Da: Il mare alto. Inediti di Renata Morresi
di Cristina Babino
Il mare alto è una linea d’orizzonte. Quella che si intravede in certi giorni dalle colline che ci sono familiari. Quella che si scopre all’improvviso, nella sua carica ovvietà, dalla prospettiva abbassata di una spiaggia. Che ci riconduce alla nostra infinitesima dimensione, che ci rimette al nostro posto.
Questa raccolta di inediti è una cattedrale in costruzione. Non ha ancora una forma definitiva, né un numero di mattoni stabilito; è un work in progress di cui si possono però saggiare già la solidità delle fondamenta, i tratti caratterizzanti e le discontinuità di una ricerca stilistica che sa farsi cifra a un tempo individuale e indicativa di una via, di uno degli infiniti percorsi possibili di ricerca del senso, e della sua espressione poetica. Una quȇte fatta di un graduale, faticoso riconoscersi sempre più in se stessi e nella propria rappresentazione del mondo: per quanto fatta di scarti, di frenate, di sorpassi e ripensamenti emozionali, prima ancora che formali.
Rispetto ai precedenti (rintracciabili in rete, tra l’altro, qui e qui), questi nuovi testi di Renata Morresi ci affrontano con la nitidezza di un verso rifinito, ricercato non più nella sontuosità ingegnosa del gioco di lingue e di parole, nell’abilità evidente e mal dissimulata del mestiere, ma nell’esattezza di un dettato qui scarnificato, asciugato come per lavorio di una marea fatta d’indagate inflessioni e riflessioni. Un procedimento “a levare” che ad ogni verso si fa chiarezza, ma stratificazione di senso e consapevolezza al tempo stesso. Così nella prima sezione della raccolta, Dominio delle cose, sono gli oggetti nella loro banale quotidianità a parlare dai luoghi che gli sono abitualmente propri, e da cui traggono ogni giorno giustificazione al loro uso e al loro essere. La tv, la tavola, persino il vino parlano per monologhi che contrappongono alle istanze di un “io” oggettuale insospettabile – e ora disvelato – un “voi” che tutti ci identifica, ci livella, ci contiene. E’ il canto dispiegato delle cose che scuote noi involontari interlocutori, lasciandoci nello sbigottimento appeso di «grucce / rimaste a dondolare», che ha la dolenza di un rimprovero, un andamento a tratti astioso e fermo, quasi d’invettiva: «che cosa potete sapere / del perdersi se / è sempre il vicino / che guardate morire». Altre volte invece è la prospettiva stessa delle cose, la loro usata materialità, a penetrare commosse per osmosi in un recinto tutto umano e personale di sentire, solidificate in immagini d’un concretismo quotidiano, privatissimo: «Si girava / bene la città con gli strani / famigliari, senza perdersi / nulla, la forma di carriola / in pancia, molte ossa / in giuntura mobilissima / di mollette da bucato».
La sezione centrale, Il mare alto, s’allontana dalla dimensione d’ogni giorno, entra nella realtà parallela e sospesa della vacanza estiva, della vacanza dalle consuetudini di sempre, per farsi però paradossalmente nuovo ciclo di azioni ripetute, d’una routine soltanto traslata e ricomposta. Così il campeggio, eletta quinta vacanziera, si fa microcosmo ricreato ancor prima che ricreativo, somma di monadi e universi che di tenda in tenda raccontano il carapace chiuso delle proprie solitudini, il tentativo di conservazione della specie attraverso la conservazione delle proprie rassicuranti abitudini, dalle quali si finge però, almeno una volta l’anno, di fuggire. La vita del campeggio fatta di numeri seriali, di immatricolazioni, di date d’arrivo e partenza, di regole condivise per il bene del vivere comune, di gesti quotidiani spiati ai vicini («un cocciare di stoviglie schiuse»), di presenze d’un tratto stranamente familiari (La signora delle pulizie), di telefonate a casa («tuo padre / che sta dentro il quadrato del telefono / come quando sei nato»), e persino della teoria di ciabatte parcheggiate fuori dalle tende, «né da uomo né da donna. Ciabatte / umane, buone al viaggio verso Marte»: oggetti, di nuovo, semplici, banali persino, che nell’assemblaggio si caricano, con slancio rinnovato e quasi dadaista, di significati straniati, inaspettati. Proprio come la strada che apre il capitolo Dal treno, una strada a cui si dà del tu perché conosce ognuno dei nostri passi di bambini, i prodigi di un’immaginazione incontenibile, i luoghi normalissimi che sembravano incantati, straordinari: «Strada di cartelli che via eri / (…) portavi all’officina di babbo / portavi la mia ferramenta / di sogni e Rumi, tutti rotando / come dolcissimi cannoli.» C’è tutta una vita – una bellezza – nelle cose, che solo nella chiarezza matura e disadorna dello sguardo di chi la sa vedere si fa restituire.
Da Dominio delle cose
Monologo del vino:
“Sono stato nella terra
quando ancora io non era
Credimi: la terra è una porta
che porta al nostro nulla
Sulla sua soglia crescono
case fatte di posti, rovi, cervelli
vestaglie gonfie di fantasmi
giorni lunghi esattamente
spaesate
case
di saponette
rinsecchite e grucce
rimaste a dondolare.
Voi io voi io voi io
che cosa potete sapere
del perdersi se
è sempre il vicino
che guardate morire?
Se noi stiamo insieme
vi farò quasi bene
vi farete lontano.”
*
All’una
Dall’una a mezzanotte all’una,
mescolate le parti
mandate a memoria
i sé distorti dal vizio
di parlare, tutti i pezzi
di parenti, di polente,
sogni spossati
come fantasmi di pietra
si girava
bene la città con gli strani
famigliari, senza perdersi
nulla, la forma di carriola
in pancia, molte ossa
in giuntura mobilissima
di mollette di bucato.
Compiaciuta d’elevarmi
per nessuno senza
mollare alcuna crepa
o rottame o il chilo
di mezzanotte,
il chilo dell’una.
*
Da Il mare alto
Campeggiatori
Intorno brulica l’attività
segreta della specie, occultata
in un cocciare di stoviglie schiuse.
*
Ciabatte
Ciabatte sparse fuori dalla tenda
né da uomo né da donna. Ciabatte
umane, buone al viaggio verso Marte.
*
La signora delle pulizie
Rosamarina spazza profumata
di selva rumena. Mulsumèsc
mi insegna e io credo alla radice
slava, mil-, alle lievi scorribande
di luglio fino alla Lettonia,
l’amore che t’insegna a sillabare.
*
Regole
Dalle 2 alle 4 è in voga la quiete
e come d’abitudine s’affoga.
La regola di scrivere non spiega
altro ma le rive sassose e la falesia
potrebbero perfino non vederla,
non distinguere il granaio del mare
dalla frutta disposta per colore
o il cocomero nell’acqua fresca
dalla divisa uncinata del sole.
*
Posizione
C’è una tenda verde così alta da starci
in piedi e due amache messe a fianco
a strisce rosse e azzurre dove non ho
mai visto nessuno dondolare, stare
in piedi. La posizione orizzontale
sul mare ci livella frontali al cielo
increspature in superficie, miracolo
del morto contro tesi darwiniane,
muscolo a medusa, cuore di derive.
*
Telefono
Alle sette chiamiamo tuo padre
che sta dentro il quadrato del telefono
come quando sei nato
come nel quadrato del miracolo
che costruimmo senza un lato
*
Mare alto
Sulla groppa del bufalo notturno,
costone ricciuto del promontorio,
il mare alto si beve il mio sguardo.
Se lo beve per intero, mi sta
sopra non come a riva dove arriva
schiacciato sotto i fianchi. Chi lo sa
come si vede il mare? Come finge
di stare per una ed essere molte
figure che non una sa capire.
*
Dal treno
Strada di cartelli che via eri
dalle casi popolari di San Marone
lungo i pioppi verso ovest
portavi all’officina di babbo
portavi la mia ferramenta
di sogni e Rumi, tutti rotando
come dolcissimi cannoli.
Dal treno ti vedevo, salutavo,
per scherzo il fazzoletto appeso
al finestrino volò fuori, sul campo
volò avvolgendosi a se stesso, spinto
di nuovo in alto gonfio d’aria
girando in vortici volò lontano
lo persi di vista sopra il campo perfetto.
Renata Morresi è laureata in lingue e dottore di ricerca in letterature comparate; attualmente insegna lingua e letteratura inglese d’America all’Università di Macerata. Si occupa di poesia, critica culturale, femminismo e letteratura angloamericana. Sue poesie sono pubblicate in “Nodo sottile 4”, a cura di V. Biagini e A. Sirotti (Crocetti, Milano, 2004), “Lo stormo bianco”, Premio Tina Accardi, (D’if, Napoli, 2004) e “L’opera continua”, a cura di G. Vincenzi, (Perrone, Roma, 2005). Nel 2005 ha curato con Marina Camboni la raccolta di saggi e traduzioni “Incontri transnazionali: modernità, poesia, sperimentazione, polilinguismo” (Le Monnier, Firenze). La sua prima monografia critica, “Nancy Cunard: America, modernismo, negritudine”, è stata pubblicata nel 2007 per i tipi di Quattroventi, Urbino.
In alto mare, le cose dimenticate degl esseri umani raccontano storie.
La poesia fa la raccolta del tesoro della lingua come oggetti di sale, preziosi.
Ciabatte mi parlano, al tramonto dell’estate le ciabatte sono abbandonate al sole
d’inverno, al freddo dell’aqua, alla corrosione. Con una linea asciutta delle parole,
Renatta Morresi fa sentire l’impressione strana di vedere un oggetto nella sua realtà spaesata.
Il telfono mi piace come vista di una matrice oggetto,
la voce del padre è chiusa dentro.
Ritrovo il padre nell’ombra del fazoletto (dal treno),
gesto che non si vede più: fare segno con il fazoletto,
si porta nella poesia un’aria di altro tempo
il fazoletto è l’ultimo segno della partanza
dell’infanzia.
cara renata
queste poesie devi venire a leggerle a cairano
Belle liriche così come incisiva è la prefazione!
“Voi io voi io voi io
che cosa potete sapere
del perdersi se
è sempre il vicino
che guardate morire?”
Questi versi, che sento più degli altri, sono, forse, quell’eterna cattedrale in perenne costruzione.
Mi associo all’invito di Franco Arminio.
Un deciso cambio di registro, come nota giustamente Cristina, conun dipanarsi d’istantanee ancorate al concreto delle vita,V.
La poesia di Renata e la precisa prosa di Cristina dimostrano quanto il tocco nudo della parola di donna possa schiarire quella quinta di caos che rende illeggibile il mondo e che spesso, almeno parlo per me, impedisce un dialogo sincero e anche emozionato con le cose e gli incontri, umani e non, che costellano i giorni. E non è necessario che il senso si manifesti in maniera declamata, basta un cenno, una traccia, come in
“Campeggiatori
Intorno brulica l’attività
segreta della specie, occultata
in un cocciare di stoviglie schiuse.”
Proprio avere l’umiltà di leggere e non interpretare forzando è un traguardo verso cui è necessario tendere.
mdp
Avrei voluto scrivere il commento di Marco di Pasquale…
bello questo intevento di donne del levante marchigiano… si sente la luce di quei posti, di quel mare “frontale al cielo”… meglio discutere di scritture, forse, che di scritture sulle scritture (non mi riferisco al testo critico…ma alle battaglie in corso su NI…)
Testi molto belli. La tensione interiore come trattenura , ma le parole nella loro pacatezza rivelano la vita.
Complimenti anche a Cristina per la prefazione.
Sono poesie che dimostrano l’alto talento di Renata Morresi. I populars direbbero che sono testi con l’X factor e che sarebbero capaci di vincere le sfide di Amici. Qui si fanno battaglie, nel paese se ne fanno altre. Qui non si perde, il paese non fa che perdere. Le poesie sono molto belle, se può servire a qualcosa dirlo. Il “levante” marchigiano è davvero buffo. sembra un tipo nato tra ancona e porto san giorgo.che passa di mattina nei campeggi a rubare le ciabatte di cui parla Renata. W il levante marchigiano
Grazie Véronique, il tuo apprezzamento m’imbarazza tuttavia mi fa allo stesso tempo moltissimo piacere…
mdp
Io quando ti leggo ho lunghi respiri, e improvvisi sussulti. Il tuo scrivere è sempre una bellissima scoperta, e qui è tutto così assolato, così aperto alla luce. Molto levante :)
Anche da parte mia, complimenti a Cristina.
Sono belle assai queste poesie, energiche, ricche di significato.
C’è l’esattezza di chi guarda le cose nel modo in cui stanno, e dove stanno, e non fa congetture sopra di loro, sopra di se’.
Il giudizio si costituisce da solo, alla fine.
Ed è molto bello il Post, con le Ciabatte all’inizio e la piena attenzione della curatrice appena dopo.
ah, che soddisfazione. lo posso dire? sì, lo dico. che bello aver postato cristina e renata! qualcuno che sa portarti dentro la poesia (cristina) senza bisogno di riferimenti altri, ma proprio partendo da questioni semplici e utilissime tipo: che mi sta dicendo questo poeta? ed un’autrice (renata) che ha il coraggio di non scrivere “sempre alla solita maniera”, di cambiare il linguaggio a seconda di ciò che sta affrontando. noi cambiamo nella vita pur restando gli stessi e questo si riflette in ogni vera, buona scrittura.
Mi paiono sempre belle, precise, affilate e sorprendenti le poesie di Renata, e Cristina, consentanea, la sua migliore lettrice. Spero di poterle leggere presto in libro.
Che meraviglia questo post!
Una nuova fase della scrittura di Renata, più luminosa e lucida, più attenta alle cose quotidiane, presentata splendidamente da Cristina.
Tra le mie preferite Posizione e Monologo del vino, proprio nei versi indicati da Marco Saya, dove c’è una potenza di sguardo e di percezione delle cose ultime e una lingua che le veste a pennello.
Mi piace, poi, moltissimo lo straniamento provocato da certe soluzioni stilistiche e dalla scelta degli oggetti, anche i più banali, come portavoci di uno stato d’animo e di uno sguardo straniato che cambia le cose, anche, solo col cambiare di una prospettiva.
Mi unisco a Marco Di Pasquale, le poesie di Renata spesso restano dentro, che il senso si faccia cogliere o meno d’impatto non importa, e acquisiscono significati altri proprio in questa vita interna al lettore.
Grazie!
Lara Lucaccioni
Renata, vieni a leggerle a casa mia, non solo a Cairano. Ti offro cena, conversazione e anche il pernottamento. Sono anche vicino ai frati.
Grande!
mitico Franz, il fatto che stai vicino ai frati, vuol dire che non farai il provolone? :-)
cara Renata, a questo punto, tra Milano e Cairano, meglio passare per Roma e per Urbino, non ti pare?
cara Renata, attenzione agli inviti che accetti ;-) !
Grazie a tutti voi che avete letto, e a Francesca in particolare, che ci ha prestato spazio, attenzione, e un ascolto sincero.
@Livio : Oppen scriveva “they develop argument / in order to speak” (litigano per aver modo di parlare), che è un modo feroce di vedere la questione; con maggior clemenza – e citando una battuta di Gianmaria Annovi – direi che la pulsione fàtica supera quella referenziale: non conta molto l’oggetto di cui si dice (e chi potrebbe più riconoscerlo ormai?), ma il verificare che stiamo continuando a dirlo insieme (Voi ci siete? Io ci sono. Noi ci siamo. E loro ce li vogliamo? ecc.) Il che ci conferma che continuiamo a esistere. Certo, la metariflessione, il decostruire la decostruzione e giochi simili possono essere molto, molto logoranti e portare sull’orlo dell’autofagismo (vedi ancora Annovi, che di autofagi ne sa qualcosa). È proprio necessario correre questo rischio?
@Alessandro : ieri ti dicevo che non sapevo se “ride o piagne” a vedermi da te citata tra Amici e X Factor, ma poi c’ho ripensato perché il “paese” di cui tu parli, come posto altro da quello in cui si è in questi testi, forse c’entra. C’ho pensato. Da quel che ho capito “paese” è dal latino “pagus” ovvero villaggio, che rimanda a “pangere”, cioè conficcare a terra il palo di confine, quindi delimitare il territorio comune: lo “spaesamento”, che coglieva Véronique, avviene perché allo stare insieme sembra non corrispondere più alcun “paese” condiviso. È uno spaesamento non privo di piacere però, poiché riconosce che alcune umili tracce di relazione, di cura, vi sopravvivono. Lo straniamento, io credo, non sta tanto negli oggetti deformi o “fuori posto” di memoria dadaista, quanto nello stupore di accorgersi che il mondo continua ad accadere senza nessun “paese” che lo delimiti, descriva, raccolga. (Il che, noterete, non è affatto una visione allegra del “nostro” “paese”). Ma a commentare qui ci sono fior di paesologi, che su questo possono dire molto più e meglio di me.
@Franco, Franz, Manuel: sarebbe un piacere
Francesca: hai ragione, la domanda centrale è ancora sempre quella, e inoltre: hai ragione, Cristina è una interprete formidabile. Grazie infinite a te per l’ospitalità e grazie a tutti coloro che hanno speso tempo e parole su queste mie/nostre cose – mi pare che una lettura attenta, intima, cosciente sia quanto di meglio una poesia possa volere.
un saluto caro,
r
avevo scritto un commento a caldo, ma, non so come, è andato perduto. Provo, un po’ a memoria a riscriverlo.
Innanzitutto, mi associo al coro di complimenti per la nota di Cristina Babino, la cui raffinata sensibilità critica non credo sia dovuta solo alla familiarità dei luoghi.
E’ una vera sorpresa leggere questi versi e, mi perdoni la Francesca Matteoni, se faccio ,qua e là, ‘riferimenti altri’: intanto,colpisce molto l’endecasillabo delle terzine la cui autonomia è continuamente trasportata,ma pure minata, di ‘assemblaggio dadaista parla la Babino, dall’uso dell’enjambement, in funzione strategica e spiazzante (‘L’attività segreta’, ‘ciabatte/umane’, ‘molte/figure), come pure le catene di suoni (allitterazioni, rimealmezzo) che spesso ribaltano la ‘carica ovvietà’ a cui accenna la Babino, l’ovvietà naturalistica data dalla nominazione di oggetti, dalla datità referenziale :’a riva dove arriva’, ‘giorni lunghi esattamente/ spaesate/ case/ di saponette/ rinsecchite’ , ‘dall’UNA a MEzzanotTE all’UNA/ MEscolATE le pARTI/ MAndATE a MEmoria/ i sé distORTI dal vizio/ di PArlare tutti i PEzzi/ di ParENTI, di POlENTI’).. Così, mi pare che sapientemente accade spesso che una dimensione distesa, di understatement, che trova pure una fissazione programmatica in ‘Posizione’ (‘la posizione orizzontale/sul mare ci livella frontali al cielo’), è continuamente sconfessata dalle ‘derive’ offerte da una figuralità di senso, in cui il piano della prospettiva viene stravolto: così, se può apparire lecito un richiamo al ‘Mare verticale’ ortesiano, il ‘Mare alto (profondo) , trova accensioni allegoriche nella alta figuralità di certi tropi, di certe metafore, su tutte, quella della ‘groppa del bufalo notturno’, bellissima metafora del promontorio e delle sue increspature, e che riverbera pure sulla familiarità di Renata con la letteratura (e il paesaggio) nordamericano…Figuralità che irrompe nella scrittura ‘naturalistica’, risemantizzandola, allegorizzandola, e pure dotandola di una dimensione ontologica di fondo…Perché forse il percorso dall’io al noi, va in questa direzione, perché quel mare, e quel campeggio, che vogliamo adriatici, potrebbero benissimo essere mare e campeggio mediterranei, americani, asiatici, anche perché, se è vero che la Morresi nomina continuamente oggetti, evita, quasi ovunque, di registrare referti e referenti prossimi: voglio dire, ontologicamente, esistenzialmente, allegoricamente, che i luoghi ‘spatriati’ di cui ci dice, sono altrove, o ovunque, e la condizione ‘orizzontale’ a cui la Renata sembra fare riferimento, riguarda nature e vite deterritorializzate, spatriate….Infine, in questa accidentata serie di minime noterelle, vorrei accennare alla prossimità (ideale) di questi versi con certi di Eugenio De Signoribus :’Volgi lo sguardo oltre il quieto adriatico’, oppure con una poesia (‘La frontaliera’) con cui rilevo similarità di condizione e di senso: gli stigmi di uno spaesamento, il vivere su un margine-limite-discrimine fisico e ontologico: io-tu-noi….
Ancora una volta, con Cristina Babino, Renata Morresi (e pure Franca Mancinelli) la efficacia ,pure al femminile, di un’onda marchigiana, annulla certe schematiche categorie, e certi sciocchi primati: di un fantomatico centro su vitalissime periferie….un abbraccio caro…anche Cristina è invitata :-)
@Alessà (?): hai proprio ragione, cià (ciànno entrambe) l’XFactor!!! Ditelo a certi vuoti a perdere dell’editoria!
@francesca matteoni: ti ho cercata invano a Piazza Farnese. A quando un serio incontro? :-)
(non temere, non sono un serial killer!)
@Liviobo: condivido appieno, meglio discutere di scritture, piuttosto che quei deliranti fuochi incrociati sul pezzo di Emanuele Trevi!
poiché trovo che “i sé distorti dal vizio di parlare” ci definisca tantissimo, come umani e soprattutto come italiani, (per non parlare poi della serata della tribù ultima scorsa) non aggiungo altri complimenti, tanto li avete fatti tutti voi e lascio privati i miei godimenti.
Ci fa pure rima, va’..
Tieni le cose e le parole ti seguono, ormai. Si sente che hai le braccia forti, ormai, gli occhi acuminati dalle veglie. Qui (da Ancona a P.to S. Giorgio) ti vogliamo tanto bene e ti stimiamo, lo sai. Ma non solo noi e anche questo sapevi. Quel che non so se sai, è che ti aspettano anche a Loreto: kaya007@libero.it (prof.ssa Claudia Feleppa). Scrivile. Un abbraccio forte
Sono totalmente e globalmente d’accordo con Manuel Cohen, eccezion fatta per il “provarci”. (Almeno credo…)
Volevo anch’io sottolineare la bravura di un (anche) critico come la Babino. Che si occupi di una poetessa e studiosa a lei vicina come Renata, o che si occupi di fotografia, di pittura, di altri poeti – vari stranieri – il suo approccio è sempre rigoroso ai limiti della severità. Ma il modo di esporre è sempre “cantabile”. Tutto torna.
E grazie che sia:
a Francesca – per essere fonte e tramite
a Cristina – che sempre fissa e filtra [ è il “sensibile partecipe” non lo “scibile sterile” la grandezza che serve: per dire di. ]
a Renata – per l’altalena che dondola sensi e segreti nei suoni [il peso di chi/lodi ].
“L’amore che t’insegna a sillabare”. E porta Poesia.
@renata
non hai torto, ovvero hai ragione. tuttavia io credo che su NI troppo spesso si pensi più ad attraversare il testo che a farsene attraversare. e con ciò hai ancora ragione, perchè è un discutere sulle scritture delle scritture sulle scritture
@manuel: se questo è un commento a caldo non oso immaginare quelli meditati : ) sollevi questioni molto complesse circa l’ ‘esoterismo’ (presunto, per carità) di questi testi, e il rapporto con la tradizione (di chi? questo è un buon punto) ma ti scrivo in privato, così parliamo quanto ci pare uber Gott und die Welt…
@valerio: grazie che mi volete bene, da casa mia si vede qualcosa che mi pare fermo, e quando porto a scuola ricky ci guardiamo sempre un pezzo di monte conero, di là stanno i sibillini e questi posti che vedo intorno sono più o meno i posti in cui una può arrivare e stare dentro lo spazio di un giorno…per chi era abituata a viaggiare quest’anello di terra sa un po’ di galera, eppure dicono che è meglio starsene in galera con degli amici, che in un giardino con degli astiosi…grazie infinite della stima, a te e a tutto nie wiem
@chiara: grazie, e grazia – qui ti si aspetta con grande trepidazione!
@franz: e torna giù pure tu, no?
un saluto caro,
r
Il fatto che Renata abbia intitolato la sezione centrale “il mare alto” e non – come ci si aspetterebbe – “l’alto mare”, mi fa pensare che questa svolta del suo respiro poetico abbia a che fare proprio con l’altezza, anzi, oserei dire la statura, misurata nel continuo confronto corporeo con le cose (C’è una tenda verde così alta da starci / in piedi). Mi sembra, insomma, che lo sguardo “basso” sugli oggetti presente in questi testi bellissimi sia quasi la conseguenza di un rimpicciolimento – fisico – del soggetto. E’ così che il mare può diventare – nella percezione del soggetto – alto e sovrastrare chi parla (“mi sta / sopra”). E’ una voce sotto la linea dell’orizzonte quella di questi versi, una voce che proviene da altezza di bambino. Tuttavia, proprio questa componente infantile dello sguardo (e del fiato), nel dare smalto nuovo all’apparire delle cose altrimenti più comuni (ciabatte, stoviglie, frutta…) rende lancinante la percezione di quello che – a mio parere almeno – è il motivo di sottofondo di questi versi: il morire. Un tema infilato con morbidezza, come battufoli di cotone, nell’interstizio dei versi, percepibile in forma attutita: lo “stare in piedi” sulla terra contro “la posizione orizzontale”, “il miracolo del morto” del mare alto. Non è un caso che al regno di tende di Renata, si acceda scalzi e che il viaggio prefigurato possa oscillare tra la fantasia infantile dello spazio (Marte) e il senso della fine, in un semplice cambio vocalico. Proprio questa capacità di coniugare leggerezza e senso del tragico in versi nitidissimi mi sembra una delle componenti più rilevanti della rinnovata voce poetica di Renata Morresi.
Che belle! Mi piace il monologo del vino, e anche come volò via, con che forme, il fazzoletto dal finestrino del treno.
Alle tende si accede scalzi di default!
(davanti alla mia si ammassano scarponi, che magari al mattino ci hanno la bestiolina dentro:)
bellissimo il monologo del vino
Mi unisco al coro unanime! Ed ecco che Renata ha trovato la sua voce poetica più profonda e autentica. Raggelante e tragica, ancorché luminosa. Se ora si dedicasse anche alla prosa comica, alla Jerome Jerome, credo che Renata diventerebbe completamente irresistibile!
mi piace questa atmosfera sospesa e provvisoria del campeggio, l’aria svagata dell’estate. Di questi versi, in particolare: “La signora delle pulizie”, “Telefono”, ultima strofa e i primi tre versi di “All’una”. “Posizione” mi ha fatto tornare in mente una poesia di Adelelmo Ruggieri, “La posizione del morto” (in “Vieni presto domani”).
un caro saluto
Franca
Ciao Renata. Queste poesie sono molto diverse da quelle che lessi da te quest’estate. Perché non le fai circolare di più? Hanno una forma molto compatta e non ammiccano a nessun genere di forzato sperimentalismo. Sono anche molto ‘immoderate’ in alcuni punti, e la cosa non guasta. Non so quanto le consideri, ma penso che siano molto (se non del tutto) rappresentative di te, e stai cominciando (o forse è solo un vaso di Pandora che si è già stappato?) a fissare i contorni della tua psiche sempre meglio. Se ne hai altre nascoste falle leggere presto, dagli luce. Un caro saluto. Stelvio Di Spigno.
sono stupita dell’accoglienza che hanno avuto questi miei testi presso così tanti amici e lettori; si passa tanti anni a cercare condivisione intellettuale e poi eccola arrivare per questo canale insolito (si è soli qui davanti) e spesso infido (si è spesso arrabbiati o bramosi o infatuati qui davanti).
queste poesie poi nascono in una sorta di convalescenza, ed è bello scorgervi dei visitatori – gian maria: giusto, e pensa che nella prima parte di “mare alto” c’è proprio una sorta di entrata in una sorta di spazio purgatoriale, per non parlare della scarpa come forma (vuota) d’umano, feticistica forma d’una presenza assente – franca: verissimo, adelelmo è stato importante per questi testi, e poi potrei parlare a lungo della “posizione orizzontale”, che non è solo quella della non-vita, ma soprattutto (almeno coscientemente) quella anti-utilitaristica della contemplazione (contro le tesi darwiniante, appunto). E poi ci sta Kafka, la poetessa americana H.D. (col suo “manifesto della medusa”: quel vivente quasi vegetale, abbandonato e pulsante), e chissà chi altri…
vi ringrazio allora, per le tante espressioni di stima e di affetto. grazie per le tue parole, stelvio, mi danno grande forza.
un saluto caro
renata
H.D. sta forse per Harley Davidson? Ne ho già sentito il verso potente, non certo raffinato come il suo, ma entrambe condividete la dimensione del viaggio, l’alterità che si fa incontro e le emozioni che scavano il loro posto nella memoria. Se le posso dare un suggerimento, potrebbe lavorare di più a limare proprio sul determinismo della memoria (“lo persi di vista sopra il campo perfetto” è un’idealizzazione usuale) magari eliminarla e raggiungere un’indefinita eterea. Dissolvenze. Ma non è cosa che le corrisponde. Grande Renata, concreta.