Autismi 1 – Il mio lavoro
[Comincio oggi la pubblicazione, che salvo imprevisti avrà scadenza bisettimanale, di una serie di racconti inediti di Giacomo Sartori. a. r.]
Il mio lavoro consiste nel fare dei buchi nella terra. Delle buche grandi e profonde, in cui ci entra comodamente una persona. Poi appunto ci entro dentro. Mi ci seppellisco, si potrebbe dire. Però a differenza di un vero seppellimento nessuno poi aggiunge della terra tra me e il buco. Contrariamente a un vero funerale posso muovere le braccia, posso respirare come voglio, posso venire fuori quando ho finito. Posso guardare un rettangolo di cielo, posso parlare, posso urlare la mia gioia, ammesso e non concesso che abbia della gioia in sopravanzo. Il mio è un seppellimento temporaneo, reversibile. Quando ho finito esco, e torno a casa mia. E poi comunque a differenza dei morti veri e propri non mi sdraio, sto in piedi. È raro che i morti stiano in piedi. Che io sappia succede solo in certe civiltà del passato.
Di solito le mie buche non le faccio nei cimiteri. Anzi, cerco di stare un po’ lontano dai muri perimetrali dei camposanti, per rispetto del sonno dei morti. I morti mi attirano ma anche mi respingono, come quelle persone che ammiri ma con le quali non ti viene naturale di attaccare bottone. Dormono della grossa, e nello stesso tempo vorrebbero parlarti: preferisco mantenere le distanze. Forse ai morti non interessa nulla che io faccia il mio buco vicino o lontano al muro di cinta, io a ogni buon conto cerco di stare un po’ discosto. Una volta però mi è capitato di fare un buco nel bel mezzo di un cimitero. Io non sapevo che fosse un cimitero, altrimenti sarei andato più in là a fare il mio lavoro. Non c’era nessuna recinzione, nessun segno apparente. Mi sembrava una collinetta come un’altra, un posto adattissimo per una delle mie fosse. E invece era un antico cimitero musulmano. Quando l’ho capito ho continuato, perché ormai avevo cominciato, e tanto valeva finire.
Mi pagano, per questo mio lavoro. Non tanto, ma insomma ci vivo. Ormai sono venticinque anni che faccio delle buche e ci entro dentro, ho il mio giro. All’inizio facevo un po’ fatica a trovare dei clienti, poi un po’ alla volta le cose si sono sistemate. Se uno il suo lavoro lo fa bene la gente poi lo cerca, è comprensibile. E io mi sono sempre sforzato di fare le mie buche meglio che potevo. Le mie buche sono considerate delle buche da vero professionista, spesso ricevono dei complimenti. Lo dico con molta modestia, intendiamoci.
I miei conoscenti stentano a capire che lavoro faccio. Io cerco di spiegarlo meglio che posso, perché mi piacerebbe che avessero un’idea dettagliata della mia attività lavorativa, visto che per me è tanto importante. Ma dopo un po’ constato che hanno perso il filo, e lascio perdere. Mi rassegno al fatto che diano per scontato che voglia nascondere qualcosa. Sopporto che quando per caso viene fuori il discorso facciano un sorrisetto di connivenza, come se sotto al mio lavoro ci fosse chissà quale mistero. Mia moglie pensa che succeda così perché non so spiegarmi bene. Non lo dice chiaramente, ma io lo leggo nei suoi occhi glaciali da husky. I suoi occhi glaciali da husky dicono che se io mi spiegassi a dovere tutti capirebbero in cosa consiste il mio lavoro. Quel che è certo è che solo quelli che mi sono più vicini hanno un’idea un po’ più precisa di quello che faccio. Ma sono in tutto un pugno di persone. E comunque anche loro non hanno poi le idee tanto chiare. Hanno afferrato qualche principio di base, ma per molti versi brancolano nel buio. Siamo ancora lontanissimi dalla intrinseca complessità dei miei buchi.
Mio fratello per esempio è convinto che venga pagato per stendere un metro da falegname su una delle facce della mia buca, la più bella, e poi immortalarla per sempre utilizzando il flash. Questa è una visione molto distorta del mio lavoro, perché è vero che tutte le mie fosse le fotografo, ma in nessun modo si può dire che l’immagine fotografica sia l’essenza della cosa. Ci sono un’infinità di altre piccole azioni altrettanto essenziali, altrettanto importanti. Sarebbe come sostenere che un’automobile serve per andare tra le spazzole del lavaggio automatico. Certo ogni tanto si porta l’automobile al lavaggio automatico, ma in realtà l’automobile serve anche a molte altre cose. Mio fratello non si smuove però dall’idea che il fine del mio lavoro sia la foto con il metro da falegname. La sua è una visione tremendamente riduttiva, per non dire offensiva. La tipica visione da fratello maggiore che anche se ormai gli anni sono passati e le rughe sulle facce diventano sempre più fitte pensa di avere sempre ragione lui.
La mia è un’attività molto solitaria, perché nei buchi che faccio c’è posto per una sola persona. Qualche volta, soprattutto quando il buco lo scavo il pomeriggio, e poi sono costretto a rimandare la fine del lavoro al giorno dopo, nella mia fossa trovo qualche essere vivente. Ma non si tratta mai di esseri umani. Sono piuttosto dei coleotteri prigionieri del loro scudo di chitina, una lucertola spaurita, il musetto appuntito di una talpa. Lunghi lombrichi mollicci e depigmentati, corti lombrichi scarlatti, minuscoli vermi trasparenti che lasciano impudicamente vedere la terra ingerita. Una volta un aspide mimetizzato nella terra sabbiosa, pronto a uccidermi. Io in qualche modo questi esseri viventi li faccio uscire da laggiù, perché non voglio fare del male a nessuno, e tanto meno desidero che restino poi sepolti quando richiudo la buca utilizzando il mucchio di terra che attende accanto allo scavo. Mi sembrerebbe crudele, e del tutto illegittimo, che io condanni degli esseri viventi a essere sepolti vivi. Non sono un efferato despota, sono un indagatore di buchi scavati nella terra. Ma appunto non mi è mai successo di trovare un altro uomo, o una donna, o anche solo un bambino, in una delle mie fosse. Teoricamente potrebbe succedere, ma non è mai accaduto. È come se la gente preferisse starsene alla larga.
Qualche volta chi mi commissiona il lavoro mi affianca una scavatrice meccanica. Una belva di metallo che con poche rombanti zampate fa la buca che a me richiederebbe molto tempo e molta fatica. Mi piace l’odore dei gas di scarico mischiato a quello della terra appena smossa: mi ricorda quando mio padre mi portava con lui sui cantieri dove lavorava. E la potenza dei denti di acciaio che si piantano nella terra e la vincono con scatti che non sono autentiche esitazioni risveglia dentro di me un immutato stupore infantile. Ma preferisco di gran lunga scavare le mie buche da solo. Mentre scavo ho tempo per osservare i più minuti dettagli della terra, di sentire nelle mie braccia le differenze di consistenza, di confrontare gli odori. La terra ha molti misteri, e per capirla bene bisogna avere molto tempo per pensare. Quando ha finito l’escavatorista mi lascia da solo, perché sa che io ci metto tanto. Mi saluta con le pupille venate di perplessa commiserazione, e se ne va via fiero e vittorioso a cavallo del suo ronzino rigido e cigolante. Io sono contento, quando anche l’ultimo sfilaccio di rumore si è spento nel nulla ed è tornato il silenzio. La terra ha bisogno di silenzio.
In un paese con sconfinate distese di arido pietrisco brunito dal sole mi avevano affiancato una folta e ridanciana squadra di scavatori. Durante il percorso di avvicinamento io stavo seduto nella cabina a fianco dell’autista, e loro sedevano sul cassone posteriore, scherzando e cantando. Quando arrivavamo saltavano giù prima ancora prima che il pick-up si fermasse, e cominciavano a rincorrersi e a prendersi per i capelli. Il bianco dei loro sorrisi scintillava sulle loro facce anch’esse brunite dal sole. Considerano le mie buche scavate nello sterile pietrisco un gioco, inutile come tutti i giochi. Erano riconoscenti che la società che mi aveva ingaggiato li facesse lavorare. Mentre la sera distribuivo pacchetti di sudici biglietti di banca pescati in voluminose sporte di plastica – l’incredibile inflazione aveva tolto alla moneta locale quasi tutto il suo valore – pensavo che avrei preferito essere uno di loro. Non ero sincero con me stesso, come spesso capita nella vita.
Nel mio lavoro ci si sporca molto. Mio padre si lamentava, i primi tempi che svolgevo la mia attività. Dava per scontato che mi sporcassi così tanto perché non ci sapevo fare, perché non facevo abbastanza attenzione. Tutti lavorano, e nessuno arriva a casa in quelle condizioni, mi diceva. La sua anima rimasta fascista mi disprezzava anche per questo. Lavorava da tanti anni anche lui con la terra, quindi pensava di sapere le cose molto meglio di me. Non sapeva che è impossibile armeggiare per delle ore in una buca scavata nella terra umida senza sporcarsi in maggiore o minore misura di terra. Non sapeva che è impossibile fare il mio lavoro senza infangarsi, che anche tutti i miei colleghi si infangano tutti dalla testa ai piedi. Il suo lavoro a contatto con la terra si svolgeva in superficie, non in una angusta buca spesso bagnata e piena di paciocca. Lui dava gli ordini, erano i suoi operai a picconare. Poi però non mi ha detto più niente, perché ero andato a vivere per conto mio. E adesso è stato anche lui calato nella terra, lui e tutte le sue prevenzioni nei miei confronti. Adesso non c’è più nessuno a pensare che mi sporchi troppo. Del resto per me la terra non è affatto sporca: uso questo termine solo per farmi capire, perché so già in anticipo che altrimenti salterebbero fuori mille equivoci. Sono gli altri che mi considerano lercio alla fine delle mie giornate, io mi sento lindo, ripulito anzi fin nel più profondo dei miei organi e delle mie fibre, come dopo una veglia di preghiera. Per me eventualmente sono le anime delle persone che sono sporche, la terra è sempre pulita.
Anche la mia ex-fidanzata pensa che il fine del mio lavoro consista nel contemplare delle sezioni di terra fiancheggiate da un metro da falegname. Non pensa che il fine della mia attività siano solo le fotografie come fa mio fratello, ma insomma pensa pur sempre che l’essenziale sia star lì a contemplare dei colori più o meno marroni e un metro da falegname. Anche lei ha una visione molto riduttiva del mio mestiere. Anche per lei quello che faccio non serve in fondo a nulla. Sempre con le tue sezioni di terra, tu?, mi chiede, quando ogni tanto la incontro in città. I suoi piedi convergono ancora verso le punte, e spesso si posano solo sui lati esterni, come quando aveva quindici anni e indossava delle gonne leggere e impalpabili come il fazzoletto di un prestigiatore, come fugaci emozioni. Poi ci salutiamo, e lei si allontana con la testa piegata sulla destra e mordendosi con i denti la commessura delle labbra, come pensando a qualcosa di struggente, come ha sempre fatto. Il grande amore che c’era tra noi è stato però anche lui sepolto nella terra.
Quelli che fanno il mio stesso lavoro mi hanno sempre ispirato una giuliva simpatia. In genere sono persone semplici e franche, perché la complessità enigmatica delle buche è una severa scuola di umiltà. Le loro pelli emanano l’odore del caldo e del freddo e del vento, il gusto inconfondibile della libertà. Sono molto diversi da me e anche gli uni dagli altri, ma per certi versi sono anche uguali. Nei loro occhi leggo la mia stessa sete di capire, la stessa fanatica ostinazione, lo stesso mio latente scoraggiamento, la stessa incipiente fatica. La maggior parte non hanno la smania che ho io per le parole schiacciate per sempre sulla carta, ma hanno pur sempre gli occhi febbricitanti di passione. I loro eventuali vistosi difetti mi sembrano insignificanti, come succede con le persone che amiamo.
Forse proprio perché gli altri considerano strano il mio mestiere, sono attratto dalle persone che fanno dei mestieri che sono considerati strani. Mi fanno tenerezza gli operai che spuntano dai tombini delle grandi città, con le loro tute di plastica gialla imbrattate di sostanze non meglio precisate e la lampada frontale sul casco. Capisco l’impermeabile dimestichezza dei loro gesti, le loro facce assorbite dalle necessità della funzione. Sanno che non potrebbero essere capiti, per questo non cercano gli sguardi dei passanti. E mi stanno simpatici i becchini, la loro ostentata precisione, l’ostinata compostezza che oppongono all’invasivo disordine della morte. E perfino i delinquenti considerati responsabili dei crimini più infamanti, mi ispirano un senso di fratellanza.
Ogni tanto mi chiedo cosa vuol dire il lavoro che faccio. Cosa vuol dire per me. Mi rispondo che il caso mi ha portato a fare questo, come altri esseri umani si ritrovano a fare l’accordatore di pianoforte, il bagnino, il disgaggiatore, la longilinea e ancheggiante modella, lo spietato terrorista. È un lavoro come un altro, e qualcuno bisogna ben che lo faccia, mi dico. Mi dico che mi piacerebbe fare qualcos’altro, mi piacerebbe soprattutto poter dedicare tutto il mio tempo a infilare le parole una nell’altra, tessendo processioni di formichine nere che arrivano fino all’essenza delle cose, fino al centro del mondo. Ma so bene che non è così, so bene che nella vita niente è casuale, e tanto meno le occupazioni che sono in realtà dedizioni. So bene che se scavo la terra e poi sto lì per ore a toccarla e a manipolarla è perché qualcosa in me ha bisogno del contatto con la terra. So bene che senza il richiamo austero ma anche indulgente della terra mi perderei nel nulla dello spazio, come uno di quei palloncini colorati che salgono nel cielo, che ascendono gioiosamente verso il blu del firmamento fino a scoppiare. So bene che non potrei vivere senza la terra.
Il mio è un lavoro completamente superato. Nell’epoca degli schermi e delle simulazioni interattive e tridimensionali è ormai anacronistica, per non dire ridicola, una persona che armeggia con un piccone e con una pala, che stende un antiquato metro da falegname, e che se ne sta lì in una trincea come un forzato, come un soldato della prima guerra mondiale. Il mio è un mestiere che è restato impigliato nel passato, che è destinato a sparire. Presto ci sarà uno strumento che lo fa, non ci vuole molto a prevederlo. Se nessuno l’ha già inventato, questo strumento che fa il mio lavoro, non è certo a causa di insuperabili difficoltà tecniche: esistono apparecchi che svolgono compiti ben più delicati, dove è richiesta una precisione ben maggiore. È unicamente per disinteresse. Per qualche ragione nessuno si è preso la briga di inventarlo, e quindi fanno lavorare me.
Il mio amico poeta è convinto che il mio sia un lavoro utile all’umanità. Mi dice che devo essere fiero, che almeno faccio qualcosa che serve. Ho un bel ripetere che non è così, e che le ferite che infliggo alla terra non si rimargineranno mai, con la sua testardaggine baldanzosa di poeta lui resta convinto del fatto suo. Non sa che solo i suoi versi incomprensibili rimarranno.
Prima o poi qualcuno metterà a punto un marchingegno che farà il mio lavoro più in fretta di me, o per meno soldi. Lo farà molto peggio di come lo faccio io, perché anche le macchine più sofisticate non hanno le intuizioni che ha un qualsiasi essere umano, non respirano gli effluvi lievi delle divinità. Come tutte le macchine sparerà fuori file di numeri aride come selci che spuntano dalla sabbia, e queste anonime cifre saranno considerate più oggettive delle mie, più affidabili. Comincerò a essere visto con diffidenza, nessuno mi pagherà per fare le mie buche. Delle mie buche scavate con il sudore e descritte con il cuore in mano resterà appena un distratto ricordo, e poi nemmeno più quello. Io stesso penserò a altro, come succede spesso nella vita. O forse invece starò lì a riflettere a ciascuna delle fosse realizzate in tanti anni. Con una nostalgia colpevole, perché le mie buche appariranno a me stesso completamente desuete, per molti versi inscusabili. O forse giacerò anch’io già nella terra.
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[immagine: Alberto Burri, Nero cretto 1974, 1974, acrovinilico su cellotex, cm 170 x 150, Mart, Rovereto]
Amo la scrittura di Giacomo Sartori. la scrittura è precisa: c’è un vero talento per penetrare la descrizione del lavoro. Mi rammento pagine di Tritolo o di Sacrificio. Una visione vicina del mondo concreto. Si puo pensare alla mano dello scrittore che abbraccia la terra, si sporca, si bagna, si pulisce alla realtà. Sento il vincolo tra il lavoro manuale nella natura, duro lavoro, e il lento cammino umile dello scrittore.
“La terra ha bisogna di silenzio.”
Il personaggio è solo, come in un deserto di sentimenti. L’amore è in fuga, lembo della giovinezza. Il protagonista di Anatomia della Battiglia è solo; Katia ( se non mi sbaglio) è isolata nella famiglia, divorata del desiderio dell’incesto con il cugino.
Mi colpisce questa solitudine nel lavora, questa pena.
E’ un magnifico regalo che tu fai a Ni, Andrea (Bentornato)
PS, ho iniziato la Biografia di Hélène Bessette: è uscita in Francia. E’ appassionante.
Io questa cosa l’ho vista. Non completa naturalmente, ma questa cosa l’ho già vista.
Capitò così.
Molti anni fa andavo spesso Zurigo e siccome l’Ospedale Cantonale non è lontano dalla Kunsthaus – si raggiunge, se non ricordo male, sfiorando il terrapieno su cui sta il Burgholzi: l’ospedale psichiatrico dove ci stava quella matta che da trenta o quarant’anni nessuno riusciva capire, ma che poi, arrivato Jung, è riuscita a fargli capire tutto dei matti. A Jung.
Davanti alla Kunsthaus ci stava una statua di bronzo di Henri Moore, quello che un’altra statua l’aveva donata a Firenze, ma che poi se l’è ripresa perchè il comune di Firenze non aveva un posto dove metterla.
E poi, appoggiata alla facciata delle Kunsthaus, anche di bronzo, la “Porta dell’Inferno” di Rodin, quello del “Pensatore”, che vidi in una illustrazione
quando avevo appena cinque anni e non pensai che stesse pensando, ma che stesse facendo un’altra cosa.
Non è da molto che un grande critico, in un articolo su “Repubblica” ha detto la stessa cosa che avevo pensato io allora.
Dentro invece, in una grande sala, sola, appesa alla parete, anche se non l’occupava tutta, c’era proprio quello di cui parla Giacomo Sartori.
Ma non era tutta la buca [come si fa ad appendere a una parete una buca?] era una delle quattro pareti della buca [tanto, non sono più o meno uguali, se la buca è fatta bene?] delle stesse misure che il racconto lascia intuire.
Ma non certamente perfetta, come sarebbe dovuta essere.
Perchè per esporla l’avevano “congelata” con chissà quale resina e non si vedeva alcun animale vivo, né umidità e sicuramente, anche toccandola, non ci si sarebbe mai sporcati, neanche le mani. Anche a volerlo.
Un grazie a Giacomo Sartori e Andrea Raos.
Ho scavato fino in fondo con l’ansia alla gola, sentivo nell’aria la macchina incombente. Poi sono arrivati gli “effluvi lievi della divinità”. E ho ripreso respiro.
il respiro della terra aperta, quando si zappa, o si sta accanto, a debita distanza, dalla pala di un escavatore,
é un respiro unico, come il racconto di Sartori.
Un altro tono e un’altro modo rispetto ai romanzi, questo racconto di Sartori: perfettamente nitido e preciso, e perfettamente elusivo. E divertente.
Invece trovo un vincolo con i romanzi, anche se l’ultima ha una scrittura syncopée.
Perfetto, Andrea.
ho avuto modo di apprezzare sartori grazie a biondillo che qui consigliò “sacrificio”.
apprezzamento confermato.
@véronique: katia è la moglie del cugino, quella che….. col biondo.
Ottimo pezzo, specie se paragonato agli standard attuali della letteratura italiana, ovvero a ciò che passa il convento (praticamente niente, specie in termini di short stories – ma forse sono io che non ho i soldi per credere a ciò che pubblicano i ragazzi dell’editoria).
Ti dirò: l’ho letto qualche ora fa e sono arrivato tranquillamente alla fine. L’ho fatto con gusto e ammirazione per la scrittura semplice (?) e l’impianto – leggi la dichiarazione d’intenti – ben presente nella prima frase. Aspettavo di coglierti in fallo e di processarti interiormente alla prima debolezza, alla prima parola o aggettivo sbagliato.
Questo non è accaduto. Sono arrivato alla fine. Sperando che non rivelassi quale fosse in realtà il mestiere dello scavafossi/e. Ho pensato: se mi dice che mestiere è questo di scavare buche gratuite allora fa crollare tutto ciò che ha detto così bene prima.
Sono arrivato con terrore all’ultima riga, sperando che non ti tradissi.
Sei uno scrittore vero: non lo hai fatto.
Poi.
Dopo tre ore sono tornato qui.
Nel frattempo sono successe varie cose – lo dico per sincerità di cronaca – allo sfortunato tuo commentatore.
Un paio di birre solitarie, mezzo pacchetto di Benson blu e alcune escursioni internettiane a rincorrere le ultime imprese americane di Marco Bellinelli .
Non sono bolognese, nemmeno un appassionato di basket, ogni tanto però mi fisso con queste cose.
E’ che come italiani siamo abbastanza svalutati nel mondo, specie per il modo ignorante in cui vota la maggioranza dei nostri connazionali.
Se c’è qualcuno che si segnala per essere andato a segno con un tiro dietro il tabellone, allora mi fa piacere leggerne i commenti.
Rileggendo il racconto – e sapendo il finale o la mancanza di finale – ho continuato a ammirare il modo, meno il contenuto o la metafora generale che contiene.
In fondo, vuoi dire, siamo tutti qui a scavare buche.
Se, anziché nella terra, tu avessi scritto che facciamo buchi nell’acqua
avresti detto più o meno lo stesso.
Come in fondo fa, o crede di fare, chiunque scriva. Nel senso che ci scaviamo la fossa da noi stessi: una fossa bellissima e inutile e incomprensibile agli altri, specie a chi ci sta vicino – gli occhi di ghiaccio della moglie, come dici.
Ecco: letto in questi termini, il racconto acquista a posteriori valenze e significati (sono la stessa cosa) universali, validi per qualsiasi mestiere o occupazione umani (che brutto questo umani, io avrei scritto umana, poi magari qualche bella testa piena di grammatica o sintassi m’avrebbe bacchettato sulle dita).
Sto pensando al mestiere di Berlusconi, per esempio. Scavare buche, o donne, è il sogno preterintenzionale di qualsiasi maschietto ancora in grado di prodursi in erezione.
Ma è anche il sogno del metronotte, per esempio – scavare buche nel buio. Il sogno di tutti quanti. Tutti scaviamo buche, per amore o per soldi o per forza. O per la nostra gloria presunta. In fondo l’idea è quella di mettere il nostro ditino timido nell’acqua, a farci circondare.
Abbiamo bisogno di costruirci il nostro mausoleo.
A misura d’uomo o di cadavere (il metro da falegname).
La terra, il fango, lo sporcarsi sono inevitabili incidenti di percorso: il calarsi nell’inferno.
La prima frase è questa: “Il mio lavoro consiste nel fare dei buchi nella terra”.
L’Ultima: “O forse giacerò anch’io già (?) nella terra”.
In fondo il vivere.
Niente di più che morire lentamente e scavarsi piano la propria fossa.
O lo scrivere.
Sperando di trovarci o non, di tanto in tanto, qualche essere vivente che ci sia caduto dentro inavvertitamente (l’unico sussulto, come lettore, l’ho avvertito quando hai citato l’aspide mimetizzata nella sabbia – anche tu a un certo punto ti sei chiesto se non mancasse un po’ di vita vera e quale fosse il modo si suscitare una reazione).
Domani o dopo ti dirò di cosa non mi è piaciuto (è tanto).
visto che non sapevo cosa fosse sono andato a cercare, magari interessa anche a qualcun altro:
“Il disgaggiatore (o anche disgaggista) esegue la pulizia e la messa in sicurezza di pareti rocciose e pendii, sui quali provvede alla rimozione manuale di materiale pericolante come sassi, arbusti o piante d’alto fusto. Il lavoro, richiesto per lo più dagli enti pubblici, viene svolto spesso in situazioni estreme e richiede una buona preparazione alpinistica.”
@andrea raos: le guide alpine spesso per arrotondare fanno disgaggi, un lavoro pesante e poco gratificante che preferirebbero sostituire sempre, potendo, con l’accompagnamento di clienti.
A una prima lettura ho pensato che il protagonista fosse un geologo, ma il linguaggio usato dall’autore è troppo semplice e poco tecnico. Inoltre non credo che i geologi scavino buche profonde con mani e piccone, anzichè con una pala meccanica.
Dopo averlo riletto, l’unica spiegazione che ho trovato credibile è che il protagonista sia una specie di “mago della terra” che sezionandola riesce a prevederne la fertilità, nel caso di terreni coltivabili, o la stabilità, nel caso di terreno edificabile. Questo spiegherebbe la sua difficoltà nello spiegare il suo lavoro agli altri. Però non sarebbe coerente il riferimento alle persone che fanno il suo stesso lavoro.
Sono un po’ confuso.
Per l’autore: nell’ultimo paragrafo c’è un refuso (a meno che mi sfugga l’eccezione alla regola grammaticale), dove è scritto “…starò lì a riflettere a ciascuna delle fosse…”, credo andrebbe scritto “…starò lì a riflettere SU ciascuna delle fosse…”.
Aspetto con ansia i prossimi racconti.
Ciao grazie.
in realtà è una professione che esiste, anche se ovviamente nel racconto è un po’ trasformata; scienza del suolo (o pedologia), si chiama; gli adepti sono geologi, o anche agronomi (come lo sono io), o forestali, o laureati in scienze ambientali (in altri paesi esistono corsi di laurea specifici); e appunto è il mio lavoro; a differenza di Franz K. non credo che potrei scrivere; proprio perchè la letteratura mi prende troppo, e ho bisogno di fare altro; mi sento più vicino agli scrittori – ce ne sono tanti, e anche tra i migliori – che lavorano e hanno lavorato, spesso appunto in campi molto distanti dalla letteratura; naturalmente, e qui Franz ha ragione è molto difficile, e uno sogna di fare solo lo scrittore; ma appunto, non credo che io potrei; e francamente, mi sembra che molta della migliore narrativa narrativa italiana sia venuta dai margini, da persone cioè che (apparentemente) non fanno parte del mondo letterario; è questa una specificità della nostra narrativa (impensabile per es. nella letteratura francese!), che forse dovrebbe consolare un po’ gli scrittori come Franz che hanno una vita durissima; come dire, per me Franz potrebbe benissimo esserne orgoglioso;
naturalmente era “a differenza di Franz K. non credo che potrei scrivere e basta” non “a differenza di Franz K. non credo che potrei scrivere”