Per sempre lontano
di Gianni Biondillo
Amy Bloom, Per sempre lontano, Einaudi, 2008, 270 pag., trad. Giovanna Granato
Scappata da un pogrom in Unione Sovietica che le ha sterminato la famiglia, Lilian, la protagonista di Per sempre lontano di Amy Bloom, decide di rifarsi una vita negli Stati Uniti. Siamo negli anni Venti del ‘900 e la vita è complicata per una giovane ebrea, per quanto intraprendente, che parla a malapena l’yiddish.
Ma la forza d’animo dell’eroina, ché questa è a tutti gli effetti una storia d’avventure, pare essere più forte delle traversie che deve affrontare. Le cose, insomma, sembrano andare per il verso giusto. Ma c’è un ma. Per puro caso Lilian scopre che la sua unica figlia di quattro anni, Sophie, non è affatto morta come credeva, e che ora è con una famiglia adottiva in Siberia. Questo le basta per gettare la sua nuova vita alle spalle e intraprendere un viaggio che da New York la porterà fino allo stretto di Bering, nel desiderio di ritrovare la figlia perduta.
Ammetto di non aver apprezzato la scelta di narrare questa avventura al presente storico, piuttosto che col canonico passato remoto, quasi a voler occhieggiare una moda stilistica degli ultimi anni, perdendo così la forza epica connaturata alla declinazione tipica della narrazione al passato. Così come, spesso, i personaggi che la protagonista incontra, personaggi marginali, ai margini anche geografici dell’America, spesso sono solo tratteggiati senza che si riesca ad affezionarcisi davvero.
Però vero è che Amy Bloom, di fronte all’ennesima storia di ebrei erranti non cade nel solito armamentario retorico di una tradizione letteraria ricchissima, ma fa intraprendere un viaggio anomalo alla sua protagonista (e la seconda parte del libro – quella del ritorno – è di certo la migliore), non solo nello spazio, ma anche nel tempo, facendo degli sguardi fugaci verso il futuro dei suoi protagonisti un modo di avvicinare a noi quelle storie e allo stesso tempo di inchiodare nel mito la disperata ricerca di amore di questa madre volitiva, pronta a gettarsi nell’ignoto pur di ritrovare la sua piccola, candida, Sophie.
[pubblicato su Cooperazione, n.3 del 13 gennaio 2009]
Ho osservato la stessa inclinazione nella lettaratura odierna francese per l’abbandono del passato remoto. Il passato remota ha un languore di malinconia. E’ come una distanza perfetta tra la storia e la scrittura, l’allontanamento. Forse nel nostro mondo è solo il presente l’importante, la possibilità di muovere senza fermare. Il passe remoto si ferma in un tempo di orologio sospeso.
In realtà trovo che la lingua classica si armonizza con questo tempo, ho ritrovato questo equilibrio nella scrittura di Marguerite Yourcenar.
Il presente ha il potere di essere vivo: entra subito nella mente del lettore, anche nel romanzo storico.
quale è il pregio e il difetto del presente storico, rispetto al passato remoto? io apprezzo ovviamente il secondo e poco spesso mi sono confrontato con il primo.