Face Bunker
di
Davide Vargas
Questa sera sto bene.
Larissa ha appena pulito la casa. E’ un armadio la vecchia Larissa con i suoi occhi del colore dell’acqua, appena mette piede fuori di qui accende una sigaretta che divora come fosse un gelato. Poi sale in bicicletta e spinge sui pedali forsennata. Viene da una terra fredda ed è sempre sbracciata. I muri sono bianchissimi rinfrescati dai pittori padre e figlio che in una settimana hanno spostato mobili srotolato teli trasparenti grattato le pareti tinteggiato e rimesso a posto. Piccoli e magri come folletti, il figlio orecchini e tatuaggi, diffidenti verso le linee moderne della scala neanche un ferro battuto un giglio dicono, hanno forza e tecnica. E un altro lavoro. Ho riattaccato l’ultimo quadro, l’oscillazione di un pendolo che lascia tracce come i filamenti luminosi di Turrell, e mi sembra tutto nuovo. Il pavimento di graniglia giallo si distende come un tappeto.
La scatola di cartone è uscita da un armadio dimenticata. Sono solo, è un buon momento per rivedere le diapositive conservate e già sistemate nei carrelli. Si tratta di spolverare prima, montare il proiettore sul cavalletto, proiettare. Si può fare. Con un bicchiere di birra.
Eccola casa Savoye. Le immagini scorrono impastate di un alone opaco che trent’anni hanno impresso sulla pellicola.
Non importa. Io ho gli occhi nel tempo.
I piloni di pont vieux emergono dalla Senna e si specchiano in un omologo come iceberg dorati. Sull’acqua si riflettono le macchie delle nuvole sparpagliate e il nulla che fu il ponte. Poissy sembra deserta nel caldo di questo agosto. Guardo l’indirizzo e mi avvio per una strada in salita. Di qua e di là solo campi e alberi.
Alla Gare de Lyon ho comprato un giornale italiano. Oggi è morto Elvis a 42 anni e due giorni fa dal Celio è scappato Kappler rannicchiato in una valigia. Stronzate. Circostanze misteriose dicono, per entrambi. I pioppi sono bellissimi. Sembrano corde di metallo che suonano. Vado avanti mentre la strada si incurva, sono sudato, mi sembra di scalare una montagna del tour. Chi l’ha vinto quest’anno? Thevenet. Una mezza figura.
Sono eccitato come questo cielo francese ripulito dalle nuvole di poco fa, azzurro, insolito. Lontano parente del pallido cielo parigino.
Dopo il curvone dovrei esserci.
Il cancello bianco è incastrato nel fogliame che ricopre tutta la recinzione.
Cazzo è chiuso. Il cartello dice che stanno facendo manutenzione. Ho fatto duemila chilometri per il buco della serratura. Infilo la mano tra le sbarre e trovo lo scrocco. Il cancello si apre. Il vialetto in terra battuta è invitante, non so, vengo da una terra dove le porte sono chiuse a chiave e non si entra impunemente da nessuna parte.
Invece mi incammino. La casa del giardiniere è la prima cosa che vedo, una scala sale ripida verso la porta coperta da una pensilina sospesa. Al muro è poggiata una bicicletta come nelle fotografie che ho studiato sul libro.
La villa è là. Bianca. Una cosa continua come un nastro. Planata nella radura rigonfia circondata dagli alberi. La vista sulla vallata della Senna, forse quella macchia nera laggiù è la foresta di Saint Germain. Come sulla cima del mondo. Sorretta da pilastri bianchi e sottili. Tra essi compare la donna. E’ uscita da una porta rossa e viene verso di me. Minacciosa. E’ un mostro e fa paura. Ha una testa enorme con un bitorzolo sulla fronte. Si poggia ad un bastone. Un corpo massiccio sbilanciato da una gobba appuntita. I capelli radi.
Voglio solo visitare la casa. Mi invita ad entrare con un movimento brusco. Inaspettatamente dolce.
Le diapositive scorrono. Questa sera si possono aprire le finestre. Ha piovuto. Non bruceranno i mostri di qui dai volti ineccepibili l’immondizia nella campagna dietro la piscina. Le coppie nelle macchine foderate di giornali parcheggiate sul ciglio del tratturo che si allontana dalla strada con i lampioni verso un reticolo di capillari spersi tra i frutteti si baceranno e faranno l’amore in un’aria più innocente. Le impalcature dei peschi tutt’intorno sussultano sotto i colpetti del vento e sembrano poi rilassarsi. Forse in questa notte umida qualcuno toglierà i giornali.
Accendo le luci del giardino.
Chi è questa donna, il gobbo di Notre Dame, Belphégor, io la seguo. Ha una montagna di carne sulle spalle. Sotto il peso le scarpe di pezza scricchiolano sulla ghiaia.
E’ incredibile, sono nell’architettura.
E’ stata saccheggiata e abbandonata durante la guerra dice la donna, poi uno scrittore comunista l’ha salvata, volevano demolirla e l’ha dichiarata monumento nazionale e dieci anni fa è stata restaurata. Respira a fatica. Ansimano i suoi polmoni. Non del tutto, c’è ancora da fare. Capisco il senso delle parole straniere. Ci sono i panni stesi al piano terreno dove i lavori sono in corso.
Salgo su una rampa docile, ora la donna è dietro di me. Mi volto. Con uno straccio umido pulisce il corrimano dove io ho posato le mani. Il gesto di una principessa. E’ come un cane questa figura. Capace di amare la casa come solo i cani sanno fare con gli uomini. Senza l’attesa di una ricompensa.
Ho vent’anni e tutti i miei sogni. Volano veloci verso sponde al di là di un qualsiasi mare. Dove costruire cose. Edifici per pensieri nuovi. Qui succede, pensieri di elevazione. Non proprio pensieri, ma un’accensione nella pancia, un languore indefinito. Qualcosa di diverso. Costruire edifici per gli uomini. Per la coscienza degli uomini nel dominio della semplicità. Libera. Che sogni galleggiano nel cranio di questa donna, nelle nicchie dei bitorzoli, sogni di ponti lontani cupole dorate prati di violette soli dell’estate, forse. Sogni di altrove che è tutto sotto i miei piedi premuti sulle piastrelle di cemento.
Ho addosso jeans scoloriti, un velo di barba, i miei amici sono partiti verso il freddo, il capo dove la terra finisce tra alberi solenni alla ricerca della libertà. Io non sono andato. La libertà è qui ed ho una guida dal volto deforme. Rovesciata come queste vetrate aperte verso nord. Uscita da un disegno carnoso di Le Corbusier, coerente. Plausibile. Il profilo sullo sfondo della vetrata, gli alberi, un uccello, il naso grosso, la bozza sulla fronte, un profilo puro nella luce, come se solo un cuore mostruoso potesse respirare vita a un’idea risparmiata dalle fauci dell’onda. A una bellezza.
La luce è dappertutto. La casa la cerca affamata. E si apre. Tutt’intorno, come un fiore. E in alto verso il cielo. Dove mi porta la rampa, in una stanza senza soffitto con muri che ci abbracciano come note.
La donna sistema una tenda. Sta rimboccando una creatura.
Il fascio del proiettore è bianco sul muro. Mi alzo e vado verso i vetri. Oltre c’è il giardino, il ciuffo di peonie, il bordo di limoni verdi che in questa stagione soppiantano i malloppi gialli e vuoti. Oltre, i condomini in fila uno vicino all’altro, le scuole, i campi di tennis, la piscina. Si chiama zona residenziale. Poi la città finisce. Non è così. Le campagne con i filari di viti che questo autunno afoso spoglia in ritardo resistono sfinite negli interstizi della maglia intricata di case scaricate sul terreno e si ritirano inesorabilmente come i panni bagnati. Frammenti di vetri fratturati ovunque. Oltre ancora, case bunker, muri di cemento nudi, portoni in ferro, finestre sbarrate, passaggi segreti, porte blindate, occhi di telecamere puntati. Le cose cambiano, un tempo erano cortili, teatri per uomini e donne che bevevano il caffè sulle sedie di paglia, gli sguardi rivolti alle campagne aperte dietro le case. Nelle strade uomini in tuta mimetica imbracciano armi. Ancora oltre, alla fine della lunga strada costruita dagli americani, oltre la discarica e i campi di pomodori, al di là della pineta e delle dune di sabbia trafitte da cocci di bottiglie, la linea del mare sudicio e un rivolo di sangue nero fino alla sartoria.
Qui c’è il mio giardino, la mia casa, muri spessi, protettivi. La mail, il telefono, si può comunicare con il mondo. La parte migliore del mondo mi dico, disseminata qua e là. Tra me e loro chilometri di aria. Strade lampioni insegne scoli alberi tagliati piazze tralicci di cavi elettrici l’ombra del cavalcavia sulla sedia dove la puttana bambina aspetta clienti canali centri commerciali sempre più grandi serre tirate sul tabacco brunito macchine agricole spruzzi d’acqua sugli alberi di pesche banconi pieni di tazzine di caffè semafori cartelli attenzione uscita automezzi vista su paesaggi lontani pale eoliche ruderi di casini montagne morsicate dalle cave orme, distanza di sicurezza. E invece no. Preme questo cubo d’aria come un maglio. E spinge tutti nei propri solitari bunker.
Una casa immaginata dal ricordo francese. L’architetto viaggia tra due paesi, due cieli, due paesaggi.
Il cielo parigino descritto benissimo; lo riconosco attraverso i colori, blu pallido, blu lucido, blu gelido. E la Senna si prende nello sguardo straniero che dà magia al paesaggio, il dorato antico e gelido dell’acqua, la fata che custodisce la maison à Poissy.
E’ la grazie dello sguardo che mi fa ritrovare incanto al luogo di vita. Vedo il giovane uscire de la Gare de Lyon, con un sorriso, perché la gare de Lyon fa parte ormai della mia geografia di cuore. (Il treno di 14 ore che se ne va verso Torino o Milano, gare de Lyon con due luoghi per aspettare la partanza; quella per Milano piccola e affollata, con il cielo aperto; io faccio elemosina di qualche parole in italiano).
La terra natale dell’architetto è in guerra. Lo vedo ora, in un paesaggio di sacrificio, chiuso nella camorra.
Un paesaggio di alberi che muoiono in pieno cielo.
Fa male la finestra aperta, con il sogno dentro il cuore dell’architetto, fa male come un rimpianto dell’oblio, dell’oblio di una terra vicina e ammalata.
Bel testo grazie a effeffe per aver postato.