Trip Tryque Trac
ovvero dei tre movimenti (e dei suoi autori)
Bacio Rosie sul collo, più d’una volta. Il suo odore pungente mi fa contento come un bambino.
Giuseppe Schillaci
Passante: – Mi scusi, Signore, ma che dice? Perché mai qualcuno dovrebbe voler comprare per l’anno nuovo un qualcosa di antico e usato? Ma poi, usato da chi?
Gianni Campi
Uno tenta sempre di fare il meglio e di essere al meglio – poi c’è tutto un mondo intorno e le cose migliori possono diventare impossibili
Guido Tedoldi
Giuseppe Schillaci
Rosse: le vetrine, le tovaglie, le foglie.
Pulsano le strade, le vene nel ventre.
Volteggiano gambe di plasma e voluttà.
Sinistre ministre delle pari opportunità.
Il Pandino ruggine di Nino digrigna le gomme contro l’asfalto e caracolla sotto lumi pulsanti d’auguri. Come tradizione, il giorno della festa si va alla Marina a fare il giro delle Nere.
Nino passa da casa mia e andiamo verso il mare, l’addome rigonfio d’antipasti e dolci. Giunti al parcheggio, abbassiamo il finestrino. Aspettiamo una carezza, lingua tra le labbra, mugolii da rievocare per eccitazioni solitarie.
Il cielo rossastro si vela di grigio, quando Nino, senza una parola, infrange il classico rituale, apre lo sportello e scende. Lo seguo, automa imbottito di cibo, tra la bruma del terreno cespuglioso. Ci addentriamo nella terra proibita che separa il parcheggio dai megaliti del porto e siamo subito circondati da trecce corvine, narici guerriere, pizzi luccicanti e curry.
Rimango immobile, inadeguato alla contrattazione. Le Nere bisbigliano, squittiscono, ululano: amore, bello, tesoro mio. Io non riesco ad articolare suono, continuo a ciondolare la testa, mentre il cielo diventa più scuro. Nino si muove rapido, parla con tutte, chiede il nome e la provenienza: Cindy, Terry, Michel, Rosie, Camerun, Senegal, Ciad.
Rosie è la più bella, mi avvicino, le chiedo da quanto sia in città.
“Poco, stata Milano, Firenze…”
Le chiedo se le piace Firenze; lei dice vagamente di sì. Poi mi chiede, per la seconda volta, se voglio fare l’amore. Io annuisco, domando se le piace stare alla Marina. Rosie sorride, gli occhi d’amazzone, le labbra languide: “Secondo te, amore?” Mi prende sotto braccio e mi porta verso il mare.
La sagoma di Nino spunta da dietro una palma nana. La Nera è piegata e lui spinge con l’anca, fissa estasiato l’orizzonte.
Io e Rosie raggiungiamo il piccolo fuoco attorno cui si radunano le altre. Nessuna di loro viene avanti per corteggiarmi; mi sento un ospite adesso. Chiedono il mio nome e sghignazzano felici, perché nella loro lingua, mi spiega Rosie, quel suono vuol dire “pollo”.
Poi Claire, il viso d’ossidiana, le spalle rotonde, prende a cantare una canzone di Phil Collins e le altre fanno il coro. Cindy saltella sulle scarpe da tennis e intona l’altra strofa con voce di soprano. L’eburneo inglese, a quanto pare, è l’idolo della Marina.
Nino alza i pantaloni dal terreno freddo e ci raggiunge raggiante, mentre la sua Nera accende una sigaretta e dirotta i tacchi verso il parcheggio.
Dal mare s’alza una tiepida brezza. Cindy m’obbliga a cantare, poggiandomi sulle spalle i seni imbottiti. Bacio Rosie sul collo, più d’una volta. Il suo odore pungente mi fa contento come un bambino.
All’improvviso, s’agitano ombre. Strilli, fischi, braccia a sventolare.
Rosie mi sorride, sussurra “ciao, tu bravo… ritorni” e corre verso le giostre, dietro alle altre.
Nino e io scappiamo nella direzione opposta.
Dopo qualche istante, le sirene squarciano il cielo e due minigonne rosse sono caricate su una gazzella. Guardiamo la scena da lontano, i movimenti severi delle guardie.
Strisciamo dentro il Pandino, Nino mi chiede se ho scopato. Annuisco anche a lui.
Accende il motore e partiamo senza frizione. Un traffico assonnato serpeggia per le strade della festa.
“Voglio andare a Dakar” dico.
“Chissà che fine fanno queste nere?” fa Nino con una voce triste, commiserazione e indifferenza.
“Speriamo che le lascino in pace”
“A momenti arrestavano pure noi…”
Io e Nino non parliamo più. Passiamo sotto l’ennesima luminaria e ci fermiamo al rosso dell’incrocio. Sopra le nostre teste un immenso cartellone: la donna in lingerie ammicca a Babbo Natale. Fisso con ribrezzo i suoi occhi cospiranti, stelle spente, sana schiavitù.
Gianni Campi
Rivenditore: – Astrologari strologanti! Antiquitari oracolanti! Per le necessità tutte!
Passante: – Mi scusi, Signore, non Le pare che questi prodotti non siano beni di prima necessità? che queste cose che desidera vendere siano un po’, come dire, superflue, inutili, senza alcuna necessità, o, quanto meno, fuori dal comune?
Rivenditore: – Se pur fossero robe estravaganti dalla tradizione comunitaria, non potrebbe dirsi altresì che il negro semen, oh! capovolta nemesi d’i imaginaria!, vi si insemini, incolto nel colto, immondo nel mondo, impuro nel puro?
Passante: – Che linguaggio da imbonitore, così esclamativo: le parole che usa non Le pare siano in qualche modo strane?
Rivenditore: – Se pur fosse una estravagante lingua morta, o soltanto stranitae straniera, non potrebbe dirsi comunque che non sia estrema, o che non siaalla ricerca d’un punto di contatto del contrasto di tra l’esiziale esistenza e la vitale inesistenza.
Passante: – I Suoi modi di dire son certamente curiosi.
Rivenditore: – Abbecedari usati! Abbecedari logori! Abbecedari laceri! Non Le necessitano analfabetici abbecedari?
Passante: – Mi scusi, Signore, ma che dice? Perché mai qualcuno dovrebbe voler comprare per l’anno nuovo un qualcosa di antico e usato? Ma poi, usato da chi?
Rivenditore: – Forse è un libercolo antiquo, e mai usato, forse è un trattatello distratto di geometria o retorica, di figure sfigurate, di forme difformi, che non contenga contenuto d’alcunché: al suo interno potransi ammirare imagini d’un immaginario morto, parole desuete, inuse, dismesse. O forse è stato
usato, sì, ma senza aprirlo, a uso e consumo proprio improprio, usato dunque quale controparte per aprirsi al gran teatro del distolto, dell’inconsueto, del disuso: il gran teatro pien di vuote meraviglie!
Passante: – Lei parla senza venire al dunque. Lei divaga, Lei è quanto mai vago. Lei ancora non ha detto da chi sia stato usato.
Rivenditore: – Se le dicessi chi, Lei non potrebbe crederci, Lei non potrebbe credere più a niente.
Passante: – Me lo dica comunque. Per capire. Per capirsi. Per capirci.
Rivenditore: – Pinocchio.
Passante: – Pinocchio?
Rivenditore: – Ha visto?
Passante: – Cosa?
Rivenditore: – Non è che incredibile quel che non è da credere, quel che non ha credito né credo, ma solo e soltanto discredito e dubbio. Ma non dubiti dei debiti. Né ne sia certo. Tutti i libri sono un unico libro, che si scrive, che ci scrive.
Passante: – Non La seguo.
Rivenditore: – Per seguire l’esser pinocchio, Le necessita appunto l’analfabeto, in cui colui che segue precede: la nota frase ignota della verità della menzogna, della follia ragionevole, dell’errore esatto; la morte viva, la vita morta, là, dove dovunque, quando quandunque, come comunque, quanto quantunque.
Passante: – Lei è proprio matto!
Rivenditore: – Forse l’abbecedario ha solo e soltanto di coteste pagine matte, dai mille millanta colori appunto non lucidi, sì ben ludici.
Passante: – Lei gioca con le parole, e con le frasi, senza farsi capire, senza dir
niente, senza significare niente
Rivenditore: Forse l’abbecedario non è altro che un lunario, un enigmatico lunario labirintico, una summa sottratta al senno, le di cui pagine sian state scompaginate, in cui vi si possa trovar di tutto senza che niente si perda.
Passante: – In verità, pare proprio il contrario: non vi si trova niente, e si perde tutto.
Rivenditore: – Forse è perdendosi che ci si trova, non trova?
Passante: – Se ci si perde, come ritrovarsi? Parlare con Lei è proprio tempo perso.
Rivenditore: – Forse non si ha più tempo da perdere: nessuno ha più tempo da perdere. Così, per nulla. Per non aver che il nulla da fare, per non essere che un nulla facente. Così, per nulla. Per non aver che il nulla da dire, e nulla, nulla da dare.
Passante: – Le ho dato tutto il mio tempo. Ora non me ne resta più. Questo tempo non si ritroverà più.
Rivenditore: – E pure, se solo offrisse quattro soldi per cotesto abbecedario lunambolo, per cotesto lunario analfabetico, magari potrebbe venire a conoscenza del luogo dove ritrovare il tempo.
Passante: – Un luogo dove ritrovare il tempo?
Rivenditore: – Un luogo di ritrovo.
Passante: – Un luogo di ritrovo? Ma che dice?
Rivenditore: – Non è forse un luogo di ritrovo il luogo ideale della realtà oggidiana? Lei non cercherà certo un luogo reale per l’ideità!
Passante: – Ma di che parla? Lei non sa più nemmeno parlare.
Rivenditore: – Non si sa che dire per parlare, non si sa di che parlare per dire.
Passante: – Ormai sono senza parole.
Rivenditore: – Tutti si è senza parole: un sòno senza parole. Ecco, si sente una musica. Ecco, lo spettacolo del gran teatro sta per finire. Le ultime battute, questi colpi di gran cassa, ora. E la danza, ora. Ecco, il gran ballo, il ballo finale. Lo spettacolo è finito. Giusto in tempo per la fine del tempo.
Per la fine dei tempi. Lo spettacolo sta per cominciare. Giusto in tempo per l’inizio del tempo. Per l’inizio dei tempi. Ecco, arrivano buone nuove! Nove lune, Signore, novissime! Nove novità, Signore? Non Le necessitano delle buone nuove?
Passante: – Buone nuove per l’anno nuovo? Finalmente un auspicio!
Rivenditore: – No, Signore.
Passante: – Come no? E allora a che le nuove? Non ci sono buone novelle? Eppure, la vita è bella, non è così?
Rivenditore: – Felicità! – disse Pinocchio. – Non è così?
Guido Tedoldi
C’è questo giornalista, italiano. Mi ha anche detto come si chiama, ma vatti a ricordare, alla mia età… Dito… Dito qualcosa, boh. Mi ha mandato la sua letterina, come fosse un bambinello alle prime armi, invece è un adulto. Potrei evitare di rispondere. Ma adesso che la notte di Natale è quasi finita e ho portato i doni a tutti i bambini del mondo, mi rimane il dubbio di non aver fatto appieno il mio mestiere se non gli rispondo. Io regali agli adulti non ne faccio. Non sanno sognare. Ok, alcuni lo sanno fare, ma anche loro non mandano più le letterine a me. Non sognano più ME. Pensano di essere abbastanza esperti per sapere che non esisto.
Questo qua invece… vi leggo la sua letterina: Egregio Babbo Natale, ho una sola richiesta da farLe: un’intervista. Non sono sicuro che il mio direttore accetterebbe di pubblicarla, nel caso sapesse che Le ho fatto questa richiesta, e poi lavoro in un piccolo giornale di provincia per cui non posso garantirLe una grande audience. Ho qualche conoscenza in redazioni più grandi, anche nazionali, magari posso passar loro il materiale. In ogni caso sappia che quest’intervista interessa a me, e che un modo per scriverla lo troverò. Se Lei non mi farà questo regalo, capirò. Non sono stato granché buono nel corso dell’anno. E non Le prometto che sarò migliore l’anno prossimo, o mai. Uno tenta sempre di fare il meglio e di essere al meglio – poi c’è tutto un mondo intorno e le cose migliori possono diventare impossibili. La notte di Natale L’aspetterò a casa mia. Spero Lei verrà. Cordiali saluti Ugo Ditoleddi
Sono entrato in casa sua senza far rumore, ho spiato un po’ in giro. Lui è concentrato nel fare qualcosa al computer. Le mie renne sono irrequiete, non amano lavorare dopo il sorgere del sole e temono che io faccia tardi. Ditoleddi sente il suono strano dei loro finimenti e guarda fuori dalla porta finestra. Le vede, poi si volta verso l’interno di casa e vede me. «Oh cazzo, Lei è venuto davvero», dice. Poi mi domanda se voglio un caffè. Rispondo di sì. «Come ha cominciato?», mi domanda. Siamo seduti nel suo salotto, io su una poltrona lui al tavolo. Ha preso un bloc notes e una penna, ha anche acceso un registratore mp3 ma non penso gli servirà molto, di solito io non vengo registrato dagli strumenti. Gli domando a mia volta se vuole la storia vera oppure quella che qualcuno molto tempo fa ha cominciato a raccontare in giro e che di bocca in bocca è stata distorta fino a diventare lo standard accettabile. «Possibilmente la verità», dice, «se non è troppo… insomma, se non rivela cose che magari lei preferisce tener nascoste». Non me l’ha mai chiesta nessuno, la verità.
Con il tempo mi sono fatto l’idea che la verità su di me non sia importante, che la gente preferisca un certo mito e che non ha nesuna voglia di vederlo danneggiato. Comincio a raccontargli che ero bambino e che… Ditoleddi sembra colto da una sincope. È bloccato e inebetito. Solo un attimo, per fortuna. «Lei è stato bambino», dice, con un soffio di voce. Mmh, chi pensava che fossi? Certo che sono stato bambino. Sono un tipo un po’ strano, lo ammetto, ma non COSÌ strano. Non mi domanda quando e dove io sia stato bambino, per cui non glielo dirò. Gli dirò invece dei miei compagni di scuola, del fatto che io ero figlio di un uomo ricco e andavo a scuola con la slitta condotta da un servo mentre i miei compagni di classe del villaggio erano poveri e ci andavano a piedi, alcuni con gli zoccoli tanto che il maestro li sistemava su una panca davanti alla stufa e ordinava loro di stare lì fino a metà mattina, o anche fin quasi alla fine della lezione. «State lì fino a quando non sentite che i vostri piedi siano diventati caldi», diceva. Ma loro tentavano di non spostarsi più perché un caldo così, d’inverno, a casa non lo sentivano mai. Il maestro era un grande, sapeva tutto, e spiegava in modo che tutti capissero. Non lasciava indietro nessuno.
A costo di ripetere tre volte, o quattro. Sembrava sempre sul punto di arrabbiarsi, ma non lo faceva mai. Spiegava e spiegava e spiegava ancora. Per lui non esistevano bambini intelligenti o ignoranti, e i ricchi erano uguali ai poveri. Io che ero quello vestito meglio non avevo per questo nessun privilegio. Sedevo in un banco in mezzo alla classe – vicini alla stufa quelli che avevano più freddo, lontani quelli che avevano più caldo. «Una bella scuola di uguaglianza», dice Ditoleddi. Ha questo modo di far domande senza fare domande, buttando lì un commento come fosse la sbadata naturale prosecuzione del concetto in corso. «Come ci si regolava con i regali natalizi, a quell’epoca? Voglio dire, se Lei non aveva ancora cominciato… be’, c’era qualcun altro?». Non c’era nessuno. Alcuni bambini ricevevano regali, altri no. Mio padre, che era ricco, tornava spesso a casa la sera con qualcosa per me. Cioè, le sere che c’era. I miei genitori avevano una vita sociale molto attiva, erano spesso via. Sono cresciuto con le balie, la casa era piena di servi. La preoccupazione di mia madre, invece, era che io fossi sempre ben vestito. il mio guardaroba era in costante rinnovamento, diceva che diventavo grande troppo in fretta. Per i miei compagni di scuola non c’era nessuno in grado di badare a certe quisquilie. Il concetto di fare a se stessi o ad altri un regalo soltanto per sentirsi meglio non aveva mai attraversato le loro menti. Molti dei loro genitori lavoravano per mio padre, nei campi oppure in una delle fabbriche, e non avevano mai soldi, dicevano. Anche mio padre non aveva mai soldi, diceva. Usavano le stesse parole, ma intendevano cose diverse. Io comunque quando andavo a scuola perdevo le cose. Il cappello, per esempio. La mattina ce l’avevo, il pomeriggio quando tornavo no. Mia madre si preoccupava, mi rimproverava perché ero uno sbadato e perché la costringevo a comprarne sempre di nuovi (cosa che le dava grande gratificazione, peraltro). I genitori dei miei compagni di classe, invece, non chiedevano da dove venissero i cappelli che indossavano. O, se chiedevano, ricevevano risposte vaghe, tipo che li avevano trovati per strada.
Anche le bambine portavano cappelli di foggia maschile senza provocare scalpore. «C’era il bullismo già allora…», commenta Ditoleddi. Non ha capito. Mica mi costringevano. Era una mia scelta. Mi sentivo bene, intimamente bene, a regalare le cose. Un giorno che c’era una bufera di neve, un bambino entrò in classe e aveva le orecchie così rosse che sembravano doversi staccare da un momento all’altro. Il maestro lo fece sedere vicino alla stufa, ma il bambino si mise a frignare perché sentiva male, le orecchie gli bruciavano e non si scaldavano. «Gli servirebbe un cappello», disse il maestro. E io mi feci avanti per dargli il mio. Il giorno dopo io avevo un nuovo cappello, per cui non chiesi indietro quello che avevo dato al bambino. Io potevo averne quanti ne volevo, i miei compagni di scuola invece no. Io potevo avere tutte le mantelline e le giacche e le scarpe che volevo, loro no. Fu una grande lezione. Dopo qualche volta che succedeva, non dovevo nemmeno più aspettare che il maestro mi desse il suggerimento, capivo io di cosa c’era bisogno e in che modo. «Nella sua famiglia cosa dicevano? Non si accorgeva nessuno delle frequenti sparizioni di abiti?». No. Be’, forse sì… mi spariva così tanta roba che era impossibile non accorgersi. Però non mi diceva niente nessuno. Forse avevano capito e mi lasciavano fare. In effetti sarebbe bastato chiedere al servo che mi portava a scuola con la slitta e tornava a riprendermi, lui vedeva subito se c’erano differenze tra il mio vestiario del mattino e quello del pomeriggio. Ma non credo che il servo, pur nella condizione di farlo, avrebbe mai fatto la spia. Era complice.
Un giorno mi diede un pacchetto prima che entrassi in classe, conteneva pane e formaggio. Io gli dissi che avevo già la mia merendina per l’intervallo, ma lui mi invitò a non preoccuparmi, di prendere anche la sua che tanto la cuoca di casa nostra gliene avrebbe dato ancora se l’avesse chiesto. Io già normalmente dividevo la mia merendina con i compagni, perché a casa potevo averne quanta volevo. Quella mattina e altre simili avrei semplicemente diviso più cibo. «Quindi non c’era niente di speciale legato al Natale», dice Ditoleddi. Be’, per me Natale era una festa. Per i miei amici era, più o meno, un giorno senza scuola. Un anno capitò che il numero dei regali che ricevetti – dai miei genitori ma anche dagli zii, dai nonni, da altre persone – fu davvero esagerato. Non avevo idea che intorno alle famiglie ricche ci fossero così tante persone desiderose di far regali. È una cosa che ho imparato meglio in seguito. C’erano giocattoli di tutti i tipi, capi di vestiario, dolci, denaro. Solo con un grande sforzo sarei riuscito a usare tutto, ad apprezzarlo davvero. In casa mia fu una festa sensazionale, come non ne avevo mai viste. Soprattutto i giochi mi sembrarono diversi, ben più divertenti di quelli che conoscevo. Mio padre disse che si trattava dei prodotti di una nuova fabbrica di cui era diventato socio. Io cominciai a pensare che di tutta quella roba, nel corso delle settimane successive, avrei saputo cosa fare. Come avevano reso felice me, potevano fare con i miei amici. Ma con il passare delle ore quel pensiero si andava precisando. Mi sembrava contenesse qualcosa di bello e grande, e cercavo di capirlo esplorando da molti punti di vista. Alla fine ero sicuro che, come quel giorno era stato una festa per me, sarebbe dovuto esserlo anche per i miei compagni di classe. E be’… così ho fatto per la prima volta quello che poi in seguito, negli anni a venire, avrei fatto sempre, e sempre più in grande. «Cioè? La slitta, il vestito rosso, il saccone di regali…?».
Sì, tutte quelle cose. Sapevo che i miei genitori non sarebbero stati in casa quella notte, allora andai dal servo e gli dissi di preparare la slitta con la muta di renne più robusta e veloce che avevamo, perché dovevamo fare tutto alla svelta. Mi fece notare che nevicava, e che ero un bambino, e un po’ di altre cose che di solito fanno passare la voglia. Non mi ricordo cosa gli dissi io, ma fui convincente. Il vestito rosso era un regalo che mia madre mi aveva fatto quel giorno, dicendo che era così sgargiante e unico nel suo genere che non potevo riuscire a perderlo… ma anche se l’avessi fatto qualcuno l’avrebbe certamente ritrovato e riportato. D’altra parte, chi oltre me avrebbe avuto il fegato di vestirsi così? Il sacco non lo trovai. Non avevo idea di dove potesse essercene qualcuno in casa, e quindi portai a braccia tutti i pacchi dal salone di casa alla slitta parcheggiata fuori. Feci tutto da solo, in un numero di tappe che mi parve esagerato, ma non chiesi aiuto a nessuno della servitù perché meno gente sapeva meglio era. Qualcuno in casa mi vide, ma spiegai che stavo portando la mia roba nella mia cameretta, e contro tutte le aspettative mi credettero. All’epoca non ero ancora esperto di certe cose, e rischiai di rovinare l’impresa per inadeguatezza di mezzi, invece riuscii nel mio intento. Con il tempo sono diventato bravissimo, e ne vado orgoglioso. Il tocco da maestro fu mascherarmi con una finta barba bianca, così nessuno mi avrebbe riconosciuto «E i suoi compagni di scuola, La ringraziarono?». Ditoleddi da qualche minuto ha un’espressione enigmatica. Forse pensa che non gli stia dicendo la verità. I miei amici non sapevano che avevo organizzato tutto io. Feci in modo che non mi vedessero.
Quando tornarono a scuola erano tutti contenti, e si raccontavano questo evento straordinario, e comparavano tra di loro il bendidio che avevano inaspettatamente ricevuto. Cioè, pensavo di aver fatto tutto con cura, ma qualcuno doveva avermi visto perché nei giorni successivi cominciarono a circolare delle voci su un certo tizio vestito di rosso. Una la sentii anch’io, e contribuii ad alimentarla: una dama di compagnia di mia madre disse alla cuoca che una sua amica non aveva visto direttamente però sentito da fonte affidabilissima che il tizio in rosso fosse alto due metri e mezzo, e che le renne della sua slitta erano così voraci che si erano mangiate l’intero tetto in paglia di una capanna mentre il loro padrone era dentro a… be’, fare le sue faccende, qualsiasi essere fossero. Io intervenni dicendo che il maestro a scuola ci aveva parlato di certe renne enormi che vivono su a nord, vicino al polo, e che sono capaci di ingoiare un intero albero in pochi istanti. La cuoca fece un risolino di circostanza, perché come volete che si possa credere a un bambino che parla di cose mai viste? Il giorno dopo, però, la sentii dire al venditore di olio che il maestro le aveva fatto vedere i disegni delle renne giganti che vivono al polo, le quali notoriamente mangiano in quantità smodata. Ditoleddi soffoca una risatina. Fuori le mie renne sono in agitazione, agitano i finimenti per farmi capire che sta venendo mattina. Meglio che vada. Mi alzo di scatto dalla poltrona, le mie vecchie giunture emettono scricchiolii. Si alza anche il giornalista, e le sue giunture sono quasi più rumorose delle mie. Mi offre dell’altro caffè, dice che posso portarlo via nel termos. Gli dico che non posso accettarlo, perché se lo facessi dovrei tornare a riportarglielo. «Quando Lei vuole, con comodo», mi dice. Vorrà dire che tornerò.
ringraziando pubblicamente effeffe per l’ospitalità accordata al ‘caput anni’, così mi si volle intitolare quel dialoghetto impossibile di tra un passante e un rivenditore, ne approfitto per augurare a tutti gli indiani – redattori, commentatori e lettori – appunto quella ‘felicità’ con cui si conclude il minuto testo
#Uno tenta sempre di fare il meglio e di essere al meglio – poi c’è tutto un mondo intorno e le cose migliori possono diventare impossibili#
è vero. quando poi il mondo intorno è falso e ipocrita e col sorrisetto incoraggiante ti fotte e con il coltello del pensiero unico dalla parte del manico ti indottrina a non mollare… eh… eh… :))) quando a uno non gliela vuoi dare vinta perché è così: quando il mondo intorno se ne fotte e ha il potere di decidere, decide lui le cose migliori e quelle peggiori.
c’est la vie…. ou c’est l’italiette? :)))))
A colui che qui spaccia l’omonimia denegando la possibilità combinatoria d’un presunto affraternamento, e a coloro i quali avranno la ventura di leggere questo mio distratto e obliquo “sguardo”.
In prima istanza i “beni” e le “prime necessità”. Niente di più superfluo, oserei dire. Nel “bene” ristagna l’atavico e utopico “amato”. Da qui l’assioma in cui sfinirsi: non si ama mai nulla e nessuno, casomai si può venerare, ma questo è un altro discorso e ci porterebbe troppo lontano. Le “prime necessità” non necessitano d’essere frequentate, non più di tanto almeno e non certo nelle pratiche letterarie e/o oratorie (è pur sempre un “velo” oratorio quello che permette la messa in opera della trasparenza e della levità del “rivenditore”). Non c’è dispendio, né spreco. Non c’è uso né abuso. Nelle “prime necessità” la dépense è naturalmente improduttiva, non fomenta il gesto, né genera punti di fuga.
Abolito quindi il consueto eccoci piombare nelle “necessità tutte” che sono, per l’appunto e allo stesso tempo, tutte e nessuna: un po’ come dire indistinte, non definibili in forma e sostanza.
Per il nostro “rivenditore” se le prime necessità rasentano il vano e il vacuo, le necessità tutte si designano come necessarie per un degno incipit letteratio. Gli “Astrologari strogolanti” e gli “Antiquitari oracolanti” sono il nostro punto di partenza. Ma, in vero, non si dà partenza che non sia già finita in sé e che non sia comunque destinata a sfinirsi lungo il transito.
Cosa ci offre questo transito?
In prima istanza (la ripetizione giova e ci permette l’avvicinamento a quello sfinimento appena accennato) una “nemesi d’ì imaginaria”, già speculo d’un imponderabile “semen”, che allitterandosi nell’inseminazione permette, per dirlo alla Heidegger, un’apertura della radura. La radura, così aperta e, se così si può dire, pre disposta, permette al transitante di porre in opera una certa disseminazione.
Ci sarebbe qui il bisogno di attardarsi proprio su questi “semi”.
In prima istanza (qui la ripetizione, ne converrete, contiene già i semi della differenza): “l’esiziale esistenza e la vitale inesistenza”. L’esizio, nel senso di distruzione, ripropone in un procedimento sinonimico la nemesi di cui sopra e si offre, si dà in pasto come “contrario”, o meglio come contrappunto al “vitale” (anche se, per certi versi, la vita e la nemesi spesso devono essere letti in chiave sinonimica piuttosto che antitetica). L’(in)esistenza qui assume un ruolo di supporto, non ricopre il ruolo di protagonista ma di spalla. Il nostro protagonista è l’Abbecedario, ovvero la “scrittura”. Il transito ci porta dai semi al sema. Non c’è altro protagonista, né in questo pezzo “facile facile”, né in altri pezzi che lo stesso autore ha, nel corso del tempo (“Un luogo dove ritrovare il tempo?), portato alla mia (dis)conoscenza.
Uso della lingua, ab-uso della lingua. Ci si conduce alla lingua e la si smembra, quasi senza ritegno, ma al solo scopo di ricostruirla e di reinstradarla verso molteplici e indistinti punti di fuga. L’ab-uso della lingua è una delle accezioni di quel dépense che le “prime necessità” ci impediscono di contattare. Dispendio e menzogna, smembramento e ricongiunzione. Un transito inesausto e riproposto ad aeternum.
E’ forse questo il messaggio che si cela (che si rende trasparente attraverso il velo del rivenditore-imbonitore) nelle pieghe delle parole?
Questa scrittura si ripiega uscendo fuori di sé, si estende mettendosi en abyme, fluisce e rifluisce. Un transito inarrestabile, riproposto e differenziato. Sarà forse un caso che quell’imbonitore viene apostrofato come “ri-venditore” e non come un semplice venditore? Non credo. Qui ciò che conta è proprio quel prefisso, quel “ri” che amplifica e surdetermina il gioco che ri-mette in gioco lo stesso gioco (sempre uguale e sempre diverso), il gioco attraverso il quale si gioca il gioco e ci si rende giocati dal gioco (“Tutti i libri sono un unico libro, che si scrive, che ci scrive”). Ciò che conta è quel “ri” che ad ogni punto si predispone sempre al suo stesso ri-cominciamento.
Buon anno a tutti (in particolare a Francesco che non vedo da circa quindici anni ) e scusate questa mia intrusione nel loco.
Enzo Campi
Apprezzo molto l’ultimo racconto per la fantasia.
Anno felice a tutti!
@ véronique
ma come!?! proprio tu, che mi dicesti ‘sempre gentile’, onesto ti pare saltarmi a piè pari, senza lasciar traccia d’uno straccio di commento il mio minuto testo? eh sì, che pure auguri ‘anno felice a tutti!’ – è proprio una ‘felicità pinocchia’ la mia nel non riceverne qualche tua parola… scherzo: duemilanovaugurissimi a te e ai francesi!
Teqnofobico,
Il dialogo che hai scritto è brillanto. La parola è “mise en jeu” (non so tradurre l’espressione), forse la parola è in gioco, con luminosi avvicinamenti.
Ho letto il commento di Enzo Campi è acuto, intelligente.
Se no ho lasciato commento, è la mia pigra mente che è la ragione, non il testo.
Direi con lucidità che il dialogo è troppo intelligente per me, che sono più nell’emozione e l’affettivo.
Auguri per il caput’anni!
brillante
c@r@ véronique,
la “mise en jeu” non va tradotta, poi ché va benissimo così: d’altronde ci si mette in gioco continuamente, anche per niente e per nessuno, figurarsi se per qualcosa e per qualcuno… hai detto dei ‘luminosi avvicinamenti’, ebbene, forse questi servono a dare un fioco fuoco fatuo alle mie ottenebrate ombre… eh sì, per quanto acuto sia l’omonimo mio fratellone, e intelligente, è un dono che ha voluto fare all’ottuso testo e stupidello, per cui lo potresti benissimo leggere senza lucidità e dunque con la matta mattìa con cui si è scritto… con affetto,
teqnofobico
a te qui es là
et aussi à tes freres et sere (soirs)
auguri
effeffe
Teqnofobico,
Spero leggere ancora un testo di te…
Con affetto,
véronique
Nino e il suo Pandino, immensi marinai di feste naufragate.
Un abbraggio.
Fabio