che Marco, appena arrivato, gli aveva preparato, s’era diffuso rapidamente nella piccola cucina di Elia. L’oscura bevanda se ne stava lì, dentro la decorata tazzina di porcellana e immobile, come donna che elegantemente vestita diffonda tra uomini interessati la propria attraente fragranza. Avvicinò la tazzina alla bocca, lentamente, la mano tremolante, impaurita. Poté seguire dunque per tutto il tempo lo spostamento di quell’oggetto. Lo vide pian piano ingrandirsi. Provò, senza interrompere il gesto, a chiudere prima un occhio, poi l’altro, poi entrambi, fino a riaprirli, insieme. Il velo che qualche istante prima aveva reso opaca la sua visione era ormai stracciato. L’esercizio cui si sottopose fu un’ulteriore rivelazione: la duplicità della vista.
“Noi guardiamo con due occhi.”
“E allora?” Marco iniziò a capire: doveva rassegnarsi per un po’ ad avere a che fare con un bambino, con una nuova creatura, sebbene nata adulta.
Elia prese una mela dalla cesta non lontana da lui, e ripeté l’esperimento.
“Se la metto vicino alla mia faccia e chiudo gli occhi alternativamente è come se questa mela saltellasse da un posto all’altro. Come se cambiasse d’aspetto. A ciascun occhio è riservata una superficie di questa mela inaccessibile all’altro. Se la allontano una parte della sua superficie diventa visibile da entrambi gli occhi. Anche se, devo dire, ogni occhio continua a vederla a modo suo. E’ straordinario. Questa mela, o meglio l’immagine che in me si forma, è il risultato dell’unione di due parvenze separate e non coincidenti tra loro.”
Era come se sfogliasse le pieghe della sua memoria, voglioso di dare finalmente risposta a domande, chissà quante, segretamente raccolte in quella vita, ormai prossima ai trent’anni d’età.
“Non avere fretta, Elia.”
“Fretta? Sono le cose che mi si impongono in una maniera totalmente diversa rispetto a prima!”
Si alzò dalla sedia, in silenzio, attento a non provocare il benché minimo suono che potesse coprire o anche solo disturbare il crepitio ovattato delle pesanti gocce che si abbattevano, secondo la direzione obliqua dettata dal forte vento, sul vetro della finestra. Quante volte era rimasto immobile ad ascoltare la pioggia cadere. A volte per ore, quand’era solo in casa, con la paura crescente e impossibile da scongiurare che l’acqua, con la terra lì attorno ormai satura, potesse pian piano sommergerlo. Si avvicinò alla finestra dopo aver chiesto a Marco con un gesto di condividere con lui quell’ascolto silente.
“Ho sentito per un lungo tempo un suono, in assenza di suoni, nel silenzio notturno, come se la terra, correndo per il cielo, emettesse una flebile nota bassa. Ed era continuo, cioè nulla poteva interromperlo.
Ho sentito la manifestazione infuocata e terribile della natura nel fischio e nel fruscio prodotto dall’arrotino, lungo la strada, sotto casa: ‘E’ solo l’arrotino che arrota i coltelli’ – dissero. E mi fecero bere acqua e zucchero, per tranquillizzarmi.
Ho sentito il cupo ululare della sirena, al porto, quando fitta e impenetrabile, mi raccontava la mamma, la nebbia, come vapore emesso dalle enormi narici del grande drago marino, risaliva dal mare ad invadere la terra, la più prossima.
Ho sentito il ticchettare instancabile dei pendoli che abitano il laboratorio di un orologiaio, ognuno con un proprio tempo, ognuno a scandire il proprio tempo, come i battiti del cuore per ogni essere umano.
Ho sentito, altrettanto regolare, il suono ritmico dell’onda di risacca e l’ho ascoltato per ore, accompagnato fino alla spiaggia, quel rumore, saporito e recidivo come lo schioccare di un bacio di mio padre sulla guancia di mia madre.
Ho ascoltato, sorpreso, l’inatteso suono del violino e immobile ho abitato a lungo il selciato di via Saffi, proprio sotto la finestra dalla quale lo sentii arrivare per la prima volta. Sullo stesso selciato ho ascoltato avvicinarsi per poi veloce allontanarsi l’osceno e sgraziato vociare di marinai ubriachi, che immaginavo barcollanti per il continuo spostarsi delle fonti da cui quei suoni venivano emessi, le loro bocche malsane e maleodoranti.”
Fino ad allora aveva vissuto come essere sensibile soprattutto grazie all’udito e alle sollecitazioni tattili. Se prima per identificare un oggetto inodore lasciava scivolare sulla sua superficie le dita e il palmo della mano e insieme muoveva la mano e tutto il corpo, ora l’occhio, come attraverso un raggio luminoso, poteva raggiungere l’oggetto. Finalmente gli era concessa l’esperienza del tocco della vista. A fatica tratteneva i propri occhi, vogliosi di percorrere in ogni direzione quel raggio che avrebbe permesso loro di posarsi, accarezzandole dolcemente o stringendole vigorosamente, sulle cose, che infinitamente numerose, molte più di quanto la sua fantasia avesse cercato di immaginare, si proponevano allo sguardo.
“’Cha fai qui, Elia? Esci e fermati sul monte.’ Avevo sentito questa voce distintamente, ma mi nascosi. Ho sentito allora soffiare un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e dopo il vento un terremoto e dopo il terremoto un fuoco e dopo il fuoco un vento leggero attraversato da un mormorio, appena percettibile. Ho coperto il mio volto con ciò che restava della giacca e dopo essere uscito mi sono fermato, sfinito all’ingresso della mia caverna.”
11. Il mondo è una voliera
Ci vollero alcune estati, perché quelle forme, agli inizi maldestramente cadute sui fogli da disegno e sulle tavolette che il professore le passava, assumessero le sembianze di opera, dunque potessero manifestarsi al mondo dotate di vita propria. Sarebbe bastato un alito a farle muovere, poi un soffio per sollevarle, seppure ancora tremolanti, infine un buffo, improvviso e violento, per lasciar cadere qualsiasi timore. Le loro ali si sarebbero finalmente spiegate. Allontanandosi dal suolo si sarebbero voltate per lanciare verso chi da terra malinconica le osservava un ultimo ironico sorriso.
Nella notte della campagna appena fuori la città di mare, dispersa tra il frumento con i chicchi ormai prossimi alla giusta misura, Barbara aveva contemplato le piccole lune terrestri occhieggianti con la loro luce intermittente. Da bambina i nonni di campagna le avevano insegnato a mettere una lucciola sotto un bicchiere, la sera, prima di andare a dormire, con la speranza che il giorno dopo si fosse trasformata in una moneta. Era accaduto. E mai aveva sospettato che si fosse trattato di una finzione opera dei suoi stessi cari. Ora le guardava diversamente, concentrata com’era sul loro apparente volo zigzagante. Finché una di loro, verme splendente, non andò a posarsi all’interno del calice di un fiore celato dall’oscurità. Rischiarato dalla dolce luce della lucciola, l’interno del fiore s’illuminò improvvisamente, vittorioso sulla tenebra notturna.
Sfrontate e impudiche, le mosche si erano ancor più guadagnate l’attenzione della ragazza. Amanti di luoghi infetti e sudici, l’attrassero con il loro ardire e l’intrepidezza dei loro assalti. Pur di osservarne volo e movimenti Barbara riuscì a sopportare l’insistenza del loro posarsi sul suo corpo alla ricerca di cibo, loro, capaci di nutrirsi di animali putrescenti e di guastare con le proprie uova le sostanze più sane. Loro, spudorate assetate di sangue, create evidentemente per rivelare all’uomo l’inesorabile destino di morte di cui è segnato ogni essere vivente. Ecco perché aveva sentito raccontare anche la storia del Signore delle mosche, il demonio, Belzebù, sempre ricoperto di mosche a causa delle vittime condannate a sanguinosi sacrifici ed a lui immolate. Riaffiorato quest’ultimo ricordo non esitò a scagliarsi con arditezza contro un paio di quegli insetti. Uno straccio ben arrotolato fu lo strumento che decretò la loro morte.
Grida sinistre annunciavano le sere incombenti di quella torrida estate. Un’ombra volteggiava appena fuori la finestra spalancata, vicina, quasi prossima ad entrare, ma sempre pronta a riprendere il largo. Essere a metà tra il topo e l’uccello, mammifero volante dalle ali membranose, impossibile da avvicinarsi nella luce, come avrebbe mai potuto osservarlo, prossimo e con l’apertura alare dispiegata? Anni prima, non troppi, era d’uso inchiodare un pipistrello vivo a testa in giù sopra una finestra dopo averlo portato per tre volte a spasso intorno alla casa. No, non era troppo lontano il tempo degli amuleti. In certi momenti Barbara veniva presa da quel desiderio: abitare in qualche modo quel tempo antico.
“E’ pur abitabile, ragazza mia, ma dovrei condurti ancora a contemplare affreschi giotteschi, ad Assisi questa volta, dove i demoni, principi dell’aria, scacciati da San Francesco, salgono con le loro ali di pipistrello sopra le case di Arezzo. ‘Vele di mar’ aveva chiamato il Poeta le grandi ali di Lucifero Trifronte. E che vento doveva alzarsi al loro movimento! Tanto che Leonardo scelse il pipistrello e non gli uccelli pennuti, come modello della sua macchina volante.”
Ecco infine spiegato il motivo della strana attrazione verso l’animale notturno. Quelle sue ali, che qualcuno aveva perfino preso a modello per farne un pastrano. Nero, d’inverno lo si poteva ancora vedere ondeggiare per le vie cittadine addosso a distinti signori, altezzosi nella loro prossimità alle sembianze della creatura dai denti aguzzi e dalle grandi orecchie. Quelle ali che per puro diletto e viva immaginazione artisti della feconda epoca medievale avevano destinato, oltre che al demonio, ai grifoni, ai centauri, all’aquila bicipite, ai basilischi.
A diradare le ombre e i timori notturni giungeva all’aurora il canto vario e armonioso dell’usignolo. Una riserva di fiato inesauribile in un corpo minuscolo glielo rendeva particolarmente simpatico. Un canto grave, poi acuto, infine gorgheggi, in tutti i toni, intervallati da bruschi arresti. Quell’essere bruno rossiccio sul dorso, timido a mostrarsi, riempiva l’aria del mattino di una letizia diffusa. Il suo volo non poté che restare misterioso e l’immagine che di lui si fissò nella mente di Barbara prese la forma di note musicali padrone dell’aria, annuncio della fine della notte e dell’inizio a nuova vita.
“Il pane e il latte sono pronti. Ti aspetto, Barbara.”
Quella della colazione preparata apposta per lei, era una delle poche dimostrazioni di cura e premura da parte della stanca madre nei suoi confronti. Ed ebbe ancor più valore, quell’estate, perché accompagnata e resa più vera dal canto melodioso dell’usignolo che abitava il loro giardino.
Quella stessa mattina, con l’aria umida e soffocante portata dallo scirocco, Barbara passò tutto il tempo ad osservare il volo apparentemente impazzito delle rondini negli stretti vicoli a ridosso del porto. Rapide si lanciavano dai nidi sotto i tetti verso il selciato per poi cambiare direzione, improvvise, dopo aver dato la sensazione di non poter più evitare lo schianto.
“Che lezione di volo!” s’era detta a voce alta. Aveva già letto di ciò che si raccontava lassù, nell’Europa più fredda, di quell’uccello, del suo lungo letargo invernale. Pare che fin dall’autunno si nascondesse negli alberi cavi o si seppellisse sotto cumuli di foglie secche, come fosse un orso, per poi saltarne fuori a primavera, come Cristo, che risorto esce dalla propria tomba. Architetto ingegnoso della casa, per sé e per i suoi, incapace di posarsi a terra, se non per raccogliervi fango per il proprio nido, piccolo essere con ali appuntite e coda forcuta, ma simbolo potente di purezza, proprio per la sua reticenza al sudiciume terrestre. E tuttavia si presentò qualcuno della sua stessa famiglia, nero il petto, dannato all’apparenza per il suo volare alto e senza sosta, da mattina a sera, dormendo perfino cullato dal suo stesso librarsi per l’aria. Uno stridere acuto che diventò strepito quasi assordante quando il rondone venne accostato dai suoi simili. Seguirne il volo fu ancor più difficile che con le rondini. Tuttavia bastò un attimo per intenderne l’accostamento all’anima dannata, al brancolio inquieto e disperato. Questo era ciò che la tradizione aveva trasmesso, eppure fu lei, quella mattina, a scoprirne il nido, e proprio là, in cima al campanile di Santa Maria della Piazza. Qualcuno forse l’aveva chiamato a vedetta, lassù, dove nulla poteva sottrarsi alla vista.
Vito Punzi – Germanista, ha pubblicato saggi, recensioni e traduzioni dal tedesco presso varie riviste letterarie italiane: Il Verri, Musil Forum, Studi di Estetica, Il Nuovo Areopago, clanDestino. Collabora con il settimanale Il Domenicale e con alcuni quotidiani nazionali, tra cui Libero e l’Osservatore Romano. Tra le traduzioni è da ricordare il recente Carteggio tra Hannah Arendt e Hermann Broch (Marietti 1820). Ha pubblicato inoltre la novella Berliner (NCE) nel 1995 e la raccolta di racconti L’angelo dei campanelli (Edizioni della Meridiana) nel 2002.