Sulla pagina bianca (Primo movimento, Natale)

di Giulio Milani

La gravidanza era stata buona dall’inizio: nausea e altri disturbi nella norma. L’unico fastidio si era presentato fra il quarto e il quinto mese, una serie di crampi all’addome che l’avevano costretta a ricorrere al controllo medico in due occasioni, per ragioni poi valutate come poco significative. Visti i suoi ventinove anni d’età, non aveva neppure preso in considerazione l’ipotesi dell’amniocentesi, con tutti i rischi che dicono connessi: i due episodi dei crampi avevano costituito il momento di maggior tensione, non tanto per la sintomatologia in sé – il dolore al ventre si presentava appena più intenso della colite di cui spesso soffriva – quanto per il timore di complicazioni o contrazioni uterine (che non ci furono), poi per l’attesa dell’esame ecografico (che non rivelò alcuna anomalia). Di lì a dieci giorni, in ogni caso, l’indagine morfologica avrebbe confermato che tutto stava procedendo per il meglio: il bambino, un maschio, era sano, come sopra ogni cosa lei e il suo compagno avevano desiderato.

Il parto pretermine, avvenuto alle soglie della ventiquattresima settimana (sesto mese), non era stato preannunciato da alcun segnale. La vigilia del travaglio era stato un giorno come altri, reso appena più faticoso dalla turbolenza degli allievi durante le ultime due ore di lezione: Francesca era una supplente di disegno e storia dell’arte, e quell’ultima mattinata chiudeva gli unici venti giorni di lavoro e di stipendio che le sarebbero stati assegnati durante tutto l’anno scolastico. Poi, nel pomeriggio, aveva dovuto coronare quell’inutile sforzo di protocollo presenziando all’ultimo consiglio che la sua materia, polverizzata in cinque classi differenti, prevedeva, e insomma si era stancata più del solito, tanto che la sera non si sentiva particolarmente in forma. Dopo cena aveva cominciato ad avvertire dolori al basso ventre, più intensi del normale. Poteva trattarsi della solita colite oppure no, di fatto aveva pensato che la semplice precauzione di ritirarsi presto e provare a prender sonno e dormirci un po’ su avrebbe risolto l’inconveniente. Con Guido, concordò che alla peggio, se il dolore avesse dovuto protrarsi e tenerla desta oltre una cert’ora, non si sarebbero sottratti allo scrupolo di un controllo presso il medico di guardia, come avevano fatto la volta precedente.

Quando lui la raggiunse in camera da letto, era da poco trascorsa l’una. Francesca era sveglia, un paio di movimenti sotto le coperte ne avevano tradito l’agitazione.

«Hai sempre male?» le aveva chiesto, mentre si spogliava. «Che c’è, topetto, non riesci a dormire?»

Francesca gli aveva risposto dentro un soffio, come per non svegliarsi del tutto. Per un po’ era riuscita ad appisolarsi, gli disse, ma i dolori al basso ventre non l’avevano mai abbandonata. Con questo, i dolori non sembravano presentare alcuna regolarità sospetta, solo il senso di un ostinatezza che spossava.

Guido si addormentò di lì a non molto, convinto in cuor suo che si trattasse d’un malessere passeggero. Poco meno di un’ora prima aveva assistito alla trasmissione di un confuso dibattito politico in vista delle elezioni d’aprile. Le elezioni si sarebbero tenute in aprile, e in aprile sarebbe nato suo figlio: politica e lavoro gli pareva appartenessero ormai a un regno periferico, nei confronti del quale la promessa paternità sembrava acquistare ai suoi occhi un rango e una giurisdizione capaci di trascenderlo.

Circa due ore più tardi, alle tre passate del mattino, Francesca lo svegliò con voce sommessa, angosciata, mentre dal bagno rientrava in camera da letto e raccoglieva in tutta fretta i vestiti a portata di mano e lo implorava di far presto e sbrigarsi. Si era convinta d’un tratto della regolarità dei dolori, vere e proprie contrazioni adesso – così pareva, così diceva – e ciò che più le premeva era raggiungere l’ospedale nel minor tempo possibile.

Sulle prime, sorpreso nel sonno come si sentiva, Guido perse altro tempo a scegliere i vestiti da mettere indosso, un po’ per minimizzare, agli occhi suoi e di Francesca, la forza della stretta che li veniva ad afferrare nel cuore silenzioso dell’appartamento, e un po’ perché ancora convinto, poveretto, dell’aleatorietà della minaccia. Trascorsero non più di sei o sette minuti perché lui fosse in grado di mettere insieme un maglione e un paio di pantaloni, ma quell’improvvida ostentazione di calma, tutta la leggerezza e l’ignoranza che conteneva, per quanto ininfluente alla resa dei conti, gli sarebbe pesata sul cuore, nei giorni a venire, come il segno di una colpa invincibile. Poi, scesero al parcheggio e salirono in macchina. Le strade delle tre del mattino erano deserte, l’aria fredda ma sopportabile. Francesca sedeva muta accanto a lui. Teneva le mani bianchissime sotto la pancia tonda. Portava gli occhiali da vista e una sciarpa di lana nera leggera le copriva la bocca. Il volto era teso e contratto, come per un principio d’assideramento. Fu allora che anche lui sentì montare l’ansia.

«Quanto tempo è passato» le chiese, «dal momento della prima contrazione?»

Francesca non ricordava con esattezza. Sapeva solo che dal momento delle prime fitte più intense e regolari non erano trascorse neppure due ore. Minimizzando e rincuorando come poteva, come meglio gli riusciva, con laconiche osservazioni sui precedenti favorevoli e sulla fortuna di avere un ospedale perfettamente attrezzato a non più di dieci chilometri di distanza, lui aveva intanto portato l’auto a viaggiare ormai ben oltre il doppio della velocità consentita.

Il medico di guardia, un uomo dai capelli candidi e dai modi gentili, le fece la stessa domanda. Per trovarlo, nel giro di corridoi color crema e massicce porte di sicurezza rosse tagliafuoco che si succedevano all’interno del reparto illuminato a giorno, li aveva aiutati un addetto alla vigilanza, un uomo in divisa blu e anfibi slacciati – sul petto le grosse mostrine e il distintivo gialli della Metronotte, una sconcia fondina marrone fissata a mezza coscia, col calcio lucido dell’arma che ne debordava. Il giovane stava senz’altro dormendo quando la coppia si materializzò dalle tenebre del parcheggio e bussò, sotto la spiovente giallo-arancione dell’illuminazione elettrica, alle ampie vetrate del portone d’ingresso: dal momento della prima contrazione non erano trascorse neppure due ore, ma fu perso ancora tempo quando il vigilante dovette rintracciare un’infermiera nel labirinto disabitato dell’ospedale, e ancora altro tempo fu macinato nell’attesa che l’infermiera avvertisse il medico di guardia e il medico di guardia si rendesse operativo.

Quando il vecchio medico dai modi gentili le domandò quanto tempo fosse trascorso dal momento della prima contrazione, la situazione era già fuori controllo: il ginecologo aveva solo potuto constatare la dilatazione del collo dell’utero e la parziale discesa del sacco amniotico in vagina. Guido e Francesca non sapevano, allora, cosa questo significasse. Né il dottore si sarebbe sforzato di chiarire la circostanza. Si limitò a registrare con calma la data e l’ora del ricovero, «le tre e trenta di venerdì sedici, dodici, duemilacinque» disse, e aggiunse una battuta, volendo forse sdrammatizzare la situazione, con un sottinteso che tuttavia parve a Guido di cattivo auspicio: «Nessuno di noi è superstizioso, ma perlomeno oggi non è un venerdì diciassette.»

 

 

 

 

Il parto si presentava dunque imminente o poteva ancora essere evitato? «Dipende» aveva detto il medico, misurando le parole davanti ai due spauriti che aveva di fronte. Poi, si era rivolto con condiscendenza alla sola Francesca, che lo ascoltava supina, sdraiata com’era sulle coperte tonde e immacolate di uno dei due grandi letti rialzati di cui si costituiva lo scarno arredo di quella camera d’ospedale. «Dipende dalla reazione al farmaco» aveva aggiunto, per poi soffermarsi sul resto d’informazioni riguardanti il tipo di medicinale che le avrebbe somministrato per fleboclisi. Spiegò che questo farmaco, il Tractocile, veniva impiegato di norma qualora si fossero presentati, come nel caso osservato, evidenti segnali di parto pretermine: quattro contrazioni regolari ogni trenta minuti di quaranta secondi ciascuna; dilatazione cervicale (del collo dell’utero) di circa tre centimetri e scomparsa del collo uterino (riduzione del suo spessore) di almeno il trenta per cento. «L’autosiban» disse, nominando il principio attivo contenuto nel farmaco, «è un antagonista dell’ossitocina, l’ormone naturale responsabile dell’inizio delle contrazioni uterine. Il che significa che ne blocca l’azione. Bloccando l’azione dell’ossitocina, il farmaco impedisce le contrazioni uterine e causa il rilassamento dell’utero, arrestando quindi la nascita.» Le sperimentazioni fatte, in questo senso, parevano garantire una buona percentuale di successi. Il trattamento che il medico si accingeva a operare sarebbe quindi consistito in un’iniezione iniziale da 0,9 ml in bolo, seguita da fleboclisi ad alto dosaggio (250 microgrammi al minuto) per tre ore, quindi da fleboclisi a basso dosaggio per un tempo variabile.

In realtà, non solo questa terapia non poteva ormai arrestare in alcun modo la nascita – come la stessa Francesca avrebbe scoperto qualche mese più tardi, parlandone con un altro specialista nel corso degli esami d’accertamento successivi al parto – ma anzi avrebbe finito col trasformare il dramma imminente in un calvario di false speranze, mortificazioni e torture, lungo undici interminabili ore. Il Tractocile aveva infatti la scopo di ritardare, non già arrestare il parto. Lo specialista consultato in seguito sarebbe stato chiaro: «Per protocollo» avrebbe spiegato a Francesca, non senza manifestare un certo stupore dinanzi al referto clinico del trattamento, «questo farmaco può essere somministrato solo a partire dalla ventiquattresima settimana, associato a farmaci coadiuvanti per la maturazione polmonare del feto in vista di una nascita pretermine giudicata ormai irreversibile. Ma questo, appunto, a partire dalla ventiquattresima settimana, ovvero dal momento in cui la legge italiana prevede l’obbligatorietà dell’intervento di rianimazione.» Prima d’allora, dunque, tacere sull’irreversibilità dell’evento, senza d’altra parte porre in essere i protocolli previsti per un’eventuale rianimazione, significava soltanto inscenare un’ingiusta e crudele pantomima. Ingiusta e crudele, sì, ma non insensata: che il medico di guardia avesse umanamente reagito all’angosciosa – minacciosa? – domanda di assistenza della coppia? Solo adesso che ne scrivo posso in effetti ricordare che all’inizio, durante il colloquio anamnestico, il ginecologo aveva trovato il modo di chiedere se il bambino fosse voluto o meno: una domanda strana, senza scopo diagnostico, infilata a mezzo di uno scambio teso e subito dimenticata.

«Dunque» aveva detto il medico a un momento, non sapresti più dire quando nel corso della visita, «purtroppo qui abbiamo un discesa del sacco amniotico e una dilatazione del collo dell’utero di tre centimetri.»

«E cosa significa» aveva chiesto Guido.

Il medico lo aveva guardato negli occhi. «Che bisogna arrestare la dilatazione» aveva detto. E poi aveva domandato: «È la prima gravidanza?»

«Sì» aveva risposto Guido.

«Ho capito. Avete fatto altri tentativi per averlo?»

Francesca aveva confermato. «Ho sempre avuto problemi di regolarità del ciclo» disse, «e non si è mai capita la causa.» Aveva preso la pillola contraccettiva per circa dieci anni, senza interromperla un solo mese, anche a questo scopo. Per tenere a bada un ciclo irregolare, spiegò, e sempre molto doloroso. Così venne fuori che prima di questa gravidanza – scoperta per caso e quando ormai l’idea era quella di sottoporsi a esami di fertilità e a un eventuale trattamento farmacologico – la coppia stava provando ad avere un figlio da almeno un paio d’anni.

Il medico si era chiuso in un sorriso di circostanza. Se il ricordo non fosse ormai così confuso, avresti detto che avesse alzato impercettibilmente le spalle, dentro una forma di perplessità o di resa.

«È sempre un peccato» aveva concluso poi la conversazione, rivolto a Guido «quando queste cose capitano alle persone che si conoscono. Ma adesso vedremo di fare tutto il possibile per scongiurare l’evento.»

In seguito, ci si sarebbe chiesto se il dottore avesse somministrato il farmaco per offrire una reale opportunità al bambino, o solo per provare la propria buona volontà di medico scrupoloso, impiegando la carne stessa della madre, il prolungarsi dei suoi speranzosi patimenti, come un potente vaccino, anche, contro eventuali querele.

«Ripasso tra un’ora o due» li aveva rincuorati il medico, mentre l’infermiera sbrigava la procedura per la fleboclisi, «il tempo di permettere al farmaco di agire». Francesca non aveva portato con sé il cambio per la notte, e a parte la precauzione di sfilarsi i pantaloni che aveva già tolto e poi indossato di nuovo dopo la visita ginecologica, tenne su la camicetta bianca a righe rosse e il golfino di lana nera traforato con cui era arrivata anche quando l’infermiera la fece accomodare sul letto e stendere sotto le coperte. Poi, l’infermiera le aveva sollevato la manica per cercare la vena del braccio sinistro, il più vicino all’asta della flebo.

Davanti a lei, in piedi nel semibuio, Guido seguiva le operazioni col volto di pietra: ciò che con più profondo sgomento percepiva, nella sequenza dei gesti che si svolgeva sotto i suoi occhi non abituati, era la sacralità del cerchio che questi atti stringevano intorno al corpo della sua compagna, sottraendolo alla propria integrità. L’ascesi scolpita di questo processo sanciva per lui una separazione rituale, che operava con le gradazioni di una metamorfosi: la scienza medica prendeva possesso del corpo di Francesca e l’assoggettava, lo trasformava in sintomo, preparandolo a nuove e imponderabili divinazioni. Non era uno spettacolo che si lasciasse guardare. Le parole affioravano rade, adesso, gli si arrestavano in gola come per effetto di un sortilegio.

Poi, «Se c’è bisogno, non esitate a chiamarmi» aveva concluso il medico, congedandosi.

A Guido e a Francesca appariva tutto come un incubo: non era possibile che loro figlio dovesse nascere a metà dicembre, quando lo aspettavano per i primi di aprile. Erano ancora incerti sul nome da dargli, tanto che la questione si era estesa e trasformata allorché la madre di lui aveva obiettato con sarcasmo al primo nome cui la coppia aveva, non senza discussioni e riserve, pensato: “Pietro”. La reazione che Francesca fece seguire alle convinte, puntigliose osservazioni della madre di Guido – che per parte sua la giustificava in nome del carattere, delle amicizie dabbene e dell’età – rinfocolava un fronte di rivalità non dichiarata fra le due generazioni di donne.

Francesca lo aveva avvertito. «Tua madre pensa già di sostituirsi a noi e di poter decidere lei cosa si deve fare o non fare, a cominciare dal cazzo di nome che dovremmo mettere al nostro bambino?»

Lui aveva abbozzato. Si era messo in testa di dover fare la tara alle dichiarazioni di entrambe, nel tentativo di raggiungere una sorta di equilibrio zen. Nondimeno la situazione sarebbe precipitata ancora, allorché saltò fuori che non lo avrebbero vaccinato. A quel punto le dichiarazioni di guerra erano già state consegnate nelle mani degli ambasciatori: non si leggeva forse sui giornali che tra le cause di separazione e di divorzio, sempre più diffuse a livello dei trenta-quarantenni, l’ingerenza dei suoceri neo-nonni – pensionati spesse volte più ricchi dei figli, e spesse volte con molto tempo libero a disposizione – sondaggi alla mano figurava ai primi posti di questa speciale classifica? No, non si leggeva. Magari il fenomeno era tenuto nascosto o magari no, ma in ogni caso, posto che la suggestione scaturiva dai limiti di un’esperienza personale, come avevano potuto tutti quanti dimostrarsi così stupidi e superficiali – rivendicativi – di fronte all’enormità dei pochi eventi della vita davvero essenziali? Ripensandoci adesso non si potrebbe affermare che l’essere si manifesta in modi che ci appartengono, ma che nessuno di noi può possedere? C’è un’identità che ci fa uguali, e c’è un’identità che ci separa. Tutta la notte Francesca sarebbe rimasta immobile nel letto, con un cuscino sotto i lombi come l’infermiera le aveva suggerito di fare per trattenere il sacco amniotico, per arrestare – diceva – lo scivolamento (solo più avanti nel tempo avremmo compreso che anche questa procedura non rappresentava che una gentilezza e un placebo). Lui le teneva la mano stretta fra le sue, sedeva curvo su una seggiola di alluminio raccostata al bordo del letto, non lontano dalla finestra che affacciava sul piazzale d’ingresso da cui erano arrivati, da cui si sarebbero visti arrivare, e le parlava nel buio con voce calma, la voce più calma e serena possibile, cercando le formulazioni più speranzose, le più convincenti che in quel frangente gli riuscisse trovare – circondato com’era dal silenzio della notte, assediato come si sentiva da una tenebra che non conosceva e alla quale non poteva, non sapeva opporre nessuna contromisura. Pensò di pregare, in cuor suo, ma non lo fece. Proveniva da una famiglia laicizzata, il padre – un medico ospedaliero che aveva operato per quarant’anni presso un altro presidio della stessa città – era ateo, e la madre – una docente di lettere in pensione – agnostica. Da laici, si poteva ben dire che in famiglia non gli avessero insegnato nessuna preghiera, non aveva un modello, non aveva mai davvero imparato a rivolgersi a Dio, se pure ammetteva di averci creduto, un giorno. Non si rivolse a Dio se non per chiedere, giustificarsi, implorare. Bestemmiò il nome di Dio, anche, ma in cuor suo si riservò di non bestemmiarlo né pregarlo affatto (un po’ per scaramanzia e un po’ per mancanza di fede: i due atteggiamenti trovavano in lui un’insospettabile forma di convivenza, di alleanza). Nondimeno, la natura vittimista delle sue implorazioni, il sospetto di pagare per una colpa che non aveva commesso o che se pure aveva commesso stava per espiare in maniera non commisurata – oltre al chiaro manifestarsi di un’insufficienza, di un’inanità della scienza di fronte al dominio della natura e all’invincibilità della morte – rappresentavano insieme l’orbita di una bestemmia che lasciava aperta la porta a Dio. Tuttavia, pensò, questo accadeva troppo tardi: avrebbe dovuto occuparsi di determinate questioni per tempo, l’opportunismo della circostanza falsava ai suoi occhi ogni movimento d’animo e di coscienza. Perciò non pregò, non bestemmiò, o se lo fece, fu per lui esattamente come non averlo fatto. Dimenticò di fumare, nondimeno, ma non dimenticò di averlo dimenticato, sentendosi distante e inadeguato anche per questo. Le volte in cui si alzò dalla sedia per trovare gli occhi di Francesca, per baciarla sulla fronte e sulle labbra, per infonderle coraggio e fiducia con la sua presenza, s’imbatté nello sguardo spaventato e dispiaciuto di una bambina rimasta orfana all’improvviso – all’improvviso più giovane di vent’anni, più giovane e più debole e più bisognosa di tutto l’affetto e di tutta la protezione che serviva, quella che lui – doveva ammettere adesso, e qui sentì il cuore che letteralmente si spezzava, proprio avvertì lo strappo di una ferita non metaforica che ne intaccava l’essere in profondità – non era più in grado di assicurarle: un dispiacere immenso, incommensurabile, si allargava sul volto di Francesca, e lei, specchiandosi in Guido che con tanta pena la guardava, a propria volta sentiva l’immaginazione acuirsi, gli angoli della bocca le s’incurvavano fino a schiudergliela in una smorfia di sofferenza pura, morale, che lui non aveva mai conosciuto sul suo volto, e che gli faceva mancare i sensi e traboccare gli occhi.

«Se ne va» gli aveva sussurrato a un momento, mentre distoglieva lo sguardo e la bocca le si spalancava in quella smorfia di sofferenza indicibile, «il nostro bambino se ne sta andando e io non riesco a fare niente per trattenerlo…» E anche lui si era sentito come portar via da quelle parole sabbiose, torbide, da quella risacca smisurata, dilagante, da cui Francesca si era lasciata cogliere e sprofondare. Si promise allora che difficilmente, in futuro, avrebbe dimenticato mai quella visione, avrebbe dimenticato mai fino a che alto grado puoi riconoscere il male sovrano di ogni fondamento, principe di ogni realtà, trovandone conferma nel calvario che la sua compagna, ancora una volta, tra sofferenze fisiche mai conosciute o anche solo lontanamente intuite nel corso delle loro esistenze fin lì, avrebbe attraversato un giorno, più avanti nell’attesa dell’imponderabile, al momento del suo secondo parto. Tutta la notte Francesca sarebbe rimasta sotto la goccia della fleboclisi, mentre Guido prendeva il tempo tra una contrazione e l’altra contando i minuti sul display luminoso del cellulare, tutta la notte avrebbero vacillato tra la speranza di una regressione del processo e la presa d’atto dell’irreversibilità dell’evento: l’orrenda, bestiale natura faceva il suo corso apparentemente incontrastata, incontrastabile, e apparentemente lasciava alle sue creature solo la dignità invincibile delle loro domande.

La mattina del 16 dicembre, dopo la visita del medico dimissionario, il reparto si sarebbe affollato, goccia a goccia, sino al completamento dei ranghi. Goccia a goccia, durante la notte, Guido e Francesca avevano trovato il tempo per maturare la loro decisione: se la nascita prematura del bambino avesse comportato conseguenze sulla sua salute incompatibili con la vita – così si erano detti, scongiurando – avrebbero acconsentito a che non vi fossero terapie di rianimazione. Allo stesso modo, nei mesi precedenti, nel corso dei diversi esami di controllo che la condizione di Francesca prevedeva, si erano trovati sostanzialmente d’accordo sull’ipotesi di accogliere un bambino down, o con altre patologie non gravi. Per converso, erano nondimeno decisi a impedire determinate pratiche persecutorie, così si erano espressi quella notte, che alle volte venivano perseguite confondendo il sacrosanto rispetto per la vita in tutte le sue manifestazioni con sentimenti di vera idolatria per la sopravvivenza del feto ad ogni costo. Con ciò, nessuno dei due poteva ancora ammettere di presagire, pur essendosi preparati al peggio, il tenebroso profilarsi della prova che di lì a non molto li avrebbe comunque travolti.

Quando il primario entrò, seguito dalla sua équipe di medici e assistenti, la situazione non presentava alcun miglioramento. Anzi. Il medico dimissionario non aveva speso troppe parole di spiegazione, al momento del commiato, ma già verso le nove il quadro era chiaro: non si trovava un posto libero in tutto il reparto, nondimeno il letto accanto a quello di Francesca sarebbe rimasto vuoto a oltranza.

«Allora, come andiamo?» aveva detto il primario con un sorriso aperto.

L’uomo si presentava di statura non alta, ma sotto il camice intuivi una muscolatura robusta, di persona dedita allo sport o alla palestra. Poteva avere cinquantacinque, forse sessant’anni, indossava una bustina di tela verde per copricapo, gli occhi erano azzurri e il volto disteso, come il tono gentile della voce. Irradiava, nell’insieme, una certa idea di sicurezza e umanità.

Francesca aveva stirato un sorriso di contraccambio, rispose solo: «Non lo so.»

«Vediamo subito» disse il primario. E un’infermiera chiese a Guido di aspettare fuori il termine della visita.

«No, può restare» ordinò il primario. Poi si rivolse a lui: «Tu sei il figlio del mio caro amico Giovanni, vero?»

«Sì» disse Guido.

«È andato in pensione, ho saputo.» Nel frattempo, Francesca si era scoperta il grembo e il medico aveva dato inizio alla visita.

«Da poco, sì.»

«So che gli hanno dato lo stetoscopio d’oro» disse, sorridendo. «E adesso, cosa fa?»

«Ahi!» sospirò Francesca.

«Ho quasi fatto» disse il medico.

«Sta in casa» disse Guido.

«Ho capito» fece il medico. «Rompe i coglioni in casa, eh?»

«Io non vivo più coi miei genitori da molto tempo.» Guido sorrise. «Comunque sì, immagino rompa i coglioni a mia madre. E che se li rompa, anche.» Conosceva l’ambiente ospedaliero da una vita, e in molti lo conoscevano. Era considerato di casa e con lui parlavano come si parla a un amico. Un misto di confidenza e rudezza insieme. Con questo, niente di quanto doveva accadere gli sarebbe stato risparmiato.

Il primario aveva terminato la visita, Francesca si rivestì.

«Dunque» disse poi, «purtroppo qui abbiamo una dilatazione del collo dell’utero di una decina di centimetri.»

«E cosa significa» disse Guido.

Il medico lo guardò negli occhi. «Che il parto è imminente» disse. Poi chiese: «Hai avvertito tuo padre?»

«No» disse Guido. Mise giù una pausa, perché fosse chiaro quanto stava per aggiungere. «E vorrei che non venisse avvertito.» Aveva preso questa decisione, con Francesca, che i rispettivi genitori ne sarebbero rimasti fuori. Non volevano si preoccupassero. Non volevano li disturbassero.

Mai si era sentito solo al mondo come allora. Ma ancora non poteva sapere quanto quella sensazione di abbandono fosse meno dovuta all’inutilità o alla mancanza di ogni conforto umano che alla ben più sorprendente circostanza che stava per diventare padre di un figlio morto.

«Se volete» disse ancora il medico, «posso tentare una rianimazione. Ma lo sconsiglio. I danni sarebbero troppo gravi, e c’è un’alta probabilità che non sopravviva comunque alla terapia.»

 

 

 

 

Sarebbero trascorse ancora altre ore, in quella stupefatta, angosciosa attesa – come una forma di vacanza dai vivi – e a Guido che cercava risposte alle sue inutili domande, nei corridoi del reparto, affiancando un dottore o una dottoressa meno indaffarati di altri, in fuga dallo strazio di Francesca col pretesto di procurarsi una bottiglia d’acqua, un caffè, qualcosa di solido per tappare il buco nello stomaco, non sarebbero tornati indietro che la compassione, l’astratta condiscendenza e il sarcasmo tipici di quell’ambiente. L’evento si presentava irrevocabile, e la convinzione che lui si portava dentro da quando era bambino, l’idea che la fortuna avrebbe battuto per sempre le ali sulla sua spalla, che nulla di rovente sarebbe mai capitato né a sé né ai propri cari, lo avrebbe abbandonato con la rapidità del fulmine contro la quercia. Da adesso in avanti, e per molto tempo ancora, si sarebbe confermato debole e inadatto alla vita, condannato dalla distrazione di Dio a soccombere. Bollato, in certo senso, dalla condanna morale che grava ancor oggi sugli sventurati, dai primi fuochi della civiltà del sacro.

A mezzogiorno e un quarto entrarono due infermiere, una bionda e una bruna, spingendo una sedia a rotelle. Aiutarono Francesca a spogliarsi, avendo cura di rimuovere la flebo. Francesca protestò, chiese il perché di quella misura. L’infermiera bruna rispose che non doveva preoccuparsi, che in sala parto l’avrebbero ricollegata. Le fecero indossare un camice di tela verde. Le allungarono una cuffia a corredo. La fecero accomodare sulla sedia di accompagnamento.

Nessuno proferiva parola. Francesca piangeva sommessamente, e carezzava il bimbo nella pancia. Non faceva altro da quando il primario aveva espresso il suo verdetto.

«E adesso, cosa succede?» gli aveva solo chiesto, a un momento, nel corso della mattinata. Loro due non avevano bisogno di parlarsi, in fondo? Il terrore per quanto stava per accadere pareva farli identici di fronte a se stessi.

«Non lo so» aveva risposto lui, cercando di dare meno consistenza possibile alle sue parole. E ognuno era tornato a sprofondarsi nella propria immaginazione.

«Adesso saliamo in sala parto» disse all’ultimo l’infermiera, come ricordandosi di una cosa, più rivolta a lui che all’assistita.

Guido buttò un’occhiata alla camera che stavano per lasciare, cercò in quello scarno bivacco di una notte qualcosa di utile da portare con sé. La piccola bottiglia d’acqua, forse. La borsa di Francesca con dentro i documenti e gli oggetti di valore. Le sigarette, no. L’idea di travaglio che aveva qualche volta accarezzato, con sé nella parte del padre apprensivo, che aspetta appartato, al riparo, l’annuncio del lieto evento, non si era ancora del tutto dissolta, nella sua povera testa. Ci rimaneva attaccato come l’asino alla ruota, forse per quella magica idea di salvezza che è conservata in molti riti umani, specie in quelli che non possiamo permetterci più.

«Salgo con voi» disse poi di rimando.

In sala parto, una sala operatoria come qualunque altra, solo corredata di una vasca circolare per il travaglio in acqua, Francesca venne fatta stendere sul letto già approntato. Poiché chiedeva insistentemente della flebo che le era stata tolta, una delle due infermiere presenti ordinò all’altra di andare a chiamare la dottoressa. La dottoressa comparve di lì a non molto.

Guido sbiancò. La stessa persona a cui aveva domandato, nel corso dei suoi sopralluoghi in reparto durante la mattinata, se non si potesse aumentare il dosaggio del Tractocile. L’aveva affiancata in corsia, mentre quella tirava dritto stipata nel camice bianco, e poiché al momento di definire il farmaco somministrato nella notte dal medico di guardia Guido non era riuscito a ricordarne il nome, per spiegarsi le aveva balbettato qualcosa d’improprio come «anti-ossitocina». «Ahah!» la dottoressa aveva sghignazzato. «Anti-ossitocina!» Ed era sfuggita via come tirata avanti da un’invisibile fune.

Adesso lui se la trovava lì, rude e sgraziata come la ricordava, assegnata ad occuparsi del parto senza appello della sua compagna.

Francesca, fortunatamente, non sapeva nulla di questo episodio. Guido le stava accanto, rincuorandola come poteva, come meglio gli riusciva, con l’abbraccio del corpo e delle parole.

«Adesso» disse la dottoressa in tono stentoreo, paternalistico, mostrando subito la grana del suo garbo, «bisogna che stai brava e ascolti quello che ti diciamo. Bisogna che ci lasci fare tutto quello che serve perché il parto non abbia complicazioni.»

Francesca annuì. Piangeva. «Ma io non voglio che nasca» disse, dentro un soffio. «È troppo presto» insistette.

«Lo so, cara» disse la dottoressa che metteva i brividi. «Ma purtroppo non si può più fare nulla.» E aggiunse: «Adesso ti colleghiamo alla flebo dell’ossitocina per favorire le contrazioni.»

«No!» quasi gridò Francesca. E poi si sciolse in un pianto disperato. Guido si chinò su di lei, ne accolse il capo nell’incavo fra spalla e collo. Voleva forse proteggerla dagli sguardi che sentiva attorno, da quell’inaspettato proscenio da incubo in cui la loro vita si stava inverando? Francesca piangeva e singhiozzava, e dentro i singhiozzi che la scuotevano da capo a piedi, dietro il sipario delle loro teste raccostate, non voglio, non voglio, non voglio, implorava adesso in un sussurro contro l’orecchio caldo di lui.

«Ti prego, Francesca» le parlò Guido a propria volta, dopo un po’ che galleggiavano abbracciati a quel modo, le guance appiccicate dalle lacrime e dall’affanno che respiravano l’un l’altra. «Ti prego di pensare che l’unica cosa che mi sta a cuore in questo momento, è che non abbia a succederti nulla di male. Non voglio che ti succeda niente di male, Francesca. Francesca, ascoltami» le disse ancora, con decisione e accoratezza, come per riscuoterla e addolcirla insieme. Ne aveva cercato gli occhi, adesso. Per una serie di suoi convincimenti pensò di trarla a sé con la calamita dello sguardo. «Ascoltami, ti prego. Hai sentito quello che ha detto il primario. Non c’è più niente da fare. Dobbiamo, devi» si corresse, «aiutare il nostro bambino a uscire!»

«No!» disse Francesca, ancora. E gli affondò le unghie nella carne.

Guido rantolò, con un mugugno profondo, da animale ferito. «Ma lui vuole uscire!» «Non glielo dobbiamo impedire… Ha deciso così!»

Francesca aveva mollato la presa, meccanicamente. Una nuova crisi di pianto stava per traboccarle dagli occhi e dalla bocca. Lui ne avvertì la risacca da un indizio che non avrebbe più saputo nominare, fisico e psichico insieme, come una spia dello spirito. «Ma perché ha deciso questo? Perché? Non lo capisce che è troppo presto

Accanto a loro, intanto, l’infermiera bionda aveva guadagnato l’asta della flebo, aveva applicato il flacone del nuovo farmaco. Quando l’onda di pianto arrivò, sfrenata e inconsolabile come l’avresti detta, l’infermiera ne avrebbe approfittato per collegare la vena al dispositivo.

Fu allora che anche la dottoressa tentò di attraversare il varco.

Era una donna di complessione tarchiata, aveva capelli ricci e neri, che avresti detto robusti come radici: più che della ginecologa, faceva pensare all’aspetto di una strana cuoca. Si portò sul lato opposto a Guido, chiese a Francesca di tirarsi un po’ su e di scoprirsi per poterla visitare. Indossava, sotto le lasche maniche del camice, un paio di guanti bianchi in lattice aderenti alla pelle.

Francesca sembrò riscuotersi, ubbidì al comando. Quando si sollevò sulla schiena per consentire la visita, Guido si accorse che aveva le lenti degli occhiali appannate.

«Mi vuoi dare gli occhiali?» quasi le sussurrò.

Francesca finì di sistemarsi, e gli allungò gli occhiali. Qualcuno doveva aver abbassato le luci, perché Guido fu costretto ad aguzzare gli occhi e abituarli alla semioscurità per trovare la sedia dove arrivando aveva appoggiato la borsa di Francesca e la bottiglietta d’acqua che aveva portato con sé. D’ora in avanti, per lui ogni cosa si sarebbe svolta dentro questa bolla umbratile, una dimensione del tempo e dello spazio del tutto inesplorata.

«Sta già scendendo» sentenziò la dottoressa al termine della visita. «Adesso ascoltami, cara. Devi respirare profondamente, e cominciare a spingere come per fare la cacca.»

«No! No! No!» protestò Francesca, e nel protestare scuoteva la testa e si tirava indietro.

Guido le prese la mano, si chinò su di lei. Non saprei più dire da dove tirasse fuori la forza per parlarle a quel modo, in ogni caso «Hai sentito, Francesca» le disse. «Non dipende più da noi. Il bambino vuole uscire, deve uscire, o morirà comunque e sarà un problema anche per te.» «Devi spingere» le disse ancora e ancora, «devi spingere per farlo uscire.»

Ma Francesca non spingeva. O se lo faceva, era come non averlo fatto. Trascorse in questo modo un tempo indefinito, durante il quale la dottoressa tentò con ogni mezzo di convincerla a partorire. Arrivò persino a minacciarla che se non avesse spinto con la dovuta convinzione, se non avesse portato a termine quanto le si chiedeva di fare, le sarebbe salita sulla pancia e l’avrebbe spinto lei da lì.

Guido non poteva credere a quanto stava avvenendo. La sua compagna era senz’ombra di dubbio in balia di una pazza, e lui non faceva nulla per salvarla. Anzi, tutto al rovescio, in qualche strano modo ne era diventato complice. Questi sono i tuoi interlocutori, si era detto, queste le persone con cui hai a che fare. Niente colpi di testa e niente scenate, si era ripetuto in quel naufragio, o Francesca sarà la prima a riportarne un danno.

Ma la situazione si era complicata e compromessa allorché Francesca prese a insistere che non ce la faceva, che voleva smettere, che il dolore era troppo forte; sulle prime con un filo di voce, come la forma remota di un tentativo di resistenza o di preghiera, e poi sempre più determinata, rabbiosa, finché non intimò alla dottoressa di toglierle le mani di dosso.

«Così non andiamo da nessuna parte» rispose quella, in tono di resa e di minaccia insieme, ma rivolta alle infermiere che le orbitavano affianco e quindi senza stizza. A questo punto a lui fu chiaro che si preparava un diversivo per superare lo stallo.

Come Dio volle, infatti, la dottoressa si chiamò o fu chiamata in disparte, adesso non ricordo bene, e nessuno l’avrebbe rivista più. Di lì a non molto anche le infermiere presenti lasciarono la sala parto, Guido le avrebbe scorte a tratti confabulare nella stanza accanto – una seconda sala operatoria o un’anticamera – che si apriva sul lato adiacente alla porta d’ingresso, e che sulle prime, entrando, lui nemmeno aveva visto, e poi aveva scambiato per uno spogliatoio. A lui e a Francesca fu solo risposto, dopo un periodo trascorso nell’angoscia di sapere o non sapere cosa stava succedendo, cosa sarebbe successo, che il primario in persona era appena rientrato da un’urgenza e tra poco, così lo aveva informato un’infermiera di passaggio, avrebbe preso il posto della dottoressa.

Poi il primario arrivò, e fu vero uomo. Guido prova ancor oggi un sentimento di gratitudine sincero, per il conforto e la competenza che questo alleato di un momento seppe offrire loro. Si avvicinò a Francesca, le sorrise, e mentre la incoraggiava con voce calma e serena, mentre le sussurrava parole che nessuno poté afferrare, le carezzava il capo con affetto. Lei ancora piangeva, ma a lui sembrò adesso un pianto di consolazione.

Poi l’uomo disse, rivolto a Guido: «Ora sta per accadere qualcosa che è il contrario di quanto ognuno di noi, come medico e come persona, si aspetta da questa professione. A noi piace far nascere i bambini, potete immaginare lo sconforto che ci prende davanti a casi del genere. Siamo a dicembre, e quest’anno ne sono capitati soltanto due su ottocento. Il vostro, e quello di una mamma che ha perso il figlio al nono mese. Però dovete credermi, farò quanto in mio potere per aiutarvi.»

Il medico tacque e le si avvicinò, ma trascorse ancora altro tempo prima che Francesca riuscisse a trovare la forza per rompere la sospensione, per ricominciare a spingere. Se il momento arrivò, spiegò a Guido più tardi, fu perché il primario le aveva assicurato che nessuno l’avrebbe di nuovo toccata, e che avrebbe fatto da sola e ogni cosa si sarebbe risolta per il verso suo.

«Lo sento con le dita» disse l’uomo, quando fu sicuro che Francesca si fosse calmata, e avesse abbastanza fiducia in lui da lasciarlo operare. Le sue mani erano nude, non portava guanti. «È proprio qui. Ancora un piccolo sforzo e lo vedrai nascere.»

Nondimeno lo sforzo si sarebbe interrotto di lì a poco. «Proprio non ce la faccio» disse Francesca. «È più forte di me. È tutto inutile.»

Che cosa ci sta succedendo?, pensò Guido allora. Tutto era capovolto. È un parto al rovescio, si disse, questo è un parto che va al rovescio. Se pure lo avesse solo immaginato, d’un tratto provò la sensazione fisica che i capelli gli si fossero imbiancati per lo stress nervoso. E quando già prefigurava il peggio, l’abbraccio mortale di Francesca al destino che si preparava – un’emorragia dall’esito infausto, o la terrificante eventualità di un intervento chirurgico – vide la sua compagna digrignare i denti, dentro uno spasmo mite e furibondo, la vide serrare gli occhi e sollevare il petto, la vide piangere, la vide soffiare fuori tutto il rancore sacro che ancora tratteneva in corpo.

Francesca spingeva, adesso, e l’esile silhouette del loro bimbo avrebbe visto la luce non molto tempo dopo, al termine di un’ultima sequenza di spasmi, dentro la cometa di sangue materno che portava con sé.

Il medico lo soccorse con una manovra, tagliò il cordone ombelicale e sollevò il piccolo tra le sue braccia, mentre tutto intorno la luce da acquario che avvolgeva cose e persone ammorbidiva i gesti operativi delle infermiere intorno al corpo orfano della madre.

«È un bambino bellissimo» disse subito l’uomo. Lo teneva in braccio avvolto in un telo verde, e lo guardava senza farlo vedere né senza dare a intendere che ne impedisse la vista. «Come lo avete chiamato?» chiese.

Francesca non parlò, la sua voce era assente. «Non abbiamo ancora pensato a un nome» disse Guido, e sentì le gambe molli e provò la sensazione che i capelli gli si sollevassero in testa uno per uno, quasi avesse potuto contarli.

L’uomo sorrideva mite. «Se siete d’accordo» disse, «lo chiamerò Angelo.»

Guido si sentì scuotere da un brivido. Ne comprese subito il significato, e non trovò obiezioni. Guardò Francesca, e in un modo che non saprei ridire capì che era d’accordo.

«Angelo» disse ancora l’uomo, «io ti battezzo nel nome del padre, del figlio e dello spirito santo, amen.» E così dicendo si segnò.

Poi, chiamò a sé un’infermiera e le affidò il bambino. «Adesso lo portiamo nell’incubatrice» disse. E aggiunse: «Se volete, potete non vederlo. Ma io vi suggerisco di farlo. Altrimenti resterà per sempre un fantasma a cui non saprete dare un volto. Vi suggerisco di aspettare qui un minuto, di calmarvi, e poi di andare di là a salutarlo.»

Guido guardò Francesca, e lei assentì. Piangeva. Il figlio che doveva rimanere per sempre suo le veniva sottratto, le veniva tolto di dosso, la spogliavano… O forse era lei che aveva appena imparato a donarlo, allo stesso modo in cui l’ostia di questa pagina bianca, di questa esistenza che abortiva, era stata pur comunicata.

Quando il momento arrivò, Francesca gli chiese di andare a vedere il bambino. «Lo vai a vedere?» gli disse, e lui rispose di sì, che sarebbe andato. Si staccò dall’orbita del letto, e poi si guardò intorno nel semibuio, cercando un’infermiera che gli indicasse la strada. Non ce ne fu bisogno. Spingendo lo sguardo nel lago scuro della stanza accanto scorse due infermiere, e dietro di loro la vasca dell’incubatrice illuminata da una luce soffusa.

Incerto nei passi come si sentiva, Guido superò il breve tratto che lo separava dal suo bambino lungo un dimensione del tempo che nel ricordo, ancora oggi, pareva un sogno d’infinita quiete.

Il contatto era precluso dal vetro, e lui avrebbe stentato tutto il tempo a reggere lo sguardo. Le lacrime che non aveva ancora versato, gli traboccarono tutte fino a offuscargli la vista. Il suo bambino era lì, se ne stava rannicchiato bocconi e apparentemente immobile (ma Guido era troppo sconvolto per guardare, se lo avesse fatto e avesse scoperto che respirava, sapeva che l’idea che si era costruito di se stesso sarebbe crollata per sempre). Piccolissimo, era nondimeno perfettamente sviluppato, le minuscole gambe, i piedini, il palmo della mano aperto. Pareva dormisse sereno come dopo una poppata. Aveva dolci lineamenti, e le labbra ben disegnate erano rosse, schiuse.

S’immaginò, Guido, di cadere in ginocchio, s’immaginò in ginocchio che implorava Dio di salvare il suo bambino, di rianimarlo, e ancora oggi si pente di non averlo fatto, per la vergogna che provò dinanzi a quel suo dolore così esposto.

Dietro di sé, all’improvviso, aveva frattanto avvertito il tocco di Francesca che lo cingeva alle spalle, leggera e silenziosa come un puro movimento d’aria. Aveva uno sguardo languido ed era in lacrime, il viso e gli occhi larghi, pareva volesse nascondersi dietro quel suo abbraccio fatto di niente.

«Respira?» disse. Lo osservavano a distanza, attraverso il vetro e le lacrime, e la visione era così ridotta e sfuocata e ingigantita insieme, che a ripensarci adesso era come guardarlo attraverso uno di quei piccoli binocoli da teatro.

«Non lo so» disse lui. Era in una stanza d’ospedale, questo lo sapeva. E aveva avanti a sé il corpo di suo figlio, carne della sua carne, sangue del suo stesso sangue, che stava morendo o era già morto. Sapeva anche questo, nondimeno era come non sapere nulla. «Non lo so» disse ancora. «Però sembra sereno» aggiunse, e la sua attenzione, con una punta di sollievo che non si aspettava, e di cui subito si sarebbe vergognato senza colpa, si fissò sull’orologio da parete che aveva di fronte. Nel mondo dei vivi che ancora li ospitava, segnava le due passate. «Ma tu dovresti riposare» disse poi. «Adesso andiamo via, ti prego.» Salutiamolo un’ultima volta e andiamo via.

(Questo racconto è una versione ridotta, per Nazione Indiana, di un racconto più ampio)

 

 

 

 

 

4 COMMENTS

  1. Un racconto che mi ha commossa. Un angoscia mi ha presa, leggendo.
    L’argomento è duro, perché si parla di un dolore che non ha nome: la perdita di un bambino appena nato.
    Penso che l’angoscia si nasconde in tutta futura madre: il mio figlio sarà sano? La nascita è una prova nel corpo e nella mente, lo penso.

  2. Ci sono racconti, le cui parole toccano e abbracciano tutti, perché in fondo tutti siamo nati.
    E’ scritto perfettamente, usando una specie di rovente
    distanza, che solo chi sa scrivere davvero cosí riesce a usare.

  3. … Wenn dei Mütterlein tritt zur Tür herein,
    mit der Kerze Schimmer, ist es mir, als immer
    kämst du mit herein , huschtest hinterdrein,
    als wie sonst ins Zimmer!
    O du, des Vaters Zelle,
    ach, zu schnell erlosch’ner Freundenschein !
    Friedrich Rückert – Gustav Mahler

    (quando la mammina cara si affaccia alla porta alla luce della sua candela, è come se tu entrassi comme sempre sgusciando da dietro nella stanza come allora, tu, tu di tuo padre cellula, luce di gioia troppo presto spenta)
    O du, o du ripetuto a semitoni di distanza fa cantare Mahler, in un diminuendo che ne è tutto il dolore

  4. e dopo il diminuendo a sparire, finalmente il pianto e il “maintenant je vais pleurer” di Brel

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Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.