Perturbante
Blob. Bombe e veline appagano a sufficienza le mie voglie catodiche. In basso scorrono già i titoli. Ho fatto tardi anche stavolta.
La tv s’oscura appena, poi sullo schermo compaiono loghi istituzionali vagamente familiari. Una musica soave, il volto rassicurante di Gianni Minoli, il proiettore che si aziona.
Il cielo è viola di tramonto, vecchie barche davanti a un porticciolo. Sulle barche intere famiglie indicano una casa in lontananza. Il cono di luce investe un muro di calce e l’immagine prende vita, dominando un meraviglioso drive-in marittimo, nuovo cinema paradiso. Chiudo gli occhi e mi bagno nei ricordi, nelle sere oziose della scorsa estate in Sicilia.
Il solito caldo d’inizio agosto. Vampe sulle colline, gommoni al largo di Malta.
In città un traffico indolente, sparuti turisti e motorini ronzanti. Il mare è calmo, il cielo è basso, si sta alzando lo scirocco. All’improvviso una notizia rimbalza dall’ombrellone dei Cutò a quello dei Butera: il sultano sta attraccando a Palermo.
Maria Cutò, insegnante del Liceo Verga, dice che arrivi per risollevare il Meridione. La sua amica Francesca, dice che sia venuto a salutare il nuovo presidente della Regione. Tanina Butera, fruttivendola dice che abbia sette mogli e quaranta figli; suo marito è sicuro che voglia comprare la squadra di calcio.
Turi esagera, come al solito: il sultano cerca petrolio, vuole armi. C’è chi parla di Mafia e Antimafia, mentre Don Caruso sospetta di Bin Laden e suo compare dell’annessione all’Oman.
I politici locali si preparano all’evento, ripuliscono le strade dello shopping e le piazze di rappresentanza. La città rispolvera fasti nobiliari, si prodiga e millanta.
Approda il primo panfilo ed è subito febbre del sultano.
Sulla banchina del porto il fronte di telecamere e cellulari alimenta il mito: venticinque Mercedes e tre Limousine, il jet e l’elicottero. Turi è entusiasta, favoleggia harem segreti, feste da milleunanotte e documenta tutto col suo nuovo palmare. Francesca giura di aver visto sua maestà assaggiare la cassata; a sua sorella, poi, commessa in un negozio del centro, ha lasciato mille euro di mancia.
All’arrivo del secondo panfilo i concittadini s’accalcano sulla banchina alla ricerca di un dignitario, un servitore, un mezzo ministro o portantino che possa benedirli, concedere qualche spicciolo. Le famiglie Cutò e Butera si appostano fin dal mattino, schierano le sedie, sfoderano la pasta al forno e si accaparrano le prime file. La famiglia Pirrotta – zio, zia, madre, padre e neonato – rimane senza posto e s’arrampica su un container. Il padre spera in un posto alla Regione e aiuta la nonna devota a montare sul tetto d’acciaio infuocato per invocare la grazia del nuovo patrono.
All’ultimo giorno del sultano a Palermo, trapelano indiscrezioni sui progetti dell’Oman: Maria parla di ospedali e scuole vicino Bagheria e litiga col fidanzato Turi, che invece sa di grattacieli e campi da golf a Brancaccio.
La serata finale è suggellata da una cena di caviale e cannoli offerta dal sultano in località segreta. Francesca vuole esserci a tutti i costi. Inizia il giro di telefonate e soltanto la soffiata della cugina, all’ultimo minuto, detta le indicazioni. Parcheggia la Smart e avanza verso il cancello dentro un vestito vogue e tacchi a spillo di paillettes. All’ingresso, però, viene bloccata da un rozzo energumeno del posto. Francesca non si dà pace, strepita e supplica: ogni tentativo è respinto. Si siede in disparte, accende una sigaretta e piange. Don Caruso si avvicina, asciuga le lacrime di rimmel e butta l’occhio nella scollatura. Poi le sussurra qualcosa all’orecchio e urla verso il cancello. Il buttafuori corre a giustificarsi come un bambino dal preside e Francesca può fare il suo trionfale ingresso, sotto il braccio cortese di Don Caruso.
Intanto, in città, un concerto di gala ringrazia il popolo per la calorosa accoglienza. La banda reale dell’Oman si dispone sulla scalinata del teatro Massimo e intona Ciuri Ciuri, Vitti na crozza, Funiculì Funiculà. Tanina sospira estasiata, sono bravi sti turchi, pare Sanremo.
Il popolo ama il sultano e lui ricambia staccando un assegno di cinque milioni per l’Ospedale dei Bambini. Dal palco si leva ‘O sarracine,la piazza esulta. In cielo è tutto un fuoco d’artificio.
Distendo le gambe e penso a un libro letto anni fa, “Il sultano di Palermo” di Tariq Ali.
Penso alla mitica isola d’un tempo, arabi a braccetto dei normanni, idillio di mosaici e giardini. Mi viene da ridere, cerco il telecomando.
Sotto colori dell’esotismo…
Mi ha fatto pensare al teatro di Molière: le bourgeois gentilhomme, dove il ridere viene del protocollo ridicolo, della ingenuità del bourgeois gentilhomme divorato della sete dell’esotismo, del lusso, dello splendore.
Il miraggio blu o viola fa dimenticare la miseria culturale di una terra.
Il popolo possiede solo il potere d’immaginare, non di gustare…
in effetti, l’episodio del munifico sultano che approda col suo panfilo nelle terre del sud (anche in puglia, credo) col suo carico di speranze, è qualcosa che sta fra l’onirico e il grottesco, e meritava di essere raccontato, come ha fatto bene schillaci, soprattutto dal punto di vista dei comuni mortali che si accalcavano sul pontile.
Con un’ironia sottile riesci a cdipingere esattamente quei giorni estivi a Palermo
Bravissimo.