Scrivo questo romanzo perché ho bisogno di soldi
[Il brano che segue è stato pubblicato su Vibrisse il 24.12]
di Giulio Mozzi
[In relazione all’articolo di Demetrio Paolin Che cosa fa di uno scrittore uno scrittore, a sua volta riferito all’articolo di Franz Krauspenhaar in Nazione indiana Siamo i Fangio della cultura che non paga, che a sua volta si riferiva a un articolo sulla proposta di Sciopero dell’autore – pubblico questo testo che è, al momento, più o meno il primo capitolo del romanzo al quale sto lavorando da anni. Il titolo del romanzo è: Discorso attorno a un sentimento nascente. Il capitolo non ha titolo. Ovviamente il testo va letto per quello che è: un brano di romanzo, nel quale parla un personaggio la cui biografia e le cui opinioni sono frutto di pura invenzione. gm]
Scrivo questo romanzo perché ho bisogno di soldi. Ne ho un bisogno disperato. Io non sono mai stato attaccato ai soldi. È per questo, forse, che non ne ho. Non sono mai stato capace di mettere i soldi in cima ai miei pensieri. Non credo di avere mai buttati via i miei soldi. Ho sempre pensato che se avessi sempre lavorato, avrei avuti sempre i soldi. Ho sempre risparmiato. Sono stato educato al rigore. Ho accettata l’educazione al rigore che mi è stata impartita. Ho sempre pagate le tasse. Ho sempre pagati i contributi volontari. Mi sono fatto un’assicurazione sulla vita. Ho regolarmente comperati i Buoni di Risparmio Postale. Non sono mai vissuto alla giornata. Mi sono sempre sentito tranquillo. Lavoravo, guadagnavo, pagavo le tasse i contributi l’assicurazione, comperavo i Buoni di Risparmio Postale. A volte andava meglio, a volte andava peggio. Ci sono stati degli anni nei quali ho guadagnato molto e degli anni nei quali ho guadagnato poco. Non sono mai stato veramente in difficoltà. Quello che ho risparmiato è sempre bastato a tenermi al sicuro. Non mi era mai successo di dare fondo a tutti i miei risparmi. I risparmi stavano lì. Lavorare mi piace. Nella vita non so fare altro che lavorare. Non sono mai stato avido. Il lavoro mi interessa più del guadagno. Gli amici mi hanno sempre detto che certe volte mi faccio pagare troppo poco. Lo ammetto. A volte mi piace lavorare gratis. Quello che mi dà soddisfazione è il lavoro. Non il guadagno. Il guadagno non è mai stato in cima ai miei pensieri. Lavoravo, avevo lavoro, venivo pagato, risparmiavo, pagavo le tasse, pagavo i contributi, comperavo i Buoni di Risparmio Postale. Provvedevo alle mie necessità. Il lavoro non mancava, il lavoro veniva pagato regolarmente, quanto guadagnavo bastava a provvedere alle mie necessità, perché avrei dovuto preoccuparmi? Mi è sempre mancata la voglia di concentrarmi sul guadagno. Se qualcuno tardava a pagarmi, aspettavo. Magari sollecitavo. Non mi sono mai preoccupato. I soldi arrivavano, prima o poi. Dentro dei tempi accettabili. La situazione era comunque sempre gestibile. Non mi era mai successo di dover liquidare i Buoni di Risparmio Postale. Invece adesso non è più così. Tutto l’anno scorso ho lavorato. Da alcuni, che mi avevano affidati dei lavori importanti, non sono stato pagato. Ho sollecitato. Ho aspettato un anno. Ho sollecitato di nuovo. Ho aspettato ancora qualche mese. Non sono stato pagato. Nel frattempo ho dovuto fare delle spese di una certa importanza. Non mi sono più sentito al sicuro. L’altro giorno ho telefonato a uno di questi soggetti. Intendo soggetti per dire persone, società, aziende, enti pubblici, università, associazioni. Non ne faccio il nome per timore di ritorsioni. Ho telefonato e ho detto:
«Voglio i miei soldi, me li dovete da quattordici mesi».
«Non li abbiamo».
«Ma io ho bisogno di soldi».
«Non sappiamo cosa farci, non li abbiamo».
La conversazione è finita lì. Allora ho telefonato a un altro soggetto.
«Voglio i miei soldi, me li dovete da un anno».
«Abbiamo già pagato».
«Quando, dove, come».
«Abbiamo già pagato».
«Datemi gli estremi di un bonifico, la fotocopia di un assegno».
«Senta, abbiamo già pagato».
La conversazione è finita lì. Sono andato in banca a controllare. Non sono stato pagato. Potrebbero avermi spedito un assegno circolare. Potrebbe averlo intascato il postino. Ne dubito. Ho ritelefonato di nuovo:
«Guardate che i soldi non ci sono, sono stato in banca, non c’è nessun bonifico».
«Se non abbiamo già pagato, pagheremo».
«Sì, ma quando? Io il lavoro lo ho fatto un anno fa».
«E che cosa vuole che sia, un anno? Pensi che noi…».
«Voi non mi interessa. Io voglio essere pagato. Se non ora, almeno in una data certa. Voglio sapere in quale data sarò pagato».
«Pagheremo, non si preoccupi».
«Come faccio a non preoccuparmi? Prima non pagate, poi mi dite che avete già pagato, poi mi dite che pagherete ma non si sa quando».
«Senta, non rompa. Guardi che non è l’unico ad avere certi problemi».
Hanno messo giù. Allora ho telefonato a un altro soggetto.
«Voglio i miei soldi, me li dovete da dieci mesi», ho detto.
«Sì, non si preoccupi», mi hanno detto.
«Certo che mi preoccupo», ho detto, «me li dovete da dieci mesi».
«Eh, non si preoccupi».
«Io posso anche non preoccuparmi, ma intanto che non mi preoccupo, di che campo?».
«Senta, non si preoccupi, questi sono tempi normali per noi».
«Ma non sono normali per me, e io voglio i miei soldi».
«Senta, non sono stati pagati neanche tutti gli altri che hanno fatto il lavoro con lei».
«Questo non vuol dire che non pagare sia una cosa giusta».
«Ma noi paghiamo. E lei non deve preoccuparsi».
La conversazione è finita lì. Allora ho telefonato a un altro soggetto.
«Voglio i miei soldi, me li dovete da nove mesi», ho detto.
«Quali soldi?», mi hanno detto.
«Quelli per il lavoro tale, un corso di formazione, l’ho cominciato un anno e mezzo fa, l’ho finito nove mesi fa».
«Qui non ci risulta niente».
«Come sarebbe che non vi risulta niente? Vi ho mandata la nota di addebito il giorno tale, poi vi ho telefonato il giorno tale e il giorno talaltro, mi avete detto che avreste provveduto, come sarebbe che adesso non vi risulta niente?».
«Con chi ha parlato?».
«Con Tizio».
«Tizio non lavora più qui».
«E allora come facciamo?».
«Tizio l’abbiamo mandato via perché faceva strane cose con i soldi».
«Ho capito, ma io che cosa posso fare, che cosa devo fare per avere i miei soldi?».
«Eh, è possibile che i suoi soldi se li sia presi Tizio».
«Ma a me non mi interessa se Tizio si è preso dei soldi, io voglio i miei soldi e li voglio da voi, perché io ho fatto un lavoro per voi, e aspetto il pagamento da nove mesi».
«A noi non ci risulta niente».
«Cercate Tizio. Fatevi dire da Tizio».
«Eh, sì, Tizio, chi lo ricupera più, quello».
«Ma nella vostra documentazione, il lavoro che ho fatto ci sarà da qualche parte».
«Può darsi».
«Era un corso di formazione, c’erano venti iscritti, ho le loro email, li posso rintracciare, posso dimostrare che il lavoro l’ho fatto, loro hanno anche pagata una quota».
«Questo non cambia niente. Il problema è contabile».
«Mi sta dicendo che ve ne lavate le mani?».
«Guardi che anche noi siamo parte lesa».
«Ma io sono leso personalmente. Voi siete una grande organizzazione, io sono uno che di quei soldi ci campa. E per fare quel corso, tra viaggi e altre cose, sono uscito di un bel po’ di soldi».
«Senta, non stia a rompere, che abbiamo più guai di quelli che lei si immagina. Anche a noi mancano soldi».
La conversazione è finita lì. Io sono al punto di prima. Ho bisogno di soldi. Non ce la faccio con le spese fisse. Devo pagare due affitti, l’appartamento e lo studio, le bollette, la spesa quotidiana. Per fare il mio lavoro devo viaggiare, devo pagare i biglietti dei treni, devo pagare le camere di pensione, devo pagare i pasti fuori casa. Se non ho soldi non posso lavorare, se non lavoro non faccio soldi. Non sono uno sprecone. Quando sto fuori vado in pensioni a due stelle, tre stelle, spendo quaranta euro. Pranzo con un gelato, due euro. Ceno al kebab, tre euro e mezzo. Ho con me la bottiglia dell’acqua, la riempio ai rubinetti. Sono cresciuti i prezzi dei treni, non vado più a Milano con l’Eurostar. Vado a Roma col treno notturno, dormendo sul sedile. Non mi compro da vestire da un anno. Ho cominciato a usare la carta di credito. Si prendono i soldi il quindici del mese. Ho una collaborazione, ogni ultimo giorno del mese mi arriva lo stipendio. Se il quindici ci sono sul conto i soldi che bastano per la carta di credito, fino al trenta successivo sono salvo. Adesso che non ne ho, tutti i giorni penso ai soldi. Il mio lavoro è un lavoro nella cultura. Per fare il mio lavoro devo mantenere la mia cultura. Devo leggere libri, andare al cinema e a teatro, ascoltare musica, visitare esposizioni. Sono sei mesi che non faccio più niente. Vado in libreria e guardo i libri. Mi faccio raccontare i film dagli amici. La musica della radio non serve a niente. Si è rotto qualcosa in bagno. Colava l’acqua dal soffitto del vicino del piano di sotto. Ho chiamato l’idraulico. L’idraulico ha fatto il lavoro. Ho pagato l’idraulico, subito. Ho accettato di pagare senza fattura per pagare meno. Quando il soffitto del vicino del piano di sotto si è asciugato, ho chiamato i pittori. I pittori hanno fatto il lavoro. Ho pagato i pittori, subito. Ho accettato di pagare senza fattura per pagare meno. Ho liquidati i Buoni di Risparmio Postale. Mi sono arrivati dei pagamenti. Ero contento. Tre pagamenti nel giro di una settimana. Avevo ottomilatrecento euro sul conto. Mi hanno clonato il bancomat. Avevo vista una cosa strana, nell’estratto conto, ero a Milano per lavoro, ho telefonato alla banca. La banca mi ha detto di non preoccuparmi, che era uno storno dalla carta di credito. Che siccome avevo speso molto con la carta di credito, si erano presi una fetta dei soldi con un po’ d’anticipo. Considerato che ultimamente, in effetti, qualche volta al momento di rimpolpare la carta di credito i soldi sul conto corrente non c’erano. Una misura prudenziale. Ormai ero un cliente inaffidabile. Comunque mi sono messo tranquillo. Da Milano sono andato a Reggio Calabria, poi in Olanda. Il mio lavoro si potrebbe misurare in chilometri. Poi un giorno sono a Verona, in casa di una scrittrice, stavamo discutendo del suo romanzo futuro, la banca mi ha telefonato.
«Signor Mozzi, lei è sotto di duemila euro».
«Non è possibile».
«Negli ultimi quindici giorni lei ha fatto continui prelievi, ora è sotto di duemila euro».
«Non saprei neanche come fare a farlo. Avevo ottomilatrecento euro sul conto, ho dei limiti al prelievo e alla spesa, come potevo prelevare tutti quei soldi?».
«Lei ha fatto continui prelievi da 750 euro ciascuno».
«Il mio limite di prelievo è 500 euro».
«Può passare da noi?».
Sono andato alla banca. Abbiamo verificato tutto. Il mio bancomat era stato clonato. Mentre io giravo per l’Italia e l’Olanda, un ignoto signore si era presi tutti i miei soldi, a 750 euro a botta, prelevandoli in banche di Roma e di Ostia.
«Mi avevate detto che potevo stare tranquillo, che si trattava di uno storno della carta di credito».
«Con chi ha parlato?».
«Con un uomo. Un maschio».
«Qui dentro lavorano quarantacinque maschi».
Il mio conto è all’agenzia centrale della banca.
«Che numero ha chiamato?».
«Questo numero qui».
«Se lei chiama questo numero, le rispondono dallo sportello. Che giorno ha chiamato? A che ora? Perché ha chiamato invece di venire qui?».
«Era il giorno tale, stavo a Milano, dovevo andare a Reggio Calabria e poi in Olanda, ho guardato l’estratto conto al bancomat, ho vista la cosa strana e ho chiamato. Saranno state le nove di mattina».
«Controlleremo. Intanto lei è sotto di duemila euro, come facciamo?».
«Non lo so. Altri soldi non ne ho».
«Preferisce un prestito o un fido?».
«Credo che sia più pratico il fido».
«Allora le posso fare un fido da duemilacinquecento euro. Le condizioni sono queste».
«Mi scusi. Io vi affido la custodia dei miei soldi. Voi ve li fate inculare. E io, perché voi vi siete fatti inculare i miei soldi, devo pagare questi interessi qui?».
«Le condizioni sono queste. Non possiamo mica prestare i soldi a gratis».
Poi sono stato in Questura, ho fatta la denuncia, eccetera. Il problema era che i miei soldi erano stati rubati in Italia. Se mi avessero fatto dei prelievi in Romania, mi avrebbero subito bloccato il bancomat. Invece ora dovevo provare che il tale e il talaltro giorno, mentre un ignoto signore si prendeva i miei soldi a Roma o a Ostia, io non stavo né a Roma né a Ostia. Agenda, nomi e cognomi di persone, telefoni.
«Ma quanti prelievi le hanno fatto?», si stupiva l’agente.
«Una quindicina. Di vari importi».
«E lei non si è accorto di niente?».
«Mi ero accorto. Ho telefonato alla banca. Un cretino mi ha detto che non mi dovevo preoccupare, che era uno storno della carta di credito».
«Ah».
Ho portato in banca la copia della denuncia.
«Si può sapere, allora, chi è quel cretino che al telefono mi ha detto di non preoccuparmi, quindici giorni fa?».
«Mi spiace, non siamo in grado di identificarlo. Lei è sicuro di aver telefonato?».
«Mi prende per scemo?».
«Signor Mozzi, lei è sicuro di aver telefonato? Non è che, magari, ne aveva l’intenzione, ci ha pensato, e poi si è dimenticato di farlo?».
Sono andato da quelli dell’assicurazione. All’assicurazione pago centonove euro al mese. Il capitale accumulato è ormai di quattordicimila euro. Più gli interessi. Sono soldi.
«Cosa vuole che siano, centonove euro al mese».
«Guardi, ho una situazione disperata, ho bisogno di liquidità».
«Ma pensi al suo futuro. Sono già undici anni, tra quattro anni avrà terminato il programma».
«Ho bisogno di soldi. Adesso. Sono pieno di crediti che non riesco a esigere. Mi hanno clonato il bancomat. Mi hanno portato via diecimilatrecento euro».
«Ma lei lavora, è un intellettuale, una persona famosa».
«Senta, quello che voglio è chiudere l’assicurazione e portarmi a casa quello che posso».
«Ma così ci rimette».
«Nel lungo periodo sì. Ma il mio è un problema di breve periodo».
«E lei è sicuro che non avrà problemi nel lungo periodo?».
Ho cominciato a non dormire di notte. Io ho sempre dormito come un sasso. Non tanto, cinque o sei ore, ma come un sasso. Basta che io mi stenda sul letto, e parto. Mi sveglio quando suona la sveglia o quando entra la luce. Non è più stato così. Durante il giorno facevo il mio lavoro, stavo anche abbastanza bene, avevo la mente dedicata al mio lavoro. Appena mi stendevo sul letto, mi prendeva la paura. Non riuscivo a dormire. Digrignavo i denti. Mi girava la testa. Avevo paura. Allora mi alzavo, guardavo la televisione. Era un po’ meglio. Due ore di televisione, almeno. Poi ero così stanco che riuscivo ad addormentarmi. Però avevo gli incubi. Mi svegliavo alle quattro di mattina. Dormivo due ore, due ore e mezza. Durante il giorno avevo un rombo nella testa. Non riuscivo a concentrarmi. Allora ho trovato un altro sistema. Andavo all’Alexander Pub con un libro. Una birra, due birre. Alta gradazione. Così riuscivo a dormire. Non avevo gli incubi. Mi svegliavo con un mal di testa feroce. Prendevo la polverina contro il mal di testa. Spendevo i soldi del fido per pagare le birre e la polverina contro il mal di testa, così potevo dormire e lavorare e guadagnare i soldi per uscire dal fido. Per riavere i soldi rubati avrei dovuto aspettare tre mesi, quattro mesi. Così mi avevano detto. Dovevo tenere duro per quei mesi. Ho rinunciato a qualche lavoro perché non ero in grado di pagare le spese che servivano per farlo. Avevo bisogno di più birre. Il mal di testa mi veniva prima ancora di andare a letto. Avevo bisogno di più polverina contro il mal di testa. Non riuscivo a lavorare tanto. Qualche giorno non facevo niente. Stavo lì. Questo succedeva sempre più spesso. Se ero in giro, riuscivo a lavorare. A casa, non facevo niente. Ogni tanto andavo in banca a sentire dei miei soldi.
«Quando me li ridate?».
«Guardi che non ce li siamo mica presi noi».
«Fa lo stesso. Quando me li ridate?».
«Non si preoccupi, la procedura è in corso».
«Io non mi preoccupo, ma mi servono i soldi, non riesco neanche più a lavorare, sto male».
«Se sta male vada dal medico».
Ho cominciato a perdere dei pensieri. Me ne sono accorto perché un giorno ho visto sul mio tavolo dei fogli con una cosa scritta da me, per un lavoro che avevo in corso, e non mi ricordavo di avere scritta quella cosa. Dentro il computer non c’era niente. Un altro giorno mentre sono al supermercato mi chiama una persona:
«Senti, quand’è che mi mandi quella cosa lì, che mi serve».
«Te l’ho mandata per posta elettronica».
«Non l’ho vista».
«Sono al supermercato, appena torno a casa te la rimando».
Il giorno dopo mi chiama di nuovo quella persona:
«Senti, e quella cosa lì? Guarda che non ho visto niente».
«Ma te l’ho rimandata».
«Non discuto. Ma a me non è arrivata».
Io abito a Padova, lui appena fuori.
«Senti, ci sarà un problema, faccio un cd e te la porto stasera».
«Va bene».
Guardo nel computer, quella cosa non c’è. Controllo nella posta, non c’è traccia delle spedizioni. E allora ieri che cosa gli ho spedito? Ma gli ho spedito qualcosa? Mi concentro, cerco di ricostruire il momento esatto della spedizione. Non mi ricordo. Era ieri, no? E comunque, quel testo che gli ho spedito, o che non gli ho spedito, dov’è? Ma l’ho scritto? Questo dubbio mi viene. Adesso so che cosa succede. Succede che faccio delle cose e me ne dimentico. Succede che non faccio delle cose e sono convinto di averle fatte. Provate a lavorare, se vi succede questo. Avrei bisogno di andare in vacanza, di stare tranquillo. E invece, siccome non ho i soldi, siccome quelli che avevo me li hanno rubati – e mi saranno restituiti, ma campa cavallo – sono costretto a prender su una quantità di lavori, anche lavori del tubo, sperando che qualcuno mi paghi. Dovrei essere una scheggia, lavorare quindici ore al giorno. Invece finisce che con tutti questi lavori presi al volo, anche minimi, anche lavori da cinquanta euro, tanto per avere dei soldi liquidi in tasca, mi incasino ancora di più. In questo preciso momento – nel momento in cui scrivo questo – non ho soldi. Non ne ho proprio. Domani dovrei andare a Milano. Per lavorare, per far su dei soldi. Ma non ho i soldi. Se cerco di usare il bancomat me lo bloccano. La carta di credito l’ho usata tutta. Ho dodici euro liquidi. Andare e venire da Milano costa trentasei euro. Posso provare l’andata. Faccio un biglietto non per tutta la tratta, me lo faccio controllare, poi quando passa il controllore e dice «Biglietti non visti» faccio finta di niente. Oppure faccio come gli africani, che si nascondono. Sono anni che viaggio in treno. Ho visto come fanno. Ho imparato come si fa. Gli africani sono bravissimi. Se mi beccano è un casino. A Milano ci devo andare per forza. In un modo o nell’altro ci provo. A Milano ho la collaborazione, da lì viene un fisso mensile. Non posso fare a meno del fisso mensile. Qualche volta ho chiesta un’anticipazione. Me l’hanno concessa. Ma non posso chiederne un’altra, ora. Non posso chiedere un’anticipazione. E’ troppo pericoloso. Uno che chiede un’anticipazione una volta, va bene. Ci può essere il dentista da pagare, la macchina da cambiare, un’urgenza qualsiasi. Uno che la chiede due volte, è sospetto. Un’anticipazione, chiederla due, volte, è già un sistema. Andrò a Milano domani in qualche modo. Magari domani succede qualcosa. Magari mi arriva un piccolo bonifico, magari trovo dei soldi per terra. Non mi era mai successo di pensare: «Qualcosa succederà domani». Come dire: «Qualche santo provvederà». I fiori nei campi vivono e si riproducono e muoiono. Non si curano del futuro, eppure portano vesti splendide. Non lavorano, non si affannano, non trafficano con le carte di credito. Sono ridotto come un’erba di campo. Però non sono capace. Dovrei dormire tranquillo, tanto qualche santo provvederà. Oppure non provvederà, e succederà qualcosa d’altro, e la mia vita se dovrà cambiare cambierà. Non ho mai fatto piani precisi nella vita. Non ho mai perseguito obiettivi di lungo termine. Tutto ciò che di buono c’è nella mia vita, è capitato. Che è come dire: mi è stato donato da altri. Ho colto delle occasioni. Non ho creato occasioni. E se oggi capita che vada così, che mi tocca vivere senza i soldi, non è niente di diverso. Non sono bravo a volere. Io non voglio. Non ho desideri. Non sono bravo a desiderare. Mi pare che in quasi tutte le persone che frequento ci sia un dispositivo del desiderio. Io non capisco come si fa a desiderare. Posso aver voglia di una pera o di una mela. Se ho voglia di una pera e ho una mela, sono contento della mela. Non mi metto lì a trafficare per avere a ogni costo una pera. Quando avevo i soldi fumavo. Non ho mai fumato tanto. Non sono mai uscito di casa apposta per comperare le sigarette. Questo intendo dire. Ho dei desideri, ma non sono così importanti. Non sono capace di agire con determinazione e costanza per realizzare un desiderio. Ho sempre lavorato. Non mi è mai mancato il lavoro. Non mi sono mai mancati i soldi. Questa è la prima volta. Dura da un anno e mezzo. Se consegno questo romanzo mi danno diecimila euro lordi. Non è questo il romanzo che dovevo scrivere. Mi ero impegnato a scrivere un romanzo che, quando lo raccontai a voce, sembrava una storia molto divertente. Una specie di commedia cattiva. Di commedia all’italiana. Un romanzo come Signore e signori. Una storia di provincia. «Questa storia ce l’ho in mente da sei anni», avevo detto all’editore, «ho proprio voglia di raccontarla». Ma se in sei anni che ce l’avevo in mente non l’avevo mai scritta, ci sarà stata una ragione. E infatti. Ho firmato il contratto. Ho ricevuto dei soldi. La prima parte dell’anticipo. La seconda parte, quella grossa, alla consegna del testo finito. Questo il contratto. Non mi sono neanche messo a scrivere. Non ci ho nemmeno provato. Quella storia non mi importava. Non avevo nessun’altra storia. E’ passato del tempo. L’editore mi ha inseguito. Ho fatto quello che si fa di solito. Non ho risposto al telefono. Ho risposto, dicendo cose vaghe. Abbiamo concordato nuove scadenze. Mi sono impegnato per agosto, poi per fine anno, poi per giugno, poi per settembre. I soldi intanto finivano. L’editore aveva pagato, la parte piccola dell’anticipo, non ricevevo altri pagamenti. Lavoravo sempre di più. Non avevo proprio il tempo di pensare al romanzo. Mi è venuto un male. Sono stato all’ospedale. Mi hanno tolto un pezzo di un osso, nella bocca, che era andato a male. Adesso c’è un buco. Per qualche settimana solo cibi liquidi. Acqua e zucchero per stare in piedi. Poi cautela nella masticazione. Avrei dovuto smettere di lavorare per un po’. Ma mi mancavano i soldi. Una volta sono svenuto in treno. Mi hanno tirato su gli altri viaggiatori. Mi hanno fatto sedere, mi hanno portato un caffè.
«Scusate, sono svenuto per fame, mi hanno operato qui in bocca, non posso mangiare cibi solidi, dovrei starmene tranquillo a casa, ma non ho resistito, dovevo lavorare, ho bisogno dei soldi, ho preso il treno per Milano, non mi ricordo più che cosa devo fare a Milano».
«Dovrebbe prendersi una vacanza».
«Lo so, lo so».
«Per lavorare c’è sempre tempo».
«Eh, ha ragione».
«Mai fare oggi quello che puoi rimandare a domani».
Cercavano di farmi ridere. Di alzarmi il tono. Ci hanno provato. Ho fatto finta che funzionasse. Quattro settimane dopo l’operazione ho ricominciato a mangiare. I soldi continuano a non arrivare. Ogni tanto mi dimentico una cosa. Non sono capace di scrivere il romanzo che ho promesso. Ho scritto dei capitoli, o almeno mi pare di averli scritti. Però non so dove sono. Se scriverò il romanzo, mi arriveranno diecimila euro lordi. Se arriveranno i diecimila euro lordi, la mia vita sarà salva. Ho bisogno di questo romanzo, ho bisogno dei soldi.
Soldi, soldi,soldi:angosciante ma bello.
A mio modesto parere, il primo lungo capoverso iniziale si può omettere senza problemi: sa di rodaggio, di warm-up e suona troppo dichiarativo. Anche se può essere apprezzabile stilisticamente la ripetizione della parola “soldi” praticamente in ogni frase.
Il secondo anche, sempre a mio modesto parere. Mi riferisco al giro di telefonate generiche con i debitori.
Dico questo in base alla teoria dell’iceberg di hemingwayana memoria (tagliare gli incipit e immettere il lettore direttamente nel cuore della vicenda – lui lo faceva spesso con i suoi racconti).
Il terzo paragrafo potrebbe essere il vero inizio.
Lo stile è piano, diretto, semplice e ritmato: in altre parole, moderno.
Trovo il contenuto insistente, abbastanza ridondante, a tratti noioso (mi auguro che il romanzo, in seguito, offra qualche variazione), immerso in un’atmosfera claustrofobica (dal bisogno di soldi non si esce), espressionista, quasi alla maniera di Bernhard.
Bisognerebbe leggere il seguito.
Però, consentimi, che brutti (e cacofonici) quei participi passati trattati come aggettivi:
“Non credo di avere mai buttati via i miei soldi. Ho sempre pensato che se avessi sempre lavorato, avrei avuti sempre i soldi.”
Io so che la regola è questa:
– quando il participio passato è retto dall’ausiliare “avere”, rimane invariabile, al singolare maschile (o neutro).
Es: Laura ha comprato le sigarette.
– quando invece è retto dal verbo “essere”, allora può e deve essere trattato come un aggettivo che va in concordanza col soggetto, mai col complemento oggetto.
Es: Laura si è comprata le sigaretta (non “comprato”, né “comprate”).
errata corrige: sigarette.
Come dice una mia cara amica: “i soldi non danno la felicità, ma tolgono il nervoso!”
“quasi alla maniera di bernhard”, dice sciola. e questo non sarebbe un pregio? complimenti a mozzi. ottimo primo capitolo.
è un piacere leggere Giulio Mozzi. Aspettiamo il resto
meglio vincere un concorso pubblico. forza mozzi.
Era più adeguato come commento al pezzo di Franz, ma non penso che qui sia o.t, semplicemente ho perso il treno del thread nel delirio dei giorni che precedono le feste.
Io credo che senza dover optare per una precisa idee se lo scrittore vada fatto a tempo pieno o a tempo perso, sarebbe – porca puttana- il minimo di serietà e di decenza prevedere il rimborso spese più – nei casi che non siano scuole o il circolo dei quattro amici al bar- uno straccio di ricompensa quando lo inviti a far qualcosa. Come succede in tutti paesi civili, tra l’altro. A festival di Mantova il pubblico paga, ma gli scrittori – mi dicono- non ricevono nessun compenso. Al Festivalletterature di Roma ti ospitano in un albergo di stralusso a cinque stelle e ti offrono una cena sontuosissima, ma non ti danno nulla. Mi chiedo com’è che non ci arrivino a pensare che sarebbe meglio riparmiare in stelle e catering, e tirarne fuori anche solo cento e tirare fuori anche solo cento euro. Ecc. Eccezione Pordenonelegge che forse risente già della vicinanza con l’Austria.
Non importa che quel che vai a fare, possa servirti a promuovere il tuo libro. Non importa se sei in condizioni alla io narrante di Mozzi in questo testo o se sei straricco di famiglia e potresti fare a meno di quegli spiccioli. Qui si tratta di ricompensare almeno l’impiego di tempo che uno potrebbe sempre preferire impiegare in altro. E in fondo di una questione di rispetto per cui non credo sia necessario tirare in ballo la Posizione Degli Intellettuali Nella Società Dello Spettacolo. E’ solo la solita Italia ad essere provinciale, scorretta e arretrata nel trattarci come gli ultimi eredi sfigati dei guitti di corte.
Ho notato che in Germania o nei paesi anglosassoni, dove si fanno i reading – sia di prosa che di poesia – di cui spesso i loro autori campano, non esiste quasi nessuno che non sappia leggere i propri testi in maniera sensata e avvincente.
Mio Dio: è la festa del refuso, sto commento…scusate. Conseguenze del natale, temo
Ecco, Helena ha detto in poche righe più sensate delle mie quello che era il cuore del mio discorso.
Poi naturalmente si è andati fuori tema e fuori strada: dal venire a raccontare chi è un autore e chi no (con l’assurdità di dire che uno che fa un altro lavoro per vivere non è un autore), con altre idiozie (tipo che per scrivere bisogna lavorare – come se a lavorare siano solo loro e la scrittura seria non sia un lavoro.) Insomma, qualcun altro ha tirato in ballo lo “sciopero dell’autore2 facendo forse finta di non capire che si trattava di una provocazione, subito sfumata, peraltro.
Quando si parla di cose serie (un adeguato rimborso e un gettone di presenza, magari risparmiando su vitto e alloggio – che qui nessuno pretende le 5 stelle e nemmeno altre stelle al di sotto!) ecco che si apre la voragine, il vuoto; e allora mi viene da pensare che, se una cosa come questa muore nel silenzio solito, non è solo colpa della solita Italia fanfarona e arretrata; perchè a fare restare arretrata e fanfarona questa Italia ci pensano anche gli intellettuali del “non mi sporco la reputazione chiedendo soldi”, del “siamo marginali, lo scrittori in questa società non contano un cazzo e… ah sì, che mestiere faccio? L’architetto, faccio, sì, e ho la pancia bella piena, solo che il mio vizio assurdo, che ho ben sfruttato artisticamente, è quello di masticare amaro sulla condizione umana – Thomas Bernhard, mio maestro, ci fece una fortuna!”. Ogni riferimento al Tashtego non è casuale, e lo dico con la massima stima per lo scrittore.
Però questo dimostra nulla sensibilità per l’altro; la nulla sensibilità per l’altro (a meno che non sia in condizioni penose, vale a dire che se strisci per terra urlando dal dolore vieni aiutato, se stringi i denti perchè sei orgoglioso no, mai) e il senso civico atterrato allo zero nel mare della tranquillità del “me ne frego” (paese fascista di viscere quant’altri mai, la nostra cara bella Italia di Berlisconi e accoliti macrò) fanno di un problema apparentemente marginale come questo un non problema, fanno un silenzio che urla.
Qui c’è troppa gente che fa lo gnorri. Gente pigra, che se ne sbatte degli altri, che se ci fosse un sindacato degli scrittori cercherebbe di ostacolarlo, perchè, dio mio, cosa direbbe il mio editore di riferimento. Avete voluto i Vespa? Avete voluto i Berlusconi e anche questa sbiadita sinistrina delle coltellate? Siete un popolo di coglioni, dunque teneteveli stretti.
All’estero si campa di reading. Qui si va in una struttura prestigiosa, in una città importante, tra stucchi e opere d’arte, e non ti rimborsano nulla.
Allora è vero che per fare lo scrittore devi essere ricco di famiglia, in questo paese?
Altrimenti come potrebbero proliferare le scuole di scrittura?
Mi scuso con Giulio Mozzi se ho parlato d’altro. Forse, però, apparentemente.
Le soluzioni storiche per la pagnotta dell’artista sono state la tutela clericale e il mecenatismo dei ricchi. Fuori dal chiostro e dalla corte non s’è inventato niente di meglio del mercato o della sovvenzione statale. Il mercato (legato al gusto dei più) premia per lo più prodotti di non eccelsa qualità artistica, le sovvenzioni statali premiano partigiani di questa o quella parte. Gli editori, da quando i costi di produzione si sono abbattuti, si preoccupano solo di fare catalogo, e investono poco o nulla in promozione a meno che intravedano “il caso”. Io ho sempre cercato di abbinare presentazioni di libri a reading, facendomi pagare da comuni e biblioteche (in provincia si riesce), ma è chiaro che con questo ti rifai le spese. Per uno scrittore la soluzione può essere campare d’altro (consulenze editoriali, traduzioni, giornali, sono cose per cui un mercato esiste e comunque preferisco questo che mendicare prebende ai potenti). La situazione è identica per i musicisti, e per moltissime altre attività artistiche. Lo sciopero dell’autore (non mi muovo senza spese) io l’ho iniziato da un pezzo, ma pensare di vivere di sola scrittura è implorare un mondo che non esiste.
Veramente Valter qui si “implorava” il “minimo sindacale” che è tale, davvero, in molti paesi europei. Poi, per carità, siamo dei privilegiati perchè non (ancora) costretti a dare via (mi perdonino i signori colleghi) il culo, per i più “carini”. (Io “temo” di essere fuori “target”).
Tutto qui. La “solfa” che ci hai appena servito mi pare la conoscano tutti. Poi, sempre per carità, nel Klondike, data la scarsezza d’oro, hanno bandito una “caccia all’acqua calda” che dovrebbe vederci tutti – tu in testa – come protagonisti.
Vedi, questa tua incursione, che ribatte sempre sulle solite cose, è un esempio di quell’atteggiamento di cui dicevo prima, anche se fatto in assoluta buona fede (ti conosco ormai bene, e ne sono felice.) Cioè tu, caro Valter, vieni qui e la cosa migliore che sai fare è scoprire l’acqua calda, informandoci del fatto che il panettone è stato inventato a Milano e che i saltinbocca alla romana sono davvero un piatto della cucina romana!
Io personalmente, ancora una volta, mi sento preso (indirettamente, e in buona fede) per i fondelli.
Invece di far valere i nostri diritti, veniamo a parlare dei conti degli editori. Allora: posto che gli editori non cacciano una lira (e in certo senso non gli si puo’ dare loro torto, visto che comunque un minimo investimento l’hanno pur fatto) se tu vai al Circolo dei Lettori di Torino, sovvenzionato dagli enti pubblici (e facciamoli i nomi, no?) e quelli si aspettano da te solo un “grazie” perchè loro ti hanno permesso di “esibirti” davanti a 7 ottuagenarie scampate alla messa delle nove (non c’era il prete preferito, sapete…) è chiaro o non è chiaro che ci troviamo di fronte a una stortura?
Non sarà una stortura grave, non saremo stati trattati come i “diversamente accampati” (tra un pò chiameranno così gli zingari per distinguerli dai tedeschi in roulotte), ma porco cane, vi sembra un trattamento degno di questo nome?
Nessuno pretende niente di strano. Io personalmente, come molti di voi, sono uomo spartano, cresciuto con tutto il necessario ma senza fronzoli. Una cameretta riscaldata di inverno va più che bene.
O dobbiamo andare a dormire dalle suore, quando siamo in trasferta?!
… E ho saputo, ah sì ho saputo, che uno come Mario Vargas Llosa, in un comune perfettamente italiano, è stato trattato da certa gente della nostra “parte amica” come l’ultimo dei paria della letteratura. Mario Vargas Llosa. Ecco dove ci troviamo
Franz, raccontaci questa storia di Vargas Llosa, che non la conosco…
Sempre farsi pagare sull’unghia.
Mai fare un lavoro e aspettare che ti paghino: nel mondo dell’editoria son tutti squali, bastardi fino al midollo, e falsi soprattutto. I migliori, quelli che si spacciano per degli intemerati, per dei poveri cristi figli di Dio, poi sono i peggiori, viscidi fino all’inverosimile. La regola d’oro è una sola quando si ha a che fare con il mondo editoriale – che è come dire, aver a che fare con la mafieria: “Pagamento anticipato”.
E lo scrittore a tempo pieno lo fai sei hai le palle quadrate, cioè se hai talento da vendere, cosa che qui in Italia hanno ben pochi; quindi tutti gli altri che si rassegnino e si trovino un vero lavoro, nonostante la crisi imperante, e non rompano gli zebedei, perché nessuno, ma proprio nessuno, è disposto a pagare per delle cazzate men che meno lo Stato, che con l’editoria non dovrebbe mai e poi mai aver a che fare. Ribadisco che di imbrattacarte l’Italia è strapiena e non è possibile pensare di dare uno stipendio a ognuno di loro; e se si dovesse mai dar credito a una simile stronzata, allora ogni libero professionista dovrebbe percepire uno stipendio statale a fronte del suo impegno, perché non è possibile pensare che in una democrazia venga fuori una classe di privilegiati, gli imbrattacarte statalizzati con stipendio statale, marchette, ecc. ecc. O lo stipendio statale per tutti i liberi professionisti o a nessuno. Che i tanti azzeccagarbugli, incapaci boriosi e biliosi, si trovino un lavoro serio: poi se gli rimane del tempo potranno pure darsi alle loro pratiche onanistiche e narcisistiche, la scrittura sotto l’egida dell’incapacità.
Gianni, è una storia che può raccontare (se vuole) l’amico Martino Baldi. Comunque Llosa è stato trattato da un amministrazione locale “col culo”, e questo è squalificante per tutta la categoria, semperchè esista ( qualcuno per inciso spieghi a Iannozzi che nessuno vuole uno stipendio statale, anche se in paesi come l’Olanda – testimonianza di Marino Magliani, che ci vive – lo scrittore ha diritto a un piccolo sussidio; ma noi, che siamo su Marte, non chiediamo questo, ci fermiamo a rimborsi e scontrini con su scritto “arrivederci e grazie”.)
Tornando a noi, Gianni, cioè a discorsi seri, il “trattamento” “regalato” a Vargas Llosa mi è stato reccontato da Baldi che conosco di persona, che apprezzo come intellettuale e che so essere persona molto seria. Provo a scrivergli – se vorrà intervenire qui con questa e magari con altre “edificanti storielle” di “malaoperatività culturale”…
Franz, io non so se scopro l’acqua calda o il principio di realtà (forse è la stessa cosa), e comunque l’aspetto “sindacabile” su cui mi trovi daccordissimo è smettere di scrivere gratis (anche per giornalisti “amici”) e di muoversi gratis (anche per circoli “amici”), perchè come insegnava Marz è l’esercito di riserva dei disoccupati disposti a sostituire gli scioperanti a far crollare i salari. Dopo di che, però, bisogna chiedersi se chi ospita, a sua volta campando di volontariato, ha o non ha le risorse per pagare le spese. C’è gente che organizza occasioni di cultura praticamente a proprie spese, contando su un identica propensione alla militanza degli scrittori. Mi spiace dirlo, ma qui la parola chiave è “militanza”. I circoli di sinistra hanno fatto leva su questo quando la parola aveva un senso, e continuano a farlo adesso quando la parola non ce l’ha più.
Marz è quello che viene prima di Asteriz
Confermo, Franz. Quando il tuo lavoro di scrittore in Olanda produce un reddito che non é sufficiente ( e per questo sei costretto a fare anche altro ) intervengono degli istituti, dei fonds, e ti sostengono per un dato periodo, quattro anni, mi pare, fiinanziandoti un progetto, che sia un viaggio di lavoro per un libro. Una traduzione.
Io credo che questo succeda in molti posti. Nordici.
Mi piace perché sembra il diario di uno scrittore e ti lascia la sensazione che il vero romanzo, quello trascurato, quello che non si sa come va a finire, sia la vita.
IMHO (e riportando il 3d nei suoi glifi appropriati), questo incipit di romanzo mi lascia un po’ perplesso. Certo, è bello, ma è l’assemblaggio che mi rende un po’ dubbioso. I primi righi entrano subito in merito, il bisogno ossessivo di soldi viene subito dichiarato, Mozzi gioca a carte scoperte (è nel suo stile), ma appunto l’iterazione martellante, compulsiva, del bisogno di soldi da parte del Mozzi personaggio brucia forse le tappe, tant’è che le successive telefonate, ossia uno dei “retroscena”, non possono costituire un climax in crescendo, ma abbassano per così dire la tensione in un anticlimax diluente che sa di “pezze d’appoggio”. Certo, poi bisognerebbe saperne (leggerne) di più. E a parte la faccenda del bancomat clonato, in cui il personaggio, con quel bisogno disperato di soldi che ha, se ne sta della giustifcazione telefonica fatta da un impiegato di banca senza ulteriori verifiche e controlli al c/c.
OT: d’accordo con Binaghi. La differenza fondante mi pare quella tra “militanza” (parola che oggi andrebbe ridefinita, visto come se la giocano editori e amministrazioni di “””sinistra”””) e rivendicazione salariale dell’autore. Per la prima il discorso è politico, per la seconda basterebbe mettere in piedi un tavolo di “concertazione” sindacale (se gli autori fossero un corpus, una categoria sociale, ma vista la fine patetica che hanno fatto i vari sindacati degli scrittori, tutto ciò resta nel libro delle buone intenzioni)
Ricordo che anni fa, al tempo dei panettoni avvelenati [cfr. http://www.italyflash.com/italyflash/shortt/newsit/archive/981216_2.shtml dopo circa tre anni di traduzioni regolarmente eseguite, consegnate e pubblicate da una NOTA casa editrice, ma da questa MAI pagate, inviai all’Ansa il seguente messaggio:
“Ho avvelenato con estratti della mia bile due volumi della casa editrice Tal dei Tali” , spiegando i motivi della protesta.
La notizia, evidentemente ironica, fu controllata e ripresa da tutta la stampa nazionale. Fu il mio andywarholiano quarto d’ora di celebrità. Naturalmente la casa editrice, davanti allo sputtanamento, si affrettò a saldare il suo debito.
(Da: http://www.lucioangelini.splinder.com/post/7968850 ]
http://it.youtube.com/watch?v=kIiFDjmoVig
Ma quale militanza! dài, si va al risparmio e basta. Non raccontarmi le favolette, anche se è Natale.
Il principio di realtà è opinabile, sempre più.
Ps.: effettivamente l’incipit di questo brano ha troppi “soldi”; Bernhard avrebbe usato una parola perlomeno trisillabica, “soldi” ha zero musicalità, “denaro” non la usa nessuno. Detto questo interessante inizio.
Complimenti a Lucio per come ha condotto la faccenda, dimenticavo di dire.
Suvvia, lo stesso Mozzi, leggendo questo suo primo capitolo, cosa farebbe? Mozzi, si legga! O si rilegga meglio. Se ha tempo…
Mi ha deluso. Il contenuto è telefonato, anche se l’idea è bella.
Franz: sono completamente d’accordo su ciò che sostieni e non andare dove non ti pagano mi pare il minimo. E’ un lavoro e come tale deve essere trattato, non può essere trasformato nel ‘sollazzo’ degli organizzatori delle varie ‘occasioni culturali’.
Blackjack.
Grazie Franz. Va da sé che non mi ero minimamente sognato di lesionarmi il dotto epatico per estrarne alcun quantitativo di bile, mentre era verissimo che la casa editrice mi dovesse svariati milioni di lire di arretrati. Di rivolgermi a un avvocato, anticipando altri soldi, non avevo nessuna voglia. Si sa quanto siano lente e incerte le cause in Italia, dove la Giustizia – ahinoi! – tutela più Caino che Abele…
Forse c’entra come il cavolo a merenda, ma a puro titolo d’esempio, qualcuno dei dotti intervenuti, ha messo il nasino dall’altra parte dell’Oceano ?
Alludo allo sciopero degli sceneggiatori che ha creato non poche noie, paventando addirittura l’eventuale annullamento o slittamento della cerimonia della consegna degli Oscar di quest’anno.
Diverse le condizioni ambientali. Laggiù, non so in forza esattamente di cosa, sono usi rispettare il lavoro di chi scrive un film tanto e quanto quello del regista che lo dovrà girare. Lo dicono i compensi, ma prim’ancora della monetizzazione, c’è una cultura, una cultura del rispetto per un lavoro oscuro, “dietro le quinte” è proprio il caso di dire.
Potere del sindacato ? Eppure stiamo parlando della (ahimè) tanto vituperata patria del capitalismo.
Cosa hanno fatto gli scrittori laggiù ? Hanno scioperato, e l’industria è andata in tilt.
Paro paro come da noi…
Il racconto è in ogni caso inverosimile: nessuno lo paga e il protagonista più che sbottare con finissima educazione altro non fa. Diciamo pure che è un pezzo anestetico, però ottimo se fosse il canovaccio per una puntata dei Puffi: solo in un caso del genere funzionerebbe. Così com’è manca di realismo, tranne nel caso il protagonista sia un lobotomizzato totale.
Cosí com’é manca di realismo, secondo me, Mozzi lo prende come il piú bel complimento finora ricevuto, Iannozzi.
Una cosa mi ha sconvolto. È impossìbbile che qualcuno ti risponda a telefono… Senta, non rompa. Impossìbbile, capisci? Ti mettono in attesa. Fanno cadere la linea. Ma è impossìbbile che ti dicano… Senta, non rompa.
Mi sembra di aver notato una cosa singolare (o ho di nuovo scoperto l’acqua calda? cmq in questo clima rigido anche l’acqua calda può essere utile). Lo stesso brano letterario, postato sul blog del suo autore, ha ricevuto quasi esclusivamente consensi ed elogi. Qui, in un altro blog, anche se amico, gli elogi si sono alternati alle critiche. Ma l’abito fa il monaco?
@Macondo
L’ho notato anch’io.
Benché anche qui, su NI, non ci sia tanto da scialare.
E’ che vige la regola dell’unanimismo, mi pare, della parrocchia.
I commentatori impauriti di Vibrisse aspirano tutti più o meno a farsi pubblicare da Mozzi, pensando lui abbia questo grande potere.
Dunque, in prima istanza (maro’), si tratta di mancanza di coraggio.
Secundibus: di incompetenza.
Sai, il Mozzi, in quanto editor è quello che bacchetta gli alunni sulle dita.
Anche se sa il fatto suo, per il poco che ne so e ne ho letto.
Chiunque scriva ha bisogno di un editor, anche se fa l’editor per necessità o virtù.
Vedi la questione di Carver con Gordon Lish.
Anche Gordon Lish avrebbe bisogno di un editor quando scrive delle cose in proprio (mi risulta che abbia scritto un libro di narrativa senza aver ottenuto risultati apprezzabili).
E vedi anche quell’altro, italiano (ma non ricordo il nome), che ha un’agenzia letteraria che si occupa dell’editing di Veronesi e altri.
Adesso ha pubblicato un libro di fiction anche lui, ma questo non gli ha impedito di buscarsi un sacco di critiche più o meno avvelenate.
Somiglia alla faccenda della pagliuzza nell’occhio dell’altro, qualcosa del genere.
Qui però, grazie anche a Biondillo – che non si stanca di sollecitarci all’esercizio della critica – siamo combinati un po’ meglio, specie da quando sono arrivato io (lo dico con molta autoironia, nel caso).
Io penso che l’importante sia mettere il “testo” al centro della nostra attenzione, senza scadere nel personale e nella volgarità gratuita e nell’invettiva.
A questa regola, personalmente, io cerco di attenermi.
Anche se so di non piacere.
molto bello. sempre ricollegandosi a questo filone, segnalo un resoconto agghiacciante di giorgio fontana che ho appena letto su “il primo amore” a proposito di una sua esperienza lavorativa presso la libreria hoepli di milano. dedicato soprattutto a quelli che affermano che “lagnarsi” di queste cose significa avere della cultura “una concezione sacrale e anacronistica”.
@ “dottor” Sciola,
Ho un pour parler con Giulio Mozzi per la pubblicazione, presso enne editori (non è una nuova casa editrice), a puntate, della serie Procasma, della completa bibliografia di Alex Fringberger, declinata in più volumi, e infine un thriller, al momento ancora in corso d’opera, il tutto da qui ai prossimi sei, sette anni.
Ritengo pertanto lesive e prive di fondamento le sue affermazioni, non prive di un certo snobismo di ritorno (ma quello di andata dove è andato a finire ?), in merito alla competenza degli “avventori” della taverna Vibrisse & C.
Sono altresì convinto che questa difesa d’ufficio, mi porterà ad ulteriore merito et considerazione agli occhi dello stesso Mozzi della mia modestissima opera.
MI inchino al profondo senso critico che pervade ogni sua parola negli interventi di codesto thread, e resto abbagliato dalla Sua immane sapienza, distillata in cosi poche righe.
Scomodare l’architetto Biondillo, inoltre, a nume tutelare di Santa Romana Critica, a giudicare dalla sua dotta esposizione di cotanti, pregnanti, concetti, non fa che avvalorare la tesi dello scolaretto diligente che, in assenza del maestro, sale in cattedra ed illumina gli astanti, con la sua dotta sapienza.
Sperando, a sua volta, di essere osservato.
Resti fermamente convinto delle sue tesi, almeno non prima di aver dato alle stampe qualcos’altro.
Cordialità di fine anno
A me questo scritto ricorda da molto vicino il principio di “Fantasmi e fughe”.
@ cletus
Cordialità anche da parte mia.
E auguri per le sue future pubblicazioni settennali, anche se declinate in più volumi.
Con incipiente stima.
Dr. Scholtz.
(PS: mi saluti l’architetto, se lo vede)
Trovo curioso che il mio commentino sull’affinità di questo primo capitolo con il principio di un altro libro di Mozzi, “Fantasmi e fughe” – che avevo riportato pari pari anche su Vibrisse – sia lì sparito, non abbia passato la fase di moderazione. L’affinità per me è davvero evidente, me ne chiedevo la ragione.
Per Giuseppe Catozzella: evidentemente trovi curioso che io, di tanto in tanto, vada in vacanza.
Alcuni commenti a questo estratto, in vibrisse, non sono stati pubblicati perché anonimi (quelli di “Macondo”, ad esempio, vengono pubblicati: perché lui almeno si firma con un indirizzo vero. Su questo argomento ho avuta con lui una discussione privata). Uno non è stato pubblicato perché inviato da una persona che ritengo un disturbatore di professione (e quindi lo classifico nello spam). Per alcuni altri devo ancora controllare se almeno gli indirizzi forniti sono validi.
Pensare – come fa Paolo Sciola – che le persone che intervengono in vibrisse siano “impaurite” da me, e che “aspirino tutti più o meno” a farsi pubblicare da me, mi pare un bell’esempio di astensione dal pensare.
Quanto ai rimborsi spese eccetera, mi pare che siamo alla fiera delle banalità.
Sciola, se su NI, come sostieni, “non c’è tanto da scialare”, ti invito ad astenerti dai commenti. L’esortazione è molto seria, poiché risulta difficilissimo armonizzare l’albagia da scolaro che contraddistingue i tuoi commenti col tentativo goffo e più volte ripetuto di far apparire cose scritte da te in una sede tanto deprecata.
Spero che tu rifletta per tempi geologici prima d’incidere altre frescate. Quando lo farai, perché ahimè lo farai, ma molto presto temo, trascrivi per cortesia (da una fonte a piacere) la legge grammaticale sull’accordo del participio che hai lasciata in testa alla discussione. Posto che quelle tue frasi abbiano un senso.
@ domenico pinto
Lo faccio subito, prima di levare definitivamente il disturbo.
http://it.wikipedia.org/wiki/Participio_passato
http://lab.chass.utoronto.ca/italian/verbi/cosa.html#participio%20passato
http://forum.accademiadellacrusca.it/forum_7/interventi/2147.shtml
http://forum.accademiadellacrusca.it/forum_7/interventi/2126.shtml
Peccato, perché mi stavo divertendo.
Ma il tuo intervento intimidatorio, insieme a qualche altro, dimostra che la presunzione, se c’è, sta da una sola parte.
E anche la paura che suscita una mente libera a chi la mente libera ancora non ce l’ha.
In ogni caso, Buon Anno a tutti.
(non replicherò).
Paolo Sciola.
Va’ felice e libero, Sciola.
Poi, ciascuno confronti, se ne ha voglia, le frasi di chi avrebbe bisogno di una grammatichina tascabile e di un Crash-Kurs di logica con i link segnalati sopra. Per comodità riporto la fulgida sintesi di Sciola (26 dicembre 2008 ore 10:31). Grassetto della redazione :-)
Io so che la regola è questa:
– quando il participio passato è retto dall’ausiliare “avere”, rimane invariabile, al singolare maschile (o neutro).
Es: Laura ha comprato le sigarette.
– quando invece è retto dal verbo “essere”, allora può e deve essere trattato come un aggettivo che va in concordanza col soggetto, mai col complemento oggetto.
Es: Laura si è comprata le sigaretta (non “comprato”, né “comprate”).
Goulio, abbi pazienza: dici che il discorso sui rimborsi spese è “fiera delle banalità”.
Ma il discorso NON è solo sui rimborsi spese. Il discorso è ampio.
mio nipote, prima media che ama i libri sulla storia e la ‘fantascienza’ del medievo e che legge due libri alla settimana, mi chiede zio mi aiuti a scrivere un romanzo sugli alieni e io dico vabbè senti questa e lui ‘sì, geniale’ poi mi dice mi aiuti ad aprire un blog? ci voglio mettere il primo capitolo e io: no. perché? fa lui, mi copiano? no, faccio io, peggio… certi blog fanno passare la voglia di scrivere e sognare (e di vivere, aggiungo tra me). e cosa faccio col blog? nulla, dico io. e poi aggiungo: scrivi il libro a penna, come i grandi scrittori di una volta, al massimo ti presto la macchina per scrivere. e oggi non ci sono scrittori? chiede lui. rarissimi. e perché? fa lui. perché amano i soldi e la gloria e non gli uomini e le idee. ah si? fa lui. sì! faccio io, secondo me sì. scrivono tutti, medici, architetti, avvocati, preti, attori, calciatori, veline, correttori di bozze, tutti, tranne gli scrittori senza soldi che lavorano otto ore al giorno e non hanno una lira per farsi pubblicare. allora scrivo? certo… mica sei un figlio di papà….
domenico… sei terribile! :))
Breve riassunto sui participi.
Regola base. Nei tempi composti dei verbi transitivi, il participio va concordato con il complemento oggetto quando il complemento oggetto precede il participio stesso.
Es.: “Ho mangiato la mela”, ma “La mela che ho mangiata” (il “che”, pronome relativo, è complemento oggetto del verbo mangiare).
Altro es.: “Hai mangiato la pera?”, “No! La mela, ho mangiata!”, ecc.
E’ sicuramente un po’ antiquato, forse è bizzarro, magari è anche un semplice vezzo: ma far concordare i participi anche oltre ciò che è richiesto dalla regola base non è errore. Può piacere o non piacere (e su questo non discuto), ma non è errore.
Ne parlai con il prof. Francesco Sabatini, presidente dell’Accademia della Crusca dal 2000 al maggio scorso; ed egli mi confermò quanto sopra ho riassunto.
(Conobbi Sabatini in treno. Lui stava correggendo le bozze di un articolo sul congiuntivo nei narratori italiani contemporanei. Io stavo leggendo “Julia. Le avventure di una criminologa”, fumetto della pregiata casa Bonelli. Attaccai bottone, e finimmo col parlare anche di participi).
Invece dei participi, Mozzi, dì un pò perchè ritieni certe cose “la fiera della banalità”. Sono quelli come te (intimamente superficiali) che indirettamente “fanno violenza”.
fanno violenza anche ai participi passati. E, per rimestare nel torbido, direi che la regola è quella ripetuta da Mozzi all’incipit del suo post (dunque nessuna disfida di Barletta). “La mela? l’ho mangiata”, ecc. Del resto, la stessa cosa vale, ad es., per i nostri cugini francesi. L’esempio portato da Mozzi: “No! La mela, ho mangiata!”, più che un “vezzo”, mi pare un uso dialettale. Ma si farebbe prima nel dichiarare che i participi sotto accusa sono “licenze poetiche”. (E se una mela simbolica fu la causa dellla cacciata dal paradiso terrestre di Adamo, chisssà questa mela virtuale quali guai causerà al povero macondo…)
Licenza poetica, intendo (ma che poco pratico questo sistema dove per aggiungere qualcosa al proprio post bisogna scriverne un altro), perché è l’unica a dar ragione della frase questionata: “Non credo di avere mai buttati via i miei soldi. Ho sempre pensato che se avessi sempre lavorato, avrei avuti sempre i soldi”, in cui la forzatura (perché tale è) grammaticale serve a sottolineare semanticamente l’ossessione dei soldi da parte del protagonista Mozzi, verso cui l’autore Mozzi non dimostra solidarietà perché se ne va in vacanza quando il suo personaggio è in bolletta nera.
Franz, tu hai scritto certe cose. La discussione è (in parte) finita sui rimborsi spese eccetera. Io ho scritto che i discorsi sui rimborsi spese sono la fiera della banalità. Tu fai notare che nel tuo articolo hai fatto un discorso molto più ampio. Il che è vero, ed è sotto gli occhi di tutti. Quindi è sotto gli occhi di tutti che io non ho scritto che il tuo discorso molto più ampio è la fiera della banalità. Ho scritto invece che il tempo perso a parlare dei rimborsi spese eccetera, ossia la degradazione del tuo discorso molto più ampio, è la fiera della banalità.
Macondo: circa i participi, non si tratta – soggettivamente – di uso dialettale. Dico “soggettivamente” nel senso che io non conosco nessun dialetto nel quale i participi funzionino nel modo in cui li faccio funzionare io: il che non esclude che possano esistere dialetti nei quali i participi funzionino nel modo in cui li faccio funzionare io (ma allora sarebbe improprio parlare di “uso dialettale”; si potrebbe parlare semmai di coincidenza). Si tratta invece, come ho scritto, di un uso un po’ antiquato.
@ giulio:
“io non conosco nessun dialetto nel quale i participi funzionino nel modo in cui li faccio funzionare io”, tu dici, ma nel contempo non dici la ragione testuale (il modo) per cui li hai fatti funzionare così. Benissimo, ma malgrado il silenzio dell’autore, il testo chiede di essere interpretato. Ossia, al di là dell’autore, resta il testo, continuamente interpretabile anche dopo la dipartita (tocchiamoci le…) dell’autore stesso. Quando l’autore congeda un testo letterario, l’ultima parola non spetta più a lui. Ma alla comunità dei lettori e dei critici. Pensa che noia e che tautologia sarebbe l’esercizio dell’interpretazione letteraria se ci si dovesse limitare all’interpretazione data dall’autore. E’ questo il sale del conflitto delle interpretazioni, che attualizzano il testo,anche se scritto qualche secolo fa. Invece, per tornare a noi, mi pare che un vezzo comune agli autori, quando presentano un loro testo letterario, sia quella di voler dire l’ultima parola perché loro lo hanno scritto, quindi sanno cosa hanno voluto dire. Se l’autore avesse l’esclusiva della verità sul proprio testo, allora non esisterebbero più complessità, profondità, “cangianza” del testo nel proprio cursus storico-letterario.
PS.: quanto ai dialetti, anch’essi sono arcaici. E pensando al tuo costrutto coi participi, mi è venuto (pardon: venutA) alla mente certa costruzione frastica e posizionamento dei participi tipica di dialetti come il pugliese.
Macondo, se tu leggessi quello che ho scritto, ti accorgeresti che non ho preteso di avere l’ultima parola sul testo. Ho fornita un’informazione sulle mie intenzioni e sulle mie competenze linguistiche (prego notare l’avverbio “soggettivamente”): ho quindi fornito nuovo materiale epitestuale, forse utile a chi volesse darsi all’interpretazione.
L’esempio che tu fai (“mi è venutA alla mente certa costruzione ecc.”) è del tutto fuori luogo: la concordanza del participio con il soggetto nei verbi intransitivi è tutt’altra cosa della concordanza del participio con il complemento oggetto nei verbi transitivi.
Libertà d’interpretazione, certo. Ma prima di darsi all’interpretazione, si prega di intendere la lettera.
«E’ strano il denaro. Ed è strana l’identità. Siamo noi perché il nostro cagnolino ci conosce, ma quando il nostro pubblico ci conosce e non vuole pagare per noi e quando il nostro pubblico ci conosce e vuole pagare per noi non si è la stessa persona.»
Gertrude Stein
Ma “venirmi alla mente” non è riflessivo (improprio)? Cmq, tant de bruit pour une omelette! dicono i francesi. Mi sa che giriamo tutti attorno alle stesse regole
Mah Giulio, mah.
Giulio: sei andato subito a parlare di scontrini. Tu hai parlato solo di quelli. Del resto te ne sei sbattuto. Dai, non mi deludere. E non prendermi per un ingenuo, che non lo sono.
No, Macondo: “mi è venuto in mente” non è riflessivo. E tutta questa discussione sui participi (quando basterebbe sfogliare una grammatica) non me la non inventata io.
Franz: ti segnalo un mio pezzo intitolato “Scrivo questo romanzo perché ho bisogno di soldi”, pubblicato in Nazione indiana. Non vi si parla solo di scontrini.
Detta con la maggiore ingenuità possibile:
Ci sono le condizioni, in quest’Italia, per configurarsi come sindacato ? Cose tipo contrattazione collettiva, possibile che valgano solo per alcune categorie di lavoratori e per quelli che hanno a che fare con l’intelletto no ?
qualora fosse sfuggito, citando l’esempio degli sceneggiatori americani, ho chiesto questa cosa in un commento sopra.
E’ una proposta, banale quanto si vuole, ma non va nella direzione del post ?
Sì, Mozzi, grazie, l’ho letto. Ma se tu passi molta parte del tuo tempo a rispondere, nei commenti, a gente che non fa che disturbare, io trovo, se permetti, poco conveniente per tutto il discorso che tu faccia arrivare il tuo verbo da un racconto. Mi segui? Sei molto bravo ad argomentare. Io penso che hai preso la palla al balzo di una discussione molto pratica e seria e ci hai piazzato qui il tuo ultimo parto letterario. Poi, con proverbiale arroganza, mi fai notare una cosa – la presenza del tuo racconto qui – di cui si accorgerebbe anche un cieco.
Credo che il racconto pubblicato qui sia stimolo per tutti noi a riflettere su noi stessi e sulle nostre opere e sulla possibilità e necessità di trovare nuovi modi di pubblicare e vivere di questo “”lavoro””.
Franz, io non ho “piazzato qui” in Nazione indiana questo testo. Domenico Pinto l’ha letto in vibrisse, mi ha chiesta l’autorizzazione a pubblicarlo in Nazione indiana, e io l’ho concessa.
Poi scrivi: “trovo, se permetti, poco conveniente per tutto il discorso che tu faccia arrivare il tuo verbo da un racconto”. Ti dirò: se è tua opinione – come hai scritto – che “un autore è un professionista della scrittura, che è capace anche di dare un valore aggiunto: il valore aggiunto artistico”, trovo bizzarro che tu disprezzi un testo che parla dell’argomento in questione proprio con una aggiunta di valore artistico.
Vedo comunque che hai inserito questo tuo commento ieri alle 12.14, proprio mentre io stavo scrivendo il pezzo che ho pubblicato in vibrisse alle 12.42. Pezzo che, rigorosamente, non contiene nessuna aggiunta di valore artistico, ma si limita a dichiarare un’opinione:
http://vibrisse.wordpress.com/2009/01/04/scrittori-e-professionisti/
Certe volte, magari, basta un po’ di pazienza. Perché, vedi, Franz, io ho letto il tuo intervento, ci ho pensato sopra, ne ho parlato con un paio d’amici. E per questo ci vuole tempo.
Mah. Hai sempre tanto tempo per rispondere agli Iannozzi di turno, ma forse stai smettendo di fumare e fai così per distrarti dalla “scimmia da nicotina”.
Il racconto l’hai piazzato tramite Pinto, in un modo o nell’altro. Non giriamo attorno alle cose. E chi ti ha detto che l’ho disprezzato? E’ un ottimo racconto, ma è una risposta indiretta.
Ora tu mi annunci, anzi annunci ai lettori, che hai preparato un intervento su Vibrisse. Andrò a leggerlo ed eventualmente esprimerò il mio pensiero.
Ma ci vuole tempo…
Franz, ho chiesto io a Mozzi la possibilità di pubblicare su NI il pezzo, visto che affronta temi di cui spesso si è parlato. Non era sua intenzione “piazzare” nulla.