Baciami, Marte
di Maria Cerino
Non è che possa gettarla lì, lanciarla tra le due macchine parcheggiate proprio sotto la sua finestra, infilare le mani tra le serrande abbassate e i vetri che riflettono dentro la stanza il raggio dei tre quarti di mattinata, la mela. Alle quattordici e sedici – l’ora gliela scandisce a suoni di bip la sveglia elettronica a metà del comodino – tiene ancora il volto alto, aspettando dietro i buchi delle tapparelle che quella luce più forte le riappaia; ma è tranquilla, nel pomeriggio al massimo c’è il sole e nessun altro inganno. Poi, capita che giunta notte, con le lampadine che si spengono disordinatamente (sa, oramai, che Marta resta a leggere in salone mentre Giacomo si ritira a dormire) una macchina attraversi il viale vicino, svolti ad U e le punti i fari in faccia, allora si copre gli occhi grandi con le dita, Maria e conta fino a sei prima di riportare le braccia ai fianchi e intravedere dell’auto nulla di più del cofano, abbastanza in lontananza. Si è abituata ai rumori difficilmente percepibili: se una mosca le ronza intorno è lo stridio della sedia nell’appartamento di fronte ad infastidirla. Non che riesca ad ascoltare qualcosa di vivo in casa; l’ultima volta sono state le urla della madre a strapparla dai tre passi della sua attesa, “I ladri, i ladri! Mariaaa!”. Lasciando la porta aperta l’aveva raggiunta, la madre. Dall’altro lato della casa aveva premuto l’interruttore della corrente per dimostrarle ancora che nessuno le stava portando via nulla; le aveva visto nell’espressione del viso un altro terrore, diverso da quello dato dagli estranei nella propria abitazione ma identico a quello che le aveva coperto lo sguardo due o forse tre mesi prima: “Cosa ti è successo? I capelli, la pelle, gli occhi?”, l’aveva tirata via con un calcio, e inciampando nei vestiti dimenticati frettolosamente sul pavimento si era poi ritrovata sul letto, davanti alla sua finestra ricordando di quella luce di cui sapeva tanto poco raccontare.
Inizialmente, durante i primi giorni di coscienza, quando la madre (Rita, si chiama Rita) le portava da bere, – non da mangiare temeva che non avesse più i denti per masticare sotto quelle labbra sottili e tirate cianotiche come neppure le ore nell’acqua del mare – evitava di voltarsi, si reggeva il risvolto stropicciato delle lenzuola fino al naso, strisciando sotto più sotto che le riusciva. Non le era sempre facile portarsi la tazza alla bocca in quella posizione, faceva, allora, come con il coniglio se si rifiutava di bere dal beccuccio dell’erogatore, bagnava i polpastrelli delle dita e glieli lasciava leccare: lei succhiava i suoi, sapeva che le forze non avrebbero concesso oltre due viaggi, andata e ritorno, alla mano per inzupparla del latte caldo o del succo di mirtillo. Provava comunque a raccontarla la storia, strappando le sillabe alle parole, sola come restava in mezzo alle pareti. Cominciava sempre dalla luce, “è la prima e l’ultima cosa che so di ricordare”, poi lenta, lentamente arcuiva la schiena e sbirciava per qualche istante – il tempo di ricadere combattuta sul materasso – tra la metà della finestra aperta, prima che Rita facesse montare nuove serrande, “Se tornano a riprendermi non potranno vedermi”, aveva sussurrato Maria, “e non devono vederti”, aveva concluso Rita tirando a sé la maniglia della porta.
Ora si strofina con le mani le ginocchia, misura lo spessore della pelle perché i giorni le stanno portando via le cicatrici: non sente i segni delle cadute ripetute dalla bici quando di anni ne aveva sette – ne ha venticinque -; inginocchiata sotto al davanzale si affida all’ombra delle mura bianche che ha di fronte per catturare la luce e riacciuffare per i capelli la bellezza; come quando nei pomeriggi d’agosto, dopo il bagno, tornavano correndo nella villetta sul mare e ancora con l’acqua addosso, a stille tra le giunture, Marco le spostava il costume e mentre con una mano si reggeva ai fianchi con l’altra le tirava indietro il collo e lei davanti al balcone spiava nei riflessi la propria faccia.
Dovranno tornare. Mi riporteranno il mio manto di pelle, le sopracciglia, la carne delle labbra e dei seni, i miei lunghi capelli, si dice. Sente, infine, muoversi nello stomaco qualcosa, pensa che è tardi che ancora non ha mangiato la mela, il suo pranzo. Non ha fame, non che sia l’attesa della luce a provocarle inappetenza. È altro, forse il ricordo dell’ago che le trapassa la schiena, quel discreto dolore di cui intuisce l’intensità quando impiega troppo tempo a sedersi. L’ago dalla punta doppia, il lettino, la posizione supina, di fianco, la lampada puntata in faccia e poi il sonno.
Dell’estate non sente niente, neppure gli odori; soprattutto, però non sente il sudore. Quando, dopo aver troppo sfregato la gamba con l’altra gamba, le vengono delle bolle grandi, prende uno spillino e le buca, si alza in piedi e chinando il capo osserva il liquido che scorre giù fino ai piedi. E si ricorda del sudore, e sente l’odore dell’estate.
Pensa di averlo letto solo a metà quell’articolo di esobiologia, la testimonianza della donna obesa travolta da un fascio di luce ritrovatasi, dopo pochi minuti di trance, snella con qualche punto di sutura alla schiena, il titolo era (è certo) “Rapita dai marziani: mi sono risvegliata bella”. Non riesce a scovarla la rivista; la finestra rimane con le serrande abbassate ma i vetri spalancati. Maria tende il braccio, prende il flacone di Glivec* e mette in bocca le ultime due compresse. Ha le cosce accavallate, tra le serrande si allungano i fari di un’automobile, porta le dita davanti agli occhi; anche stasera Marta non ha ancora finito di leggere, Giacomo nell’altra stanza dorme.
* Farmaco utilizzato per la cura di Leucemie Mieloidi, come chemioterapia per via orale.
*
Maria Cerino è nata a Salerno nel 1984.
Pubblicista, scrive per “Cafebabel.com la rivista europea”.
Scrive e conduce una rubrica sui libri per la webradio Unis@und.
Un bello e duro racconto. Il personaggio è illuminato da una luce crudele, violente. Il corpo è in sofferanza. Il brano che evoca la difficultà di bere è di una bellezza terribile: i gesti sono analizzati, accaturati dall’impotenza. Il personaggio diventa un piccolo animale tributario dalla madre. L’estate è la stagione crudele del corpo, come la notte, perché tutto raggiunge una solitudine, una verità smagliante difficile da sopportare. L’anima anche è prigionera della violenza.
Una frase racconta: ” mi riporteranno il mio manto di pelle, la sopracciglia,
la carne della labbra
e dei seni, i miei luhghi capelli.”
lunghi
Andrea, spero ritrovare spesso i tuoi post su NI.
Tu manchi.
così giovane e già così brava, accidenti…volevo dire complimenti ;-)
@ Andrea vorrei chiedere scusa se approfitto della sua solita bontà per deragliare, come al solito, ma dal momento che nel post di Saviano non si può commentare e non ho la sua mail e non so come altro fare, lo faccio qui:
grazie, Roberto.
Mangiatore di fuoco, la tua lettera al petrolio bianco, ci brucia.
Non so rispondere alle tue domande, ed è per questo che non ti scrivo una lettera. (e rispetto il divieto di commento)
Però vorrei inviarti una cartolina d’auguri, anche se in ritardo, per il tuo compleanno. Chi nasce da queste parti, come sai, deve lottare la maggior parte del tempo con la parte di sé più (auto)- distruttiva perché l’obiettivo del perdente radicale, come scrive Enzensberger, è di rendere perdenti il maggior numero di persone e molte di queste, molte di noi, se anche volessi e potessi salvarle, probabilmente non vorrebbero. e non puoi farci proprio niente. ma questo non vuol dire, questo non deve impedirti di proseguire, di ostinarti, di parlare anche ai muri, perché per molte, molte di più, tu sei la sola speranza, la nostra rabbia, la nostra voce. e, dopo tutto questo tempo, ancora stai lì a rimanerci male per tutte le maldicenze, l’invidia, l’ostilità? “predestinato a un’orbita di stella/ cosa t’importa, stella, tutto il buio?/ […] solo Una legge hai: essere pura” . e le bare sui muri, lasciale stare, o fattene una tag come hanno fatto cyop &kaf sui muri del centro storico di Napoli, con la vernice colorata. e pensa invece solo a scrivere così, per tutti noi. ad infiammare gli animi. a bruciare.
e allora buon compleanno, anche se in ritardo, e ti
“Saluto grido rauco
torcia di resina
in cui si confondono le piste
delle pulci di pioggia e i topi bianchi
Pazzo da urlare vi saluto con le mie urla più bianche della morte”
(da Aimé Césaire)
grazie Roberto
(e grazie Maria Cerino e grazie Andrea, se non mi cancellate)
Un caro abbraccio a tutti
GRAZIE MARIA,
Anch’io ho rispettato il divieto di commento. Leggendo l’articolo, ho sentito un’emozione terribile; una pena entrata nel mio cuore. Non sono di questa terra, ma l’amo, è come una vibrazione, un canto disperato che attraversa la frontiera. Chi vive della parte della sua terra, puo sentire la voce di Roberto Saviano.
Vorrei più d’amore per la terra del sud, più d’amore e di coraggio.
DI SPERANZA.