La rosa del Bengala
Si erano radunati nei giardini tra la stazione Termini e piazza della Repubblica. Parlava Bachcu, il presidente dell’associazione di bengalesi Dhuumcatu, organizzatore di questa manifestazione: “Siamo circa 700mila immigrati senza permesso di soggiorno, più di 70mila bloccati dal 2002 per legge Bossi-Fini: noi urliamo Basta legge Bossi-Fini! – e anche la Turco-Napolitano che è padre della legge Bossi-Fini!” E tutti applaudivano quando Bachcu diceva “sanatoria” – quell’illusione coltivata tenacemente, perché il governo era di centro-sinistra – quell’illusione di essere restituiti a una condizione di normalità e di diritti – ciò che un migrante clandestino non cessa mai di sognare.
La sede dell’associazione Dhuumcatu è in zona Esquilino. Ci torno un anno dopo, quando al governo c’è Berlusconi, si progetta di far diventare la clandestinità reato a pieno titolo, e si propone di negare l’assistenza sanitaria ai clandestini. Ma nonostante questo, e nonostante le continue incursioni delle forze dell’ordine, l’associazione continua a farsi motore dell’autoorganizzazione degli immigrati.
Roma è la città italiana con il maggior numero di stranieri. La comunità più numerosa è quella rumena; poi ucraini, polacchi, albanesi. Gli africani sono per la maggior parte egiziani, ma anche marocchini ed etiopi. Tra gli asiatici i più numerosi sono filippini, cinesi e bengalesi.
Molti tra i bengalesi sono irregolari, la stima è di un terzo. Hanno l’attitudine a interessarsi della politica italiana perché hanno già un elevato livello di politicizzazione già in Bangladesh. Aprono sezioni di partito all’estero, che tendono a farsi voci degli interessi della politica bengalese, ma si interessano anche della politica italiana: e infatti si sono iscritti in massa per votare alla primarie del l’Unione, e sono stati la comunità più numerosa alle elezioni per il consigliere aggiunto al Comune di Roma.
C’era anche Monir, alla manifestazione. Mi fermo a parlare con lui, in strada. Di Roma, di ragazze. E mi racconta del suo esodo, uno di quegli esodi terribili e troppo normali per un bengalese che arriva in Italia. Me lo racconta con nonchalance, masticando un chewing-gum e intercalando qualche parola in romano. Ha un sussulto solo quando racconta dei due suoi connazionali che gli sono morti davanti per il freddo e la fame, nella grotta di una montagna da qualche parte in Slovacchia. Il viaggio è durato nel freddo e nella fame quasi un anno. Fino a Roma. A Termini Monir trova un compaesano che lo porta a casa, lo sfama. Monir può stare in quella casa sovraffollata senza pagare fin quando troverà lavoro. Funziona spesso così, tra connazionali, ci si appoggia l’uno con l’altro. Dopo quattro mesi Monir comincia a lavorare, e può colmare il debito. All’inizio si inventato carrellista, fuori dai supermercati, poi trova un impiego alla bancarella di un mercato ma lo trattano male, allora qualche lavoretto di ambulante (fiori, pupazzi) e poi, ancora grazie ai connazionali, lavapiatti in un ristorante: 750 euro al mese, per dodici ore di lavoro, dalle dieci di mattina alle quattro e dalle sette a mezzanotte, l’una quando ci sono clienti. La fatica è tanta. Così, sempre grazie al passaparola, trova un posto da muratore. E impara lingua e mestiere.
Monir adesso sogna la regolarizzazione. Il suo attuale padrone gli ha detto, Dammi 4mila euro e faccio richiesta. Insomma gli ha chiesto il pizzo. Monir ha accettato. Lavorerà almeno due anni con lui, che gli scalerà dallo stipendio duecento euro al mese. Almeno mi mette in regola e lavoriamo senza problemi, dice.
Finché quel sogno non si realizzerà, anche Monir resterà nel grande mare dell’economia sommersa e informale. Nel Lazio, l’incidenza del sommerso è più alta della media nazionale in tutti i settori, superato solo da Molise, Campania, Basilicata, Sicilia e Sardegna.
A Roma città, secondo la Cgil, un terzo di coloro che lavorano nel commercio e nel turismo lavora in nero. La maggior parte di loro sta in cucina. Tra loro ovviamente un grande numero di stranieri – veri clandestini, invisibili che non si devono vedere.
Alam, invece, in cucina non è ancora riuscito ad arrivare. Sta ad un gradino ancora più basso. E’ qui da tre anni, e come molti bengalesi da due vende fiori attorno alla fontana di Trevi, comprandoli a piazza Vittorio alla mattina, Vende fiori e scatta foto con una macchinetta cinese ai turisti, guadagnando in media quindici, venti euro al giorno, sufficienti per mangiare e pagare l’affitto di 150 euro nella casa di due stanze e cinque compagni dove abita. Ma ancora non se ne parla proprio di restituire al fratello gli 8mila euro che gli sono serviti per comprare un passaporto falso necessario per il viaggio aereo. Sto cercando un ristorante, dice. Cerca una cucina, dove tanti suoi amici, clandestini come lui, lavorano.
Alam è qui perchè ieri i vigili gli hanno fatto una multa di 5.164 euro. Oltre al decreto di espulsione. 5.164 euro e un’espulsione per venticinque rose.
Bachcu non smette di stupirsi, anche se queste cose le vede troppe volte. “Ma come possono fare questo? – dice. E se lui stava andando dalla sua fidanzata, con quei fiori? E tutto questo per la mancanza di una fattura per un fiore, per due euro, per uno che non fa niente di male e cerca solo di sopravvivere?”
(Pubblicato su l’Unità, 9/1/2009)
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Un bel pezzo, Marco.
Sobrio, informativo. L’ho letto con piacere (si può dire, anche di una realtà drammatica?)
Grazie Jan e Macondo. Direi di sì, si può dire… (e sì, ogni tanto mi piace essere sobrio).