Animali magici
di Francesca Matteoni
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La notte la strada si azzittisce. Le case sono giganti in attesa, spiano i lampioni dalle fessure delle serrande. Siedo sugli scalini del portone, aspettando che il gatto rientri dalle sue esplorazioni. Passano poche auto, non ci sono echi dalla via che dalla piazza centrale corre verso l’Appennino, le montagne punteggiate di villaggi, stelle deboli sull’orizzonte irregolare. Dagli alberi e dal campanile qualche grido di rapace notturno, piume, pellicce arruffate sotto i cespugli quando la civetta afferra il topo campagnolo. Dagli orti, dai muriccioli di cinta saltano fuori i gatti, dalla siepe la corazza argentata del riccio, dal campo oltre le reti l’umidità, le lumache, qualche rospo rigettato dai fossi, ogni tanto un animale del bosco, un capriolo disorientato sceso in cerca di cibo, le serpi cieche, sguiscianti, l’orbettino massacrato in gruppo, una sera di maggio da ragazzi, ognuno un sasso, un colpo, per un rituale rabbioso, per gioco, per pentimento poi, nel sonno. Nel buio il corpo è olfatto e udito – quasi tutte le presenze percepite sono le zolle smosse, il taglio dell’erba, polvere d’asfalto, l’acqua che ristagna dopo una pioggia, globi collosi di terra – strepiti, rimescolio di foglie, sbattere di frasche, miagolii, latrati sempre più rari e distanti, che fanno il vento e perfino i pensieri. Tutto è senza parole. Le vite sono rumore da sbrogliare nell’oscurità. Nessuno è solo. Non saprei immaginare un mondo senza animali.
Scoprirli nascosti, meravigliosamente indifferenti. Le anatre selvatiche, dal capo verde smeraldo, che guardavo galleggiare placidamente sullo stagno dietro casa di una vecchia zia. Il sole primaverile riverso nell’acqua come una luce irreale, tagliata dai loro richiami sconosciuti. Immaginavo che un giorno avrebbero preso il volo in formazione verso un paese al di là del mare, dove la vista è vapore azzurrognolo, la curva dell’orizzonte e poi più niente, nessuno. Allora avrei voluto essere Nils, aggrappato al collo di Akka di Kebnekajse, il capo-stormo, vedere la campagna e le montagne diventare una coperta variopinta, mentre salivamo dispiegando le ali. Nils Holgersson era il bambino del nord, trasformato in folletto per la sua insolenza, che attraversa la Scandinavia insieme al papero domestico e ad uno stormo di oche selvatiche. Avrei voluto come lui assistere alla danza delle gru sul monte Kulla, il monte-penisola scavato dalle onde, quando tra tutti gli animali si stabilisce una tregua e si ritrovano come in un sabba stregonesco senza riti di sangue e mostri antropomorfici. Per ultime arrivano le razze degli uccelli. Dal cielo, dall’oltremondo alato che immaginiamo dentro il crepuscolo, le gru danzano la nostalgia per i luoghi che non conosceremo, “dell’inaccessibile, di ciò che è celato al di là della vita”.
La fine della storia mi metteva sempre una vaga tristezza – Akka e le oche si sarebbero scordate in poco tempo di Nils, tornato alla sua normale statura, straniero alla loro lingua. Eppure questo dimenticare era anche un sollievo, lo sentivo che sarei stata dimenticata, che io stessa mi dicevo: “Dovrò sempre ricordarmi di -”, quando mi urtava la gioia, priva di grandi ragioni, solitaria, ma poi tornavano le angosce, un senso brutale di isolamento dall’infanzia fino all’età adulta, così che la gioia potesse deflagrare del tutto nuova, al nostro prossimo incontro.
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Un sabato d’ottobre giravo senza meta per Charing Cross Road. I miei fine settimana londinesi terminavano quasi sempre nello stesso modo, dopo aver trascorso la giornata in qualche parco mi ritrovavo nel West End a vagare tra le librerie. Da Foyles scoprii l’origine di una poesia che amo molto, The Thought-Fox, Pensiero-Volpe, di Ted Hughes. Il libro era una vecchia edizione Faber color arancio, dove erano raccolte una serie di trasmissioni radiofoniche per bambini in cui Hughes leggeva e spiegava testi poetici. Mi misi a sedere sulla moquette accanto agli scaffali ed iniziai a leggere. Per il poeta catturare animali e scrivere poesie costituivano due realtà simili e contigue. Entrambe avevano a che fare con una ricerca, una caccia. Afferrare un corpo concreto, affondarci. Quando verso i quindici anni smise con gli animali, iniziò con i versi: anche le poesie erano una vita da esplorare, separata dall’autore. Da ragazzo Hughes non era mai riuscito ad accudire una volpe. I cuccioli finiti nelle trappole erano stati uccisi: una volta da un fattore, un’altra dal cane di un allevatore di polli. Poi una notte di neve, mentre non riusciva a prendere sonno in una stanza a poco prezzo, a Londra, ecco la sua volpe riprendere respiro, entrare dalla finestra,
Cold, delicately as the dark snow,
A fox’s nose touches twig, leaf;
(Freddo, delicato come neve scura,
il naso di una volpe sfiora ramo e foglia)
trasformarsi nella rapidità del pensiero e tuttavia rimanere se stessa, conservando l’afrore e l’espressione animale.
Then with a sudden sharp hot stink of fox
It enters the dark hole of the head.
(Poi con un improvviso acuto odore di volpe
Entra nel buco nero della testa).
Che razza di volpe è che può avanzare nella mia testa dove presumibilmente ancora siede… sorridendo a se stessa mentre i cani latrano. È sia una volpe che uno spirito.
È la volpe e l’idea della volpe entrambe salve all’interno della poesia. L’animale è la poesia, la poesia ha una forma tangibile e soprattutto un odore. L’apparizione dei versi sulla pagina diventa il modo per riappacificarsi con l’animale, con un senso di stupore e precarietà trasformato in intuizione, nello scarto temporale in cui le cose del mondo si fanno linguaggio.
Rileggendo il testo trovavo inoltre la pienezza, tanto più presente quanto io capivo di non possedere né l’animale né il momento impresso nella scrittura. Mi sembrava di vedere la volpe, libera dalle mie mani, indicare una strada sulla quale non ero dissimile da lei.
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La mia prima volpe risaliva alla montagna pistoiese, durante l’adolescenza, una sera in auto con mio padre, mentre tornavamo al suo paese, percorrendo la Porrettana. Mio padre aveva preso la via più lunga, fermandosi spesso nei bar tra i gruppuscoli sparuti di case, incastrate tra le faggete ed il gelo dei torrenti, le vecchie abitazioni come un interminabile inverno diroccato, i blocchi di pietra grigia aperta in spiragli neri, i tetti di lastra crollati tutto attorno. Eravamo abituati ad incrociare daini e caprioli, che correvano lungo il ciglio della strada, prima di riaddentrarsi nella macchia boschiva. Quella sera invece dalla neve sporca della strada, ci fissava un animale dal pelo rossiccio, che scomparve quasi subito, indietro negli alberi.
“Una faina, no una volpe…” dicemmo, cercando di seguirla con gli occhi nel buio. L’avevamo riconosciuta dalle orecchie e dalle dimensioni. A differenza della faina non avevo inimicizia per la volpe, eppure anche lei poteva scendere nel pollaio, subito sotto il bosco, predare galline e paperi. Quando una notte che i cani erano rimasti a dormire in casa, ci fu una strage sanguinosa di polli, la colpa ricadde subito sulla faina o tutt’al più la donnola, flessuosa e svelta, che poteva scivolare sotto la rete di protezione, sebbene non occorresse essere esperti acrobati, abili e snodati scassinatori per penetrare il casotto di legno del pollame. Nessuno voleva accusare la volpe.
A Londra i miei incontri con l’animale si erano fatti più frequenti, specialmente nei parchi, dove non è difficile vederla al crepuscolo, oppure nei sobborghi periferici, rovistare nei bidoni dell’immondizia, adattarsi. A Saint James Park trotterellava sul retro della caffetteria, noncurante delle persone attorno, in attesa di qualcosa di commestibile. A Battersea Park si era accomodata nella macchia di prato oltre il cancello d’ingresso, semidistesa, guardandoci con fare pigro e annoiato, entrare ed uscire dal suo territorio. Ogni volta provavo lo stesso impulso davanti all’animale, opposto a quello davanti ad un essere umano – cercare di toccare il primo, ritrarsi dal secondo. Poi all’improvviso si era alzata con un balzo, era scappata via, prima che potessi capirne la direzione.
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Come per me, cugina volpe, / ovunque nel suo percorso si volga/ trova luoghi adatti a morire./ (Cerca luoghi mortali), avrei potuto pensare, con le parole di Paolo Volponi (un altro poeta che aveva nel nome la parentela con l’animale), cercando di seguirla in un paesaggio in dissolvenza, un’emulsione del suo corpo, così estraneo e presente. La bellezza della volpe era nella sua fragilità, nelle sue necessità elementari, il modo in cui si piegava all’ambiente senza uscirne abbrutita, portando con sé un sentimento di uguaglianza oltre l’umano.
Non sappiamo parlare di noi stessi senza abbellimenti, senza il retrogusto della grandezza per ogni gesto. E le vite dobbiamo conquistarle, renderle innocue, così solo esse ci consolano – non sopportiamo la loro libertà, che non sia utilizzabile per i nostri scopi, che anzi diventi uno specchio della nostra stessa radicale mancanza di un fine altro, superiore. Eppure nell’animale potremmo riconoscere un compagno che ci rammenti cosa significa esistere, uno spirito fraterno di distanza e di rispetto.
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Di notte la volpe ritorna. Corre sul marciapiede dissestato di Brailsford Road, illuminato da un unico lampione. Ne scorgo appena la coda, le zampe posteriori, le orecchie acute del muso, ma anche così è bellissima, poco prima della curva, verso l’entrata del parco. È a caccia. Striscia sul ventre per farsi invisibile nell’erba della collina, tra le radici venose, rigonfie, quasi braccia in emersione. Sul portone di casa mi fermo euforica, cercando di vedere con la mente i piccoli animali chiusi nelle siepi, gli anatroccoli che spero vicini ai genitori, sotto le ali grigie e nere delle oche ai bordi dell’acqua. Il sonno degli animali è vigile. Come sarà cambiato domani il loro mondo? Sarà ancora viva la volpe, scampata ai fari, allo stridere delle auto? Sarà sazia e ben nascosta? Sotto gli assi di un capanno per gli attrezzi? In un buco dietro il supermercato? In un vecchio platano, in un mucchio di foglie? Lei non sa niente di me. Mi sfugge sempre ad ogni incontro. Sparisce dove io non posso andare.
Sono entrata nel brano come in una bulla d’aria. La scrittura murmura brusio della natura, vita minuscola animale, sorgente notturna della vegetazione abitata. E’ molto bello: ho l’impressione di essere sulla soglia della natura, del bosco e di aprire il mio corpo.
” Non saprei immaginare una vita senza animali.”
E il volpo! Un animale che sogno di vedere nella campagna picarda. Il volpo trascina nei boschi, ma non ho mai visto l’animale rosso e sottile.
Inizio appunto l’anno scolastico con Le roman de Renart.
Il testo diventa poetico con la presenza strana del volpo come smarrito nella città, un volpo che sembra prendere forma dalla poesia di Ted Hughes.
Grazie per la scrittura sortilegio.
sono qui a bermi il caffè di metà mattina, poi torno in campagna a fare.
è molto bello questo post, molto. lascio da parte la stupidaggine del mio tono solito, quello da ‘mbriaco o finto tale per abbracciare la condivisione.
io sono un individuo molto fortunato.
per tutta una serie di cose che non sto qui a snocciolare. mi sarebbe sempre piaciuto scrivere una cosa simile su tutto ciò che mi circonda ma mi manca la vena da letterato e quindi…..però ho deciso che questo post lo stampo perché è come vorrei aver scritto io delle cose che mi circondano anche se non ho mai visto la volpe anche se, in pianura, dicono che girano eccome.
pur amando natura e animali l’unico animale di cui non parlerei mai nei termini di questo post, è la nutria. povera, non per colpa sua, per carità ma è un essere che fa proprio schifo e per il quale provo un disgusto che non si può dire.
tanti anni fa ho letto la storia di Akka di Kebnekaise, oca selvatica capostormo, nella trasognata scrittura di Selma Lagerlöf, davvero un altro mondo; anche il tuo scrivere e ricordare e ricostruire di volpi e donnole è trasognato, e assai bello.
Anche tu di Pistoia, uh!
Una volpe ci attraversò la strada, ero con amici, qualche anno fa. Non c’era neve. Sopra un paese. Non ancora montagna. Non sulla Porrettana.
Ma neppure lontano da lì.
:-)
Grazie a voi per i commenti! La storia di Nils è uno dei libri che amo di più.
@bev: ma povera nutria! mi hai fatto pensare che c’è un poeta pistoiese che nel suo libro d’esordio come animale ha scelto proprio la nutria, proprio perché sempre molto disprezzata. Io comunque non resisto alla vista delle lumacone senza guscio, mi vengono i bordoni.
@andrea allora ci dobbiamo incontrare! che bello un lettore pistolese di NI!
Si dice “furbo come una volpe”. E mi ricordo la sigla del cartone animato di Re Artù e i cavalieri della tavola rotonda, che ad un certo punto diceva…”Lancillotto, furbo più di un gatto….” e mi è sempre rimasta in mente. Ah, la rima. La volpe, sempre cartone animato, ma dall’altra parte del mondo (rispetto al precedente, anche se sono molto vicini, in fondo, Giappone e USA), era Robin Hood. Ma niente. Così, tanto per dire. Scusa.
@ Francesca
Un lettore pistoiese, sì.
Magari ci becchiamo, una volta, sì. Dovrebbe essere facile, credo. La mia mail, bah, gordian3chiocciolinagmailpuntinocom. Così. Vabbé. Ciao.
Un altro bellissimo post di Francesca, grazie mille.
E ora tocca pure a me scrivere della volpe.
La mia la incontrai che ero piccolo, in villeggiatura in montagna nella casa dei nonni sull’appennino tosco-emiliano. Stavamo andando a prendere il latte appena munto, mia sorella, mia cugina ed io; lungo la strada un campo recintato col filo spinato e attaccata a quel filo, le carni lacerate, una grossa volpe.
Quando ci vide cercò di scappare, tirando la zampa impigliata negli auclei di ferro, facendosi male da sola pur di evitare il contatto con l’uomo.
Chiamammo i nostri genitori, dicemmo loro della povera volpe presa nel filo spinato credendo con innocenza che l’avrebbero liberata.
Invece la uccisero. In montagna non c’è posto per la pietà da libro Cuore e una volpe libera è un animale che mangia galline e papere.
Grazie, Francesca, per avermi restituito una parte della mia memoria.