Autismi 6 – Il mio primo infarto (1a parte)

chaissac2 di Giacomo Sartori

Una sera di qualche anno fa ho avuto un infarto. L’ho capito subito che si trattava di un infarto. Stavo guidando, e nel bel mezzo di una curva ho sentito un improvviso dolore al petto. Un dolore lancinante, come se qualcuno mi stringesse il cuore con una gran tenaglia. Me lo comprimesse con tutte le forze. Volesse tagliarlo, come si fa con i fili elettrici protetti dalle loro guaine di gomma. Non riuscivo nemmeno più a respirare, dal dolore. Non potevo fare i gesti necessari per finire il tornante: la macchina s’è fermata di botto.

L’ho capito per via di mio fratello che era un infarto. I sintomi erano identici a quelli che mi aveva descritto lui. Mi aveva riferito in dettaglio tutte le sensazioni, e le sensazioni erano esattamente quelle. L’unica differenza è che io invece di essere nella vasca da bagno ero in auto. In auto e in un posto isolato. E poi a giudicare dal male era un infarto più grave ancora del suo. Lui non era morto, io molto probabilmente sarei schiattato.

Il motore della macchina s’era spento, il silenzio mi rintronava nelle orecchie. Era una notte gelida di pieno inverno, e non si vedeva in giro anima viva. Niente impazienti automobilisti, niente pedoni, niente fanatici che fanno footing nella notte. Ce ne sono sempre, ma in quel momento lì non ne spuntava neanche uno. C’erano solo le stelle. Magnifiche stelle di tutte le dimensioni e più o meno sprofondate nel nero. Ma le stelle in questi casi non muovono certo il culo, mi dicevo.

Sapevo che in questi casi l’unica cosa che conta è arrivare al pronto soccorso il prima possibile. Sapevo bene che se c’è qualche speranza, si gioca nell’ordine dei minuti. Ma me ne stavo impalato con i piedi puntati contro la plancia della macchina, perché avevo constatato che al minimo accenno di movimento la stretta diventava più dolorosa e il ritmo dei battiti si faceva ancora più irregolare. Tutte le mie energie fisiche e mentali le mettevo quindi nel non spostare nemmeno una fibra del mio corpo. Non me ne importava dell’ospedale e della morte, non volevo avere male.

Troppo arrosto di maiale e troppo sugo, con troppe patate al forno, mi dicevo. Belle unte, le patate, come le fa mia madre quando ha degli invitati. E per coronare il tutto una burrosa torta al cioccolato annegata da una cascata di panna montata. Un tripudio di acidi grassi saturi. Il tutto generosamente innaffiato con un rosso denso e scuro riesumato dalla cantina di mio padre, uno sciroppo troppo alcolico che avrebbe stroncato anche un cavallo da tiro.

Ero molto lucido, me ne meravigliavo io stesso. Stavo vivendo gli ultimi istanti della mia esistenza, e ero più lucido che mai. Presto però tutta quella lucidità sarebbe finita in pasto ai vermi: Phylum Platelminti, sottoregno Invertebrati, regno Animalia, dominio Eucarioti. Da non confondere con gli anellidi, o vermi piatti, che essendo vegetariani non sgranocchiano i cadaveri.

Mi domandavo se era quella l’acutezza dei morenti di cui tanto si parla. Io però più che vedere sfilare il passato vedevo sfilare tutti i cibi che avevo ingurgitato. Sentivo che dentro il mio stomaco tutti quei micidiali alimenti s’erano amalgamati, si accingevano a una battaglia finale che avrebbe mobilitato ogni singolo ingrediente. Bisogna essere completamente imbecilli per strafarsi a quel modo. Non potevo dare sempre la colpa agli altri.

Nei dintorni non c’era nessuno che potesse darmi una mano, ormai era assodato. E beninteso non avevo telefonino, perché come sanno tutti quelli che mi conoscono sono contrario ai telefonini. Per una questione etica, prima ancora che per cristallizzazione ideologica, come ripeto sempre.

La tenaglia continuava a stringere. O meglio adesso era il cuore stesso che si strizzava da solo: sentivo distintamente la sua forma nel petto. Era lui che si comprimeva come un pugno serrato con tutte le forze, lui da solo, era inutile stare lì a cercare delle cause esterne. Percepivo il contorno delle sue pareti, con il restringimento a imbuto in basso, e l’aorta sopra: riuscivo a visualizzarlo alla perfezione. Una sorta di ecografia, dove al posto dei raggi dello strumento utilizzavo il mio stesso dolore.

Già prima della fine della cena avevo trincato almeno il triplo del necessario, mi dicevo. E poi anche la grappa ci avevo bevuto dietro, diversi bicchierini. E per finire quattro dita di limoncello, dicendomi che così almeno mia madre avrebbe buttato via quella grottesca bottiglia che le conteneva. Ma ormai era inutile stare a piangere sul latte versato: avevo un infarto. Il mio primo infarto. Era inutile dare la colpa ai commensali, per noiosi e infidi che fossero.

Non potevo stare lì a aspettare chissà cosa, dovevo cercare di arrivare al prossimo paese, mi dissi. Probabilmente era l’ultima mia azione, l’ultimo abbozzo di atto cosiddetto razionale, ma dovevo pur sempre tentare. Era pur sempre meno idiota morire per strada che fermo in mezzo a una curva, con l’auto di traverso.

Resistendo al dolore misi in moto, e in qualche modo riuscii a ingranare la prima. Il male era adesso un po’ meno forte, o almeno così mi sembrava, forse mi ci stavo abituando. Ma probabilmente la necrosi stava pappandosi le pareti del mio cuore, l’ischemia necrotizzava irreversibilmente i tessuti. Nessuna medicina, nessuna terapia, nessun intervento chirurgico avrebbe più potuto restituire alle membrane del mio cuore l’elasticità e la vita. Come un maglione di lana stirato con il ferro da stiro regolato sulla temperatura massima, per intenderci. Mi era capitato, sapevo di cosa parlavo.

Arrivato al tornante il dolore ridivenne insopportabile. Il problema è che al minimo tentativo di muovere il volante la mia regione cardiaca si strizzava come si strizza uno strofinaccio per togliere fuori tutta l’acqua. Solo che il mio era un cuore, un cuore pieno di sentimenti, e tutto sommato anche di belle speranze, non uno strofinaccio: un dolore da urlare. Mi fermai di nuovo, e anche questa volta il motore si spense. L’abitacolo della mia decrepita automobile fu di nuovo invaso dal silenzio.

Non sarei mai arrivato da nessuna parte mi dicevo, guardando ancora le stelle. Il primo paese era a diversi chilometri, ognuno con una miriade di curve. Proseguire era un suicidio: tanto valeva mettere il mio cuore in un tritacarne. Me li vedevo, i filamenti sanguinolenti che sarebbero usciti dai buchetti metallici in basso. Calcolavo quanti pugni di carne macinata ne sarebbero venuti fuori. Quante polpette ne sarebbero risultate, quanto pane grattugiato ci sarebbe voluto. Quanti rametti di prezzemolo. Polpette di belle speranze.

Nonostante l’inesorabile avanzare dell’infarto la mia testa funzionava quasi meglio del solito, avevo l’impressione. A dir la verità uscendo dalla casa di mia madre mi sentivo un po’ annebbiato, e avevo perfino centrato un vaso di fiori, finendo steso per terra, mentre adesso sentivo che il mio cervello andava via come un orologio svizzero. Metteva in relazione, confrontava, buttava lì promettenti abbozzi di teorie, immaginava. Soprattutto immaginava. La mia benedetta testa aveva passato la sua esistenza a immaginarsi delle panzane, e per non smentirsi anche adesso svolazzava nel regno dei possibili. Fino alla fine persa nelle sue divagazioni prive di costrutto.

Provai a ripartire. Quella stradina che avevo preso era però piena di tornanti, tornanti dettati dall’infelice conformazione orografica di quel postaccio dove avevo avuto la sventura di nascere e dove mi ostinavo a tornare di tanto in tanto. Ogni volta che giravo il volante assieme alle ruote girava anche il mio cuore. Il mio cuore s’era fuso nella meccanica di ferro dell’auto da immigrato albanese. E quindi l’unica soluzione era procedere a passo d’uomo, in prima. Sterzando il meno possibile, in modo da ridurre i contorcimenti della cassa toracica. Pazienza per la traiettoria approssimativa, pazienza se mi ritrovavo tutto sulla sinistra. Non era certo il momento di pensare al codice della strada.

Mi domandavo se sarei davvero morto. Sì!, rispondeva senza mezzi termini una parte di me. Con quel male lì, così improvviso, così lancinante, e con quella tachicardia, il decorso più verosimile era il decesso, argomentava quella sezione più razionale, convinta di saperla lunga in fatto di cardiologia. Mi avrebbero ritrovato con la testa appoggiata sul volante, doppiamente stecchito, vista la temperatura polare. Ma in fondo era uguale, morire o meno: un paio di modesti romanzetti ero pur sempre riuscito a metterli lì. Qualche periferica biblioteca conservava pur sempre un esemplare di uno o l’altro dei miei testi, una qualche occhialuta dottoranda si sarebbe forse intestardita un giorno a riesumarlo. In quella fetta di me lo stoicismo andava a braccetto con una trattenuta solennità, mi accorgevo.

Un altro trancio di me sperava però di non morire. O meglio, sapeva benissimo che ho il viziaccio di dipingermi tutto in nero, ma che spesso e volentieri finisco poi per cavarmela. Sapeva che drammatizzare è un modo come un altro per non guardare in faccia la realtà. Conosceva quello a cui sarei andato davvero incontro: brodini semitrasparenti, pallide carote lesse, insulse mele cotte, orari da convento, l’apparecchietto digitale per misurare la pressione sempre a portata di mano. Niente mangiate, niente bevute, niente sigarette, niente epiche scopate: un ialino vegetare da infartuato. Può sembrare incredibile, ma quel sarcastico lembo di me stesso già mi vedeva alle prese con i fastidi della postconvalescenza. Vedeva la depressione che mi si sarebbe incollata ai polmoni e all’anima: mi prendeva in giro in anticipo.

Il problema è che quei due me sapevano entrambi quasi tutto sull’infarto. Da quando appunto mio fratello tre anni prima aveva avuto un infarto molto grave. A quarantasei anni. Come succede sempre in questi casi avevo seguito le varie fasi della sua via crucis, dalle prime drammatiche quarantott’ore fino alla guarigione. Insomma, guarigione: fino alla scatola di medicine sul tavolino accanto al divano, dalla quale ogni tanto mentre si parla pesca una pillola, una compressa. Con la spontaneità con cui un altro potrebbe attingere a un sacchetto di caramelline o a un cestino di pop-corn. Un numero impressionante di pastiglie e di capsule di vario colore e dimensione, con micidiali effetti collaterali. Anche sessuali, suppongo, anche se non ho mai affrontato con lui questo tema.

Piano piano, e neanche a farlo apposta sempre sulla corsia di sinistra, ma avanzavo. Il volante lo giravo ormai solo con le ginocchia, in modo da non torcere il busto. A ogni curva sperimentavo nuovi piccoli trucchi per farmi meno male possibile. Li confrontavo, li perfezionavo. L’essere umano è maledettamente adattabile, mi dicevo, stupendomi io stesso della mia beota autosoddisfazione.

Arrivato al paese provai a guardarmi attorno, per quel che  ci si può guardare attorno senza girare di un millimetro la testa. E comunque non c’era in giro anima viva: tutti già a nanna, come si addice a dei grigi cittadini fintamente operosi. O alla meglio intenti a godersi delle relazioni umane virtuali su internet. I due bar erano strachiusi. C’era solo una cabina telefonica intirizzita dal gran freddo, che certo non avrebbe funzionato, come sempre le cabine telefoniche quando si ha bisogno.

Decisi allora di provare ad arrivare da mio nipote, come stavo facendo quando il mio cuore s’era ammutinato. Non erano certo tre chilometri in più che avrebbero cambiato le cose: con un po’ di fortuna ce l’avrei fatta, e sarei morto là. Pur sempre un bel risultato, vista la situazione. Se la sarebbe sbrigata lui con il cadavere e con le formalità.

Il problema non era solo quello che avevo ingurgitato quella sera, mi dicevo, sempre avanzando in prima, senza né accelerare né frenare. In realtà era da mesi che mangiavo e bevevo più del necessario. Ogni giorno mi giuravo che sarei ritornato alle scodelline di riso integrale condito con un filino di olio di colza, e ogni giorno mangiavo come un bue.  Mangiavo troppo, e soprattutto bevevo come una spugna. Vino e superalcolici. Ma anche con le sigarette, c’ero andato più forte del solito. Il tutto in un periodo di stress lavorativo prolungato. Aggravato da un sonno molto difficile la notte, legato a annosi problemi sentimentali. Il cocktail esemplare per avere un signor infarto.

Mio fratello aveva avuto il suo primo infarto a quarantasei anni, e io per l’appunto ero reduce dalla cena per i miei quarantasei anni, mi dicevo, sempre procedendo sulla corsia di sinistra. Era come se alla macchina le piacesse più la sinistra che la destra, per una volta che le lasciavo fare quello che voleva lei. Sei proprio una vecchia baldracca di sinistra, esattamente come il tuo proprietario!, mi venne da dirle. Ad alta voce. Mi fece bene sentire la mia voce. Era pur sempre una voce umana.

Visto che non avevo saputo imparare la lezione adesso avevo anch’io un infarto, mi dicevo. Alla stessa età di mio fratello. Un’età completamente insulsa per morire, sotto tutti i punti di vista. Morire a quarantacinque anni o a cinquanta aveva un qualche senso, ma non certo a quarantasei. Altro che maggiore coscienza delle cose, sono peggio di lui, mi dicevo.

All’improvviso fui accecato da una luce aggressiva come quella di un flash, ma più persistente, accompagnata da un interminabile tuono che mi fece sbattere la testa contro il tensore della cintura di sicurezza. Uno spavento da far venire un infarto, per chi non fosse già alle prese con uno. La causa era un bolide arrivato in senso contrario a folle velocità: prima di rendermene conto ero finito di traverso sulla carreggiata, di nuovo con il motore spento. Di nuovo nel silenzio più totale, con le solite stelle curiosone.

Uno dei tipici guidatori tutti presi dalla loro furia automobilistica, e che se non stai attento ti ammazzano!, mi dissi. Vanno come i pazzi, e poi si stupiscono se fanno gli incidenti! Bisognerebbe ritirargli a tutti la patente! Parlavo ancora a voce alta. O meglio, farfugliavo dei suoni che faticavo io stesso a comprendere. Probabilmente l’ischemia era entrata nella fase più esacerbata. Abbiamo sfiorato l’ammazzamento di un morto!, sbottai. Cercavo di fare lo spiritoso, come spesso succede quando si è avuta molta paura.

(continua)

Immagine di Gaston Chaissac.

30 COMMENTS

  1. L’unica cosa che manca, rispetto ai racconti precedenti di Giacomo Sartori, è la sorpresa.

    Ormai sappiamo quanto sia bravo, e quindi, visto il suo nome, non facciamo altro che rilassarci, per poterci godere in modo sereno questi
    autentici doni calati dal web.

  2. In doverosa attesa della seconda parte, secondo me la prima è riuscita a metà. Mi piace l’umorismo un po’ paradossale, e mi piace l’idea di particolareggiare i pensieri del personaggio (come quando rievoca di continuo ciò che ha mangiato e bevuto, ad es.); ma proprio qui sta a mio avviso il punto debole: l’autore avrebbe dovuto particolareggiare di più, elencare, strabordare, diventare bizantino,ossessivo, alla Wallace per intenderci. In tal modo avrebbe ottenuto un maggiore distanziamento fra l’oggettiva urgenza della situazione, e la “sbarrata”, ipnotica lucidità mentale dell’io narrante – distanziamento che mi sembra egli cerchi di raggiungere (basti pensare all’espressione “quei due miei me”, ma non soltanto). E che egli tenti di raggiungere tale distanziamento è un ottimo espediente, dato che su di esso mi pare reggersi la narrazione, che un eventuale colpo di scena finale si verifichi o meno.

  3. Sartori ha ‘sta cosa che ogni volta attira questi holdeniani, questi commentatori con la penna in mano che ne sanno più di lui, che gli spiegano come i suoi racconti andrebbero scritti, come avrebbe dovuto scriverli perché diventassero belli, bellissimi, alla Wallace addirittura! Che culo, Sartori.

  4. Forte il brano. Raccontare del dolore,del cuore, con una viva realtà è sperienza strordinaria. Si puo dire che una crisi di angoscia assomiglia a l’infarto: l’impressione di soffocare è una terribile morte-nascita: Il mondo diventa buio, la mente lotta, si dilania, invece nel racconto la mente vede benissimo. In crisi di angoscia hai l’mpressione di una mente che lotta non con la morte, ma con la follia.

  5. @harzie
    Non sono holdeniano (anzi), non appiccicarmi etichette, please. Scrivo e leggo, tutto qua. Il commentatore, se non ha la penna in mano, è lettore. E io stavolta ho fatto il commentatore, perchè ritenevo ne valesse la pena. Tu che ne pensi del racconto di Sartori?

  6. penso che per holdeniano harzie intendesse essere vivente allevato o allevatore in scuole di scrittura, di quelli che sanno sempre in che cassetto si trova l’espediente

  7. Anch’io, in un primo momento, non ho capito il riferimento di harzie.

    Ho pensato, turbato, che coinvolgesse Salinger.

    Però adesso bisogna che qualcuno spieghi a Diamante che non è che non piace che il racconto di Giacomo Sartori non gli piaccia.
    Questi sono affari suoi.

    Gli dica che quello che non piace è solamente il modo con cui mostra quanto piaccia a se stesso.
    E anche questi sono affari suoi.

  8. Maddài, Diamante, quello che non piace è solamente… affari tuoi.
    Scherzi a parte, e ringraziando di pasaggio Alcor che mi conosce e ha capito cosa volevo dire, non eri solo tu l’oggetto del mio – del mio? Il fatto è che capiti dopo una serie di “Autismi” in cui già il nostro si era attirato le attenzioni puntigliose di chi pareva saperla più lunga di lui e non si peritava di snocciolare migliorie, e la cosa a me, che al contrario sono un estimatore un po’ acritico di Sartori e più in generale tendo ad accordare piena fiducia all’autore e alle sue intenzioni, anche nei casi estremi in cui portano al fallimento, era parsa un po’ fastidiosa. Dopodiché, se è vero quello che ho sentito venerdì scorso, di sera, tra un calvados e l’altro, da una persona che Sartori lo conosce di persona, egli stesso a quanto pare non disdegna certe lezioncine, anzi, vi scorge una forma di attenzione che in fondo lo allieta. Chissà poi se è vero.

  9. Caro soldato blu, non ho detto che il racconto non mi piace, ma ho solamente indicato ciò che a mio avviso non funziona in un racconto che complessivamente mi sembra funzionare; leggi dunque con più attenzione i miei commenti, o lasciali stare del tutto. Quanto al mio presunto autocompiacimento, noto che su NI sembra una colpa esprimere opinioni: sarete mica il solito coretto che se la canta e se la suona? Io, caro soldato, dico quello che penso, dove mi pare e quando mi pare – naturalmente nei limiti di una buona educazione che non ho mai infranto, nè mai infrangerò. Se un brano non mi piace, lo dico – e motivo. Se mi piace, lo dico – e motivo. Se mi piace per alcuni versi e meno per altri, lo dico – e motivo. E tu, invece di farmi le pulci che non ho, sai dire – e motivare – qualcosa di tuo, finalmente? Perchè non parli del brano, e ci arricchisci con la tua sapienza, se ne hai?
    Harzie, lo so che ciò che non piace è, in definitiva, affari miei; ma credevo – e voglio ancora credere – che NI sia un luogo di discussione, dove gli affari miei possano (non debbano, chiaro) diventare anche affari degli altri, e viceversa. Mi fa piacere che tu non avessi intenzioni beffarde nei miei confronti (non eccessivamente beffarde, almeno); prendo atto della tua ammirazione per Sartori; ma tu puoi prendere atto che credo di sapere quello che dico, quando lo dico? Perchè una critica a Sartori è “fastidiosa”? Forse perchè sono un signor nessuno? E se non fossi un signor nessuno? E se lo fossi invece, e ugualmente criticassi, dove sarebbe – dov’è – il problema? Non ho ancora sentito una contro-critica letteraria alla mia critica letteraria, ma soltanto critiche personali alla medesima, le quali bypassano l’opera di Sartori, non rendendole il giusto onore. NI è il Processo di Biscardi, o un luogo di dibattito culturale?

  10. Diamante,
    leggo sempre con interesse i tuoi commenti. Proprio per questo ti chiedo di non cadere in una classica trappola. Mi spiego: quando scrivi “noto che su NI sembra una colpa esprimere opinioni: sarete mica il solito coretto che se la canta e se la suona?” fai un errore. E’ quello del “VOI”. Non c’è nessun “voi” qui. Ognuno esprime la sua opinione, non esistono regole da seguire colelttivamente, tranne quelle della buona educazione. Se qualcuno travalica, non fare di tutt’erba un fascio.
    Credo che questo sia davvero un luogo di dibattito. Essendo in rete spesso si tracima, lo facciamo tutti, io compreso. Ci vuole pazienza, calma e gesso.
    Su Sartori non mi esprimo, lo amo incondizionatamente, non sarei equilibrato nel mio giudizio. ;-)

  11. @ Diamante

    non so, davvero, se le mie due piccoli frasi meritino la reazione che hanno suscitato in te o, addirittura, se ho capito bene, la presa di distanza di Biondillo, rispetto al “travalicare”.

    Leggere con più attenzione gli interventi a cui si risponde è una raccomandazione che potrebbe interessare anche te.

    Sia chiaro che io non alcuna sapienza che mi arricchisce, figuriamoci se posso arricchire gli altri!

    Anzi, è proprio per questo che frequento N.I.: cerco il mio arricchimento nella sapienza degli altri.

    Quindi vediamo come stanno le cose per me.

    La premessa la prendo da harzie, che si sa esprimere molto meglio di me, e che condivido pienamente:

    “Il fatto è che capiti dopo una serie di “Autismi” in cui già il nostro si era attirato le attenzioni puntigliose di chi pareva saperla più lunga di lui e non si peritava di snocciolare migliorie, e la cosa a me, che al contrario sono un estimatore un po’ acritico di Sartori e più in generale tendo ad accordare piena fiducia all’autore e alle sue intenzioni, anche nei casi estremi in cui portano al fallimento, era parsa un po’ fastidiosa.”

    E, adesso, ecco la tua frase che io non ho apprezzato, considerandola “un modo sbagliato” di applicare la propria intelligenza a un testo.
    Perché non è chiaro, o forse troppo, cosa significa quello che dici in questo contesto:

    “l’autore avrebbe dovuto particolareggiare di più, elencare, strabordare, diventare bizantino,ossessivo, alla Wallace per intenderci. In tal modo avrebbe ottenuto un maggiore distanziamento fra l’oggettiva urgenza della situazione, e la “sbarrata”, ipnotica lucidità mentale dell’io narrante – distanziamento che mi sembra egli cerchi di raggiungere (basti pensare all’espressione “quei due miei me”, ma non soltanto)”.

    Vuoi dire che l’autore non è stato capace di raggiungere lo scopo che si era prefisso?

    Oltre tutto dopo averlo deciso TU, qual era lo scopo dell’autore.

    OPPURE CHE TU AVRESTI FATTO DI MEGLIO?

    Penso che sia per questo sia il motivo peer cui è venuto fuori l'”holdeniano”: non è critica, questa è una “lezioncina”:

    Ti pare stia tracimando, quando dico che IL MODO DI MOSTRARE quanto ami te stesso (la tua sapienza?) non mi piace?

  12. Diamante, sta’ a sentire, io non ho dubbi che il tuo commento fosse in buona fede, e magari sarai pure un signor qualcuno, e ti ripeto anche: pare che Sartori stesso apprezzi più interventi come i tuoi che le uscite acritiche di certi fan, e persino: al suo posto probabilmente farei lo stesso – ma ribadisco: capiti in coda a tutta una serie di interventi “critici” di tenore non dissimile dal tuo, forse meno nobili e più presuntuosi nell’intenzione, e così ti sei dovuto sorbire il mio commento “beffardo”, poco riflettuto certo, ma sentito, fa parte del gioco (cfr. Biondillo) e poi insomma, una volta che uno infila le braghe del diavoletto gli tocca tenersele fino alla fine del thread – e un diavoletto mica se la può prendere coi poveri diavoli come gierre che manco sanno apprezzare lo stile di un racconto come questo, definendolo invece, oh my god, «noioso, […] ripetitivo»; piuttosto punzecchia appunto gli angioletti come te;-)

  13. Caro Biondillo, mi scuso se ho fatto di tutt’erba un fascio. Hai ragione, per adesso non posso che riferirmi a due, tre voci, dunque ritiro le mie affermazioni su NI in generale; e ti ringrazio del tuo interesse per i miei commenti. Una delle voci cui posso riferirmi è soldato blu, ovviamente. Al quale ribadisco, continuando a voler credere di non scrivere cinese ma italiano: io non ho deciso qual è lo scopo che si è prefisso Sartori (e ci mancherebbe); ho ipotizzato, sulla base di impressioni ricavabili oggettivamente dal testo (ma non perciò necessariamente giuste), che avrebbe potuto seguire di più una via che egli stesso ha abbozzato (anche questo è oggettivo, ma anche questo potrebbe non essere giusto: giustizia, anzi giustezza e oggettività in letteratura non sempre vanno d’accordo) – con quali intenti, non posso saperlo. E finché non parlo con l’autore, non ne saprò gli intenti, e l’oggettività resterà a stretto contatto con l’errore. Posso però presumere che egli tentasse un distanziamento fra oggettività e soggettività; attento soldato, ho usato il verbo presumere! La mia era una “lezioncina”? Mi sembrava piuttosto un corretto esercizio della critica (branca della letteratura che, fra l’altro, non mi sta molto simpatica, ma ciò non significa che non la rispetti, eserciti e subisca). Quale sarebbe allora il modo di criticare senza impartire “lezioncine”? Sghignazzare come fai tu non la ritengo una via praticabile. Io avrei scritto meglio il racconto di Sartori? E’ una domanda, quella che ti poni ad altissimissima voce, insensata: il racconto l’ha scritto Sartori, non io. Oneri e onori a lui. Se, infine, non ti piace il modo in cui ti pare che io mi piaccia, lasciami stare, e smetterò di non piacerti per quanto mi piaccio.
    Harzie, ti ringrazio della stima che mi sembra di intravedere nel tuo post; ho ben capito ciò che intendi; vuol dire che mi farò le ossa.

  14. Carissimo Diamante,

    per me l’incidente è chiuso. Anzi non c’è mai stato un incidente.
    Capisco che ciò che è considerato ironia in partenza, possa essere
    ricevuto, poi, come “sghignazzata”. Ma Gramsci divideva ironia da sarcasmo, secondo ben precise caratteristche. Ti assicuro la mia era ironia.

    Non ho mai frequentato circoli cosi seriosi, da poter affinare la mia sensibilità e quindi imparare a mostrare il rispetto “dovuto”. E quindi negarmi l’autoronia di gruppo, di sinistra, dal sarcasmo.lama.assassina del capro espiatorio, di destra.

    Perchè su N.I. un autore può essere criticato, anche ironicamente, certo, e un commentatore no, adducendo congetture supposte oggettive almeno quanto quelle usate dal commentatore criticato, nei confronti di un autore.

    Accolgo l’invito a lasciare stare, ma ti assicuro che quello che non mi è piaciuto di te è soltanto quello che tu hai intenso per “critica”, mi entusiasma quasi, invece, la tua capacità – è una congettura – “politica” che mostri di avere, sino a farmi sospettare che tu tale sei: un politico.

  15. E quindi negarmi l’autoronia di gruppo, di sinistra, perché, talvolta, non viene colta la distinzione dal sarcasmo…

  16. triplo OT / Andrea, ma se non me lo dicevi tu, quando sono comparsa nel firmamento, per me anime e anime sarebbe stata una sola cosa *davvero mazinga non c-entra con Mazinga_ *mi si [ ridecomposta la tastiera, sorry.

  17. No, per carità, non sono un politico – di questi tempi, poi, peggiore insulto credo non possa esserci. Ma sia chiaro che non l’ho presa come se tu volessi insultarmi, e spero d’aver capito bene!
    Non sono purtroppo nemmeno goldrake (che da ragazzino adoravo) nè mazinga, ma non ho capito cosa intendesse alcor.
    A presto

  18. resta il fatto che le critiche sono sempre (almeno per me) maledettamente stimolanti; qualcosa di vero, e spesso molto più di qualcosa, c’è sempre; come dire, spesso nella sparata intuitiva c’è 10.000 più verità che in una serissima recensione;

    queste critiche ti obbligano a un lavoro di depurazione, dopo il male iniziale (non fanno mai piacere, è ovvio); spesso c’è dell’astio (non è questo il caso!), e anche quello non è mai privo di senso, e va interpretato; spesso c’è della ridicola supponenza (come dice giustamente harzie; ma anche qui non è in realtà questo il caso), e anche quella qualche volta dice qualcosa;
    e dopo la depurazione c’è il cercare di entrare in una prospettiva spesso lontanissimo dalla tua (scrivendo un testo, e tanto più un racconto breve, in realtà si mira alla coerenza = ci si arrocca su quelle che sono le sue fondazioni, isolandosi per certi aspetti – naturalmente questo non vale per gli aspetti più prettamente linguistici e stilistici – da tutto il resto);
    io tanto per fare un esempio non ho minimamente pensato a Wallace scrivendo questo racconto, ma non trovo privo di interesse domandarmi – rovesciando però la prospettiva – perchè non ho seguito la via più wallaciana che suggerisce Diamante (= in cosa il mio approccio si differenzia, quale è la differenza nella coerenza interna …);
    e anche le “critiche” molto cerebrali (“maggiore distanziamento fra l’oggettiva urgenza della situazione…”), mi stimolano; io ho un approccio molto più empirico alla scrittura (come anche molti altri scrittori, anche molto grandi), e a dire il vero vado molto a orecchio; ma a posteriori queste griglie analitiche possono essere feconde …

    ma tutto ciò richiederebbe naturalmente una trattazione molto più approfondita e dettagliata … e adesso ho ancora del lavoro;

    e certo fanno più piacere i complimenti! (quindi grazie di cuore)

  19. @sartori … a me è piaciuta questa prima parte. Non maledettamente. Ma è piaciuta. Mi ricorda un inizio di Flaiano in cui si parla di maldidenti. Il tema, comunque, non è il dolore, ma è il mio dolore… il mio infarto, dice il titolo. Il dolore è un’altra cosa, ben più dolorosa. E non mi sembra nemmeno la solitudine: essere col proprio cuore e col proprio dolore equivale a non essere soli… insomma sto realizzando che il racconto mi piace perchè non parla delle cose che dice e perchè non mi lascia intuire cosa aspettarmi.

  20. Esemplare la disponibilità all’ascolto di Sartori; non è mai facile sopportare appunti sul proprio lavoro, specie su un lavoro letterario, che richiede sempre grande fatica. Riaguardo a soldato blu, se ti riferisci a me, non porto alcun rancore, e andiamo avanti. Attendo il seguito del racconto.

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Andrea Raos
Andrea Raos
andrea raos ha pubblicato discendere il fiume calmo, nel quinto quaderno italiano (milano, crocetti, 1996, a c. di franco buffoni), aspettami, dice. poesie 1992-2002 (roma, pieraldo, 2003), luna velata (marsiglia, cipM – les comptoirs de la nouvelle b.s., 2003), le api migratori (salerno, oèdipus – collana liquid, 2007), AAVV, prosa in prosa (firenze, le lettere, 2009), AAVV, la fisica delle cose. dieci riscritture da lucrezio (roma, giulio perrone editore, 2010), i cani dello chott el-jerid (milano, arcipelago, 2010) e le avventure dell'allegro leprotto e altre storie inospitali (osimo - an, arcipelago itaca, 2017). è presente nel volume àkusma. forme della poesia contemporanea (metauro, 2000). ha curato le antologie chijô no utagoe – il coro temporaneo (tokyo, shichôsha, 2001) e contemporary italian poetry (freeverse editions, 2013). con andrea inglese ha curato le antologie azioni poetiche. nouveaux poètes italiens, in «action poétique», (sett. 2004) e le macchine liriche. sei poeti francesi della contemporaneità, in «nuovi argomenti» (ott.-dic. 2005). sue poesie sono apparse in traduzione francese sulle riviste «le cahier du réfuge» (2002), «if» (2003), «action poétique» (2005), «exit» (2005) e "nioques" (2015); altre, in traduzioni inglese, in "the new review of literature" (vol. 5 no. 2 / spring 2008), "aufgabe" (no. 7, 2008), poetry international, free verse e la rubrica "in translation" della rivista "brooklyn rail". in volume ha tradotto joe ross, strati (con marco giovenale, la camera verde, 2007), ryoko sekiguchi, apparizione (la camera verde, 2009), giuliano mesa (con eric suchere, action poetique, 2010), stephen rodefer, dormendo con la luce accesa (nazione indiana / murene, 2010) e charles reznikoff, olocausto (benway series, 2014). in rivista ha tradotto, tra gli altri, yoshioka minoru, gherasim luca, liliane giraudon, valere novarina, danielle collobert, nanni balestrini, kathleen fraser, robert lax, peter gizzi, bob perelman, antoine volodine, franco fortini e murasaki shikibu.