Filologia e “verità”
di Daniele Ruini
Quale importanza abbia avuto, nella storia dell’umanità, la parola scritta è un fatto difficilmente sottostimabile. Per quanto riguarda, più in particolare, la storia delle religioni, ciò è chiaramente evidente in tutti quei culti che riconoscono autorità sacra a uno o più testi, ritenuti frutto della diretta ispirazione divina, ovvero “parola di Dio”. Dato lo speciale statuto assegnato a tali scritture, ogni operazione volta a definirne con esattezza il dettato testuale acquista un valore particolare; se, da un lato, avvicinarsi il più possibile allo stadio originario di un Testo Sacro significa ridurre la distanza che separa dalla supposta Verità in esso contenuta, dall’altro lato, rimettere ogni volta in discussione la lezione di un’opera di tal fatta non può non avere conseguenze delicate per la comunità religiosa che di essa ha fatto il proprio testo di riferimento. Il rapporto tra Sacre Scritture e filologia (la disciplina finalizzata a ricostruire la veste originaria di un testo attraverso lo studio delle varie fasi della sua trasmissione) è infatti necessariamente contraddittorio: il carattere dogmatico della “parola di Dio” può sopportare il libero esercizio critico della filologia? E soprattutto: fino a che punto saranno disposti ad accettarlo i rappresentanti delle gerarchie ecclesiastiche?
È questo il tema al centro di Filologia e Libertà di Luciano Canfora (Mondadori 2008), nel quale si ripercorre la storia delle resistenze del Vaticano dinnanzi all’applicazione della critica testuale alla Bibbia, dando risalto alle figure dei pochi studiosi che quei divieti tentarono di infrangere. Come sottolinea Canfora, riannodare le fila di questo racconto equivale a narrare la storia «della libertà di pensiero attraverso il faticoso e contrastato dispiegarsi della libertà di critica sui testi che l’autorità e la tradizione hanno preservato».
Benché sia sempre esistita una filologia biblica, le cui origini affondano nel giudaismo ellenistico, la Chiesa Cattolica è venuta progressivamente irrigidendosi, assumendo, di fronte alle possibilità di studiare le Sacre Scritture secondo i principi della critica testuale, un atteggiamento di totale chiusura, cui si accompagnò un’azione di repressione nei confronti dei disobbedienti. Tale fu la posizione espressa nelle disposizioni del Concilio di Trento (1545-1563), colle quali fu sancito il primato della Vulgata, ovvero della versione latina della Bibbia tradotta da San Gerolamo nel IV secolo d.C.
In maniera del tutto illogica e fondandosi sulla supposta ispirazione divina del traduttore, veniva riconosciuta la superiorità di una traduzione rispetto al testo originale (ebraico per l’Antico Testamento, greco per il Nuovo). Si trattava di una risposta alle iniziative dei luterani, che rivendicavano invece l’originale biblico e che quello traducevano per la massa dei fedeli. Tali norme rimasero valide fino al Concilio Vaticano II (1965), quando fu finalmente ammessa, anche da parte cattolica, la possibilità di tradurre le Sacre Scritture nelle lingue moderne, favorendone l’accesso al popolo dei credenti.
E nondimeno, la filologia moderna, sviluppatasi storicamente nel XIX secolo sui classici greci e latini, ebbe le sue prime applicazioni proprio in ambito biblico e, più in particolare, neotestamentario. Alla netta chiusura della Chiesa Cattolica — ma atteggiamento non dissimile ebbero le Chiese riformate — si contrappose l’attività di singoli eruditi che, raccogliendo l’eredità di Erasmo da Rotterdam (1466–1536), si prodigarono nello studio della formazione dell’Antico e del Nuovo Testamento, subendo spesso l’ostracismo delle comunità religiose di appartenenza. Tra le figure ricordate da Canfora vi sono l’ebreo Baruch Spinoza (1632-1677), il giansenista Richard Simon (1627-1704), i protestanti Pierre Bayle (1647-1706), Johann Jacob Wetstein (1694-1745) e Jean Leclerc (1657-1736). Il loro lavoro fu la principale fonte d’ispirazione della critica illuministica delle religioni, della cui efficacia ed attualità rende conto il fatto che «la condanna dell’illuminismo si replica, di papa in papa, di enciclica in enciclica, fino alla recentissima Spe salvi (par. 19) dell’attuale pontefice».
Le infrazioni ai divieti cattolici in materia di filologia biblica proseguirono nel XIX secolo per merito di alcuni esponenti dell’Institut Catholique di Parigi, ai quali il Vaticano affibbiò l’etichetta di “modernisti”. Tra di essi, Ernest Renan (1823-1892) – autore di una celebre Vita di Gesù in cui si negava la divinità del Cristo –, Louis Duchesne (1843-1922) e Alfred Loisy (1857-1940), cui si devono due volumi sulla Storia del canone dell’Antico e del Nuovo Testamento. La durissima presa di posizione del cattolicesimo romano fu affidata alle encicliche Providentissum Deus di papa Leone III (1893) e Pascendi dominici gregis di papa Pio X (1907). In quest’ultima, in particolare, il pontefice espresse in termini retrogradi l’allarme risentito verso la critica testuale, il cui carattere eversivo risalirebbe alla pretesa di introdurre nell’ambito dei Testi Sacri il concetto di “evoluzione”, «quasi che la stessa religione fosse opera non di Dio ma degli uomini o un qualche ritrovato filosofico che con mezzi umani possa essere perfezionato» (sic).
Nessuna posizione ufficiale venne più espressa fino al 1943, quando papa Pio XII compì una svolta inaspettata, ammettendo la legittimità della critica testuale in ambito biblico (enciclica Divino afflante spiritu). Non si trattava, tuttavia, di una netta presa di distanza dalle chiusure del passato; l’enciclica pretende anzi di stabilire una continuità colle dichiarazioni dei pontefici precedenti, disegnando una prospettiva distorta secondo cui la Chiesa avrebbe sempre favorito e appoggiato la critica testuale, ed affermando che il riconoscimento della legittimità dell’indagine filologica sui testi sacri non è in contraddizione coi deliberati tridentini. L’apertura di papa Pacelli era in realtà la conseguenza della presa d’atto che alcune significative esperienze filologiche recenti avevano reso del tutto obsoleta e non più sostenibile la condanna vaticana verso la critica testuale; capolavori come l’edizione critica dell’Historia Ecclesiastica di Eusebio di Cesarea realizzata da Eduard Schwartz (1905-1909), o quella della Bibbia dei Settanta prodotta nel 1935 in ambiente protestante, costituivano una smentita concreta delle preclusioni cattoliche nei confronti della filologia. D’altra parte, pur nella sua apertura di fondo, Pio XII si appella alla cautela degli studiosi; l’enciclica contiene infatti l’invito a produrre nuove edizioni scientifiche del Testo Sacro pur mantenendo nei suoi confronti «somma riverenza». Si tratta, come evidenzia Canfora, di una posizione assurda e insensata, dacché inconciliabile colla pur invocata «rigorosa osservanza di tutte le leggi della critica». Ciò equivarrebbe infatti ad ammettere che “un testo affidabile di Platone possano darlo soltanto dei platonici puri e graniticamente fedeli al “verbo” del maestro (ammesso comunque che tale verbo esista già preconfezionato, prima del necessario, lunghissimo, imprevedibile, lavorio critico)”. Questo non-senso nasce dalla convinzione, mai messa in discussione, che i testi inclusi nel canone cattolico – e solo quelli – contengano la verità, una verità «precostituita e testualmente compiuta prima della ricostruzione del testo». L’apparente apertura rivoluzionaria del Vaticano tradisce, quindi, un certo conservatorismo, nell’incapacità di accettare fino in fondo l’idea che «il testo della Scrittura va letto (e criticato) per quello che letteralmente dice, mentre la sua difesa di principio può condursi solo sul piano della “fede”».
Il volume di Canfora costituisce, in conclusione, un elogio della filologia, considerata come un antidoto al dogmatismo e all’oscurantismo e come fondamento della libertà di pensiero.
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Primo perché parla di Luciano Canfora, un autore che ammiro.
Non soltanto per la sua profonda erudizione, ma anche per una splendida scrittura narrativa, che riesce a superare le difficoltà, non semplici, che si affacciano nel trattare un certo tipo di materiali.
E poi perchè il richiamo ad Alfred Loisy mi consente un piacevole tuffo nella mia adolescenza.
Ebbi la fortuna, infatti, di acquistare di questo autore: “Le origini del Cristianesimo”, edito dal “Saggiatore” nella collana “I gabbiani”.
Era il 1964.
Il libro ce l’ho ancora, e, sfogliandolo, trovo la prima sottolineatura a pagina 26:
“l’autenticità degli scritti canonizzati, nei confronti di quelli extracanonici, riposa soltanto su una convenzione teologica e artificiale; e le attribuzioni dei singoli scritti sono false o parzialmente inesatte, destinate soprattutto a giustificare il credito eccezionale che si volle garantire a tutte le parti di una raccolta ormai consacrata”.
Voi ve lo immaginate cosa possa aver provato, allora, un ragazzino di sedici anni, in un paesino sardo, a leggere questo?
Recensione limpida ed efficace … complimenti all’autore… ma pensiamo un po’ anche a Canfora. E in particolare al paradosso riguardante Pio XII che, lo dico subito senza alcun sentimento dell’autorità del grande filologo, non mi sembra condivisibile. Il paradosso, mi pare di capire, è che il filologo del testo sacro non deve sentire nessun peso della “verità” che quel testo rappresenta per il fedele, in modo da essere veramente libero. Dal testo alla “verità” quindi, e non dalla “verità” al testo. Mi chiedo, allora, anzi, idealmente lo chiedo a Canfora, il nome e l’indirizzo del filologo che lavori senza nessuna idea della “verità” del testo, e cioè che si ponga di fronte al testo candido come un giglio, pronto a vaticinare la verità che nasce dal testo (stavolta sì in maniera incontestabile e dogmatica). E mi chiedo anche se non si possa ammettere che ogni metodo, ogni filologia, è una via attraverso la quale si arriva ad una meta che già, in qualche misura, si ha in mente. Canfora contesta il magisterio della chiesa in materia di testo sacro come un prete può contestare il magisterio di Canfora in materia di letteratura greca, non dico in modo efficace, o in modo inefficace… dico: esattemente nello stesso modo. Se si contesta il principio dell’autorità questo vale prima di tutti per se stessi, e deve valere, naturalmente, nella maniera più profonda e autentica possibile. Come la pensa e la racconta Canfora la faccenda è semplificata, e, in definitiva, mi pare che l’antidogmatismo di Canfora non elevi la filologia ad una condizione più alta e nobile della propria condizione di filologo in assoluta buona fede ma, comunque, determinato storicamente da una serie di circostanze materiali e intellettuali… mi sembra, in pratica, che la libertà intellettuale del filologo e il ruolo emencipatore della filologia siano miti culturali fondati su una retorica in una certa misura dogmatica perchè divide il mondo fra chi può e chi non può pensare in chiave critica a un testo.
Se l’obiettivo di Canfora era elogiare l’antidogmatismo della filologia mi pare che il vero effetto del suo ragionamento sia la condanna del dogmatismo dell’anti-filologia. E su questo, credo, siamo tutti d’accordo.
“Il principio dell’autorità”
Ma è possibile che si annidino dappertutto
“Canfora contesta il magisterio della chiesa in materia di testo sacro come un prete può contestare il magisterio di Canfora in materia di letteratura greca”
i Confusionari?
Chi glielo ha detto a vito che un prete non può fare ciò che vuole? L’anno sempre fatto quello che vogliono, per esempio, stuprare i ragazzini, quindi perché no anche la Filologia.
Il male è che non ci si può mettere d’accordo.
Se dici: una cosa è la Filologia, con le sue regole scientifiche convenzionali, e una cosa è la Religione, con le sue regole religiose convenzionali, loro ti aggrediscono e ti obbligano ad ammettere il fatto che ALLORA c’è una verità filologica.
Ma solo per contestarti che, se si tratta di VERITA,’ il monopolio non ce lo possono certo avere i filologi.
Naturalmente facendo passare, con l’abilità di un borseggiatore, il fatto che, in questo caso (come in tutti i casi), il monopolio non può averlo che chi ce l’ha sempre avuto: la Chiesa.
Insomma tra celodurismo e Cielodurismo non è che ci sia poi questa grande differenza.
Chi se ne frega della libertà e della Filologia se c’è il Ratto 16 che ci inocula la peste. E’ ormai appurato che durante le epidemie, invece di disperarsi, ci si inculava come matti.
Allegria!
@soldato “Si annidano dappertutto?”… ma hai letto bene? mi sembrava di avere rilanciato in materia di libertà e di antidogmatismo. Concludo, infatti, dicendo – forse il ragionamento è sottile – che non si può che essere d’accordo con la condanna del dogmatismo dell’anti-filologia.
Soldato, è facile alzare polveroni in cui viene messo tutto assieme… ma non si può ragionare su tutto in una sola volta e in un solo istante.
Dammi una lezione di antidogmatismo facendoti una ragione che qualcuno possa avere un’opinione diversa dalla tua.
…il pezzo è interessante e condivisibile in gran parte, peccato però che non si analizzi di più il vaticano II che espressamente sostiene che il testo scritto NON E’ la parola di Dio, e questo i teologi lo ripetono da anni, anche quelli meno famosi che insegnano nelle facoltà teologiche. L’istituto Biblico di Roma sforna filologi di altissimo livello, che si muovono con libertà, ma è certo che, come ricordava vito, è impossibile mettersi davanti a un testo come dei gigli immacolati e che un testo religioso, oltre al contesto che lo crea (e che oggi si studia approfonditamente in tutte le facoltà teologiche) presuppone la fede. Sul rapporto tra verità e parola occorre essere chiari: il magistero stabilisce che la rivelazione è la verità, ma non è una verità come contenuto, come dottrina e ideologia, quanto piuttosto una verità singolare… non è un concetto ma una persona, Cristo… verità performativa, aperta, semiogeneticamente attiva… il concilio parla non a caso di “progressività” e divenire della rivelazione. Non a caso il Vaticano II non è un concilio dogmatico, che stabilisce dogmi… che poi l’attuale china presa dalla chiesa sia altra cosa, almeno nelle sue alte gerarchie è un problema non da poco, su questo concordo in pieno. Ma, solo per fare un esempio, basta prendere il vangelo di Marco… e provare a leggerlo come fonte di verità immobili… è impossibile: la figura di Cristo è inafferrabile, sempre in fuga, che non lascia tregua, che non si lascia com-prendere mai… non a caso, e pochi lo ricordano, in quel vangelo l’unico che riconosce che Cristo è figlio di Dio è il centurione ai piedi della croce… l’unico che rimane li fino alla fine… non c’è infatti traccia degli apostoli ai piedi della croce… mi sembra una lezione non da poco, che la chiesa dovrebbe certamente rimeditare a lungo…
Che ci siano opinioni diverse, mi pare impossibile negarlo.
Che sia impossibile farle diventare una, ancora più certo.
Quello che mi fa venire la mosca al naso è l’evocare, ancora una volta, “la verità”.
Questo.
Soltanto il pensare che esistano, soltanto il pensare che ci siano “cose” là fuori, a cui il linguaggio si debba adeguare per essere “vero”,
designa il fondamentalista, il quale tenderà, in un modo o in un altro, a far sì che sia “bene” che tutti vi si adeguino.
E questo è il “principio di autorità”.
Quando uno pensa di essere il titolare del giudizio di corrispondenza tra linguaggio e “realtà”.
So già quale sarà l’opinione che verrà espressa contro la mia: che ne sai che là fuori non ci siano cose? La tua affermazione è altrettanto dogmatica di chi afferma il contrario.
No. Io non “so” ne “credo” che fuori le cose ci siano o non ci siano. Non esiste metodo per stabilirlo. Sono salito sulla scala per vedere se riuscivo a scorgerle e non le ho viste, poi, come dice Wittgenstein, ho tolto e buttato via la scala.
Il linguaggio, non le cose, può essere vero.
Ed è vero se funziona, se è utile.
Poi si può discutere cosa sia l'”utile”.
Ma allora si discute su come vorremmo che fosse il nostro mondo. Prendendoci la responsabilità di come vorremmo costruirlo, a mani nude.
Cosa c’entra la religione con la filologia?
Chi produce la filologia più bastarda: il filologo.filologo o il prete.filologo dell’Istituto Biblico di Roma?
Chi è appesantito di più dal suo ciarpame ideologico? E’ chiaro che tutto questo non ha senso.
Se la filologia è una disciplina seria, ci saranno metodi, regole, in base a cui giudicare. Che c’entra dio?
Oppure c’entra perché, avendo fatto tutto, ha fatto anche quelle regole, e quindi il mandatario Ratto 16 ha giurisdizione anche su quelle?
@andrea ponso se il testo scritto non è la parola di Dio, sarà parola di uomini. La Chiesa però parla sempre a e in nome di Dio.
Il problema non è poi solo l’interpretazione della Chiesa ma anche la scelta dei testi cosidetti canonici. La ricerca storica e filologica ha ampliato molto l’orizzonte e la Chiesa è in difficoltà.
E anche la teologia della Fede mi sembra non tenga proprio conto di un”divenire”
Luminamenti: se intendiamo la chiesa come istituzione e magistero sono d’accordo… il Vaticano II è eternamente attuato a metà, questo è il problema; ma dal punto di vista della discussione teologica le cose, fortunatamente, sono leggermente migliorate e i fronti di ricerca spingono verso una direzione progressiva della rivelazione. Una modalità interessante sarebbe quella di vedere la liturgia non come un insieme di forme/contenitori di verità date ma come il luogo di una continua e perenne rigenerazione del senso, e di una sua critica: la liturgia dovrebbe essere il luogo di una interruzione, di una continua e profiqua messa in crisi del dogma inteso in senso immobile e lontano dalla vita; insomma, come capita o dovrebbe capitare con l’esperienza estetica: la forma crea il contenuto, lo critica anche radicalmente, lo apre ad altre interpretazioni. Questo, per la gerarchia ecclesiastica non è certo facile, ma penso sia l’unica via possibile. Purtroppo le recenti uscite del pontefice vanno in una direzione opposta e paradossalmente postmoderna: il motu proprio relativo alla liturgia è, da questo punto di vista, una contraddizione palese: si ristabilisce la possibilità di celebrare con il messale latino pre-conciliare, e nello stesso tempo si lascia in vigore quello attuale… questo significa che le forme sono interscambiabili scatole per significati già dati, quindi per nefaste e mortuarie ideologie… questo va contro l’idea di liturgia proposta dal vaticano II che vedeva proprio la liturgia come “culmen et fons” della stessa teologia… non dimentichiamo che anche nel pensiero filosofico uno dei primi contestatori della “verità” intesa come blocco inamovibile fu Nietzche che, non a caso, inizia la sua opera di demolizione del pensiero occidentale proprio partendo dall’analisi di un rito, di una liturgia: la tragedia greca. invece, la chiesa, muovendosi in questo modo, nel tentativo di recuperare una tradizione, si trova implicitamente invischiata in procedimenti molto simili al gioco delle forme interscambiabili tipico del postmoderno… Ratzinger postmoderno, chi l’avrebbe mai detto? e postmoderno non nel senso positivo del termine, ma nel senso più bieco…
Soldato Blu: solo questo, ridurre la verità a “utile” non mi pare la soluzione… occorrerebbe capire cosa intendi per “utile” perchè a me suona come qualcosa di “economicamente utile” e, anche se gli accordiamo una condizione più alta, diciamo pure etica nel senso migliore del termine, mi sembra che la religione non possa nemmeno essere ridotta a etica solamente, come molte altre cose… pensiamo all’estetica, all’arte… è sempre e solo “etica”? e in quale senso? il problema della riduzione del religioso (e non solo) ad etica è un rafforzamento della volontà, dell’azione come autocentrata sull’io… Nietzche stesso, che non amava i teologi e la puzza di sacrestia (come del resto il sottoscritto) non avrebbe di certo accettato questa interpretazione… c’è sempre una alterità che ci supera, che ci libera dalla crocifissione di essere solo noi (come ricordava Pessoa)… il cristianesimo chiama questo “oltre”, questa alterità capace di demolire ogni verità precostituita, ogni verità che si trasforma in idolo e in ideo(idolo)logia con il nome di grazia… ma è una pratica che si ritrova in tutte le filosofie e in tutte le religioni o riflessioni, dall’oriente all’occidente… purtroppo, è vero: tra il dire e il fare (tra pensiero e praxis) c’è l’istituzione… ma non solamente nella chiesa…
@ Andrea Ponso
“Utile” è un termine che ho scelto, proprio perché del tutto neutrale rispetto a qualsiasi disegno. Non esclude né include niente pregiudizialmente.
L’utilità naturalmente viene intesa rispetto a un progetto.
E questo, il progetto, è essenzialmente una “fantasia umana” [Dewey e James].
Premesso questo, il progetto, può servirsi di diversi linguaggi che “funzionino”, compreso quello religioso, se è il caso, e se non funziona invece contro il progetto.
Quando ho incontrato per la prima volta questo modo di vedere le cose, è stato in un libro il cui sottotitolo era: CONTINGENZA, IRONIA E SOLIDARIETA’.
Si trattava della “Filosofia dopo la filosofia”[1989] di Richard Rorty, che partendo dalla necessità affermata da Nitzsche di una “sdivinizzazione” del mondo, a pag. 52, in alcune righe tentava di tracciare un ritratto degli autori che con le loro opere si opponevano a ogni fondamentalismo, contribuendo a costruire quel nuovo mondo che ognuno di noi desidererebbe:
“Il loro spirito di gioco deriva dall’aver compreso il potere della ridescrizione, il potere del linguaggio di rendere possibili e importanti cose nuove e diverse: comprensione che è possibile solo nel momento in cui l’obiettivo diventa quello di ampliare il repertorio delle descrizioni alternative e non di trovare la Giusta Descrizione.”
Considerazioni opportune quelle di Canfora, ma si tenga presente che dovrebbero essere estese al monoteismo in generale. Le interpretazioni ebraiche e musulmane sono forse più affidabili di quelle cattoliche ?
Certamente, Satana. Per questa ragione il mio precedente post è stato
https://www.nazioneindiana.com/2009/01/15/grido-di-dolore/
… va be’ … lasciamo stare