Alì en Rose
Se provi a immaginare quanti anni ha, gliene dai 30 e anche 60. Potrebbe essere indiano o pachistano o bangladese. Lui non lo sa. O a me fa piacere immaginare che sia così, che non lo sappia davvero, chi sia. Tanti anni fa ero convinto che fosse marocchino. Mi sembrava che lui avesse annuito, quella volta, quando gliel’ho chiesto. L’altro giorno gli ho domandato se fosse del Bangladesh e lui ha annuito anche stavolta, cordiale. Ha un volto scarnificato, la pelle scura erosa dal tempo e pupille liquide che navigano dentro un sorriso. E’ magro, di altezza media, vestito in modo sobrio, con scarpe robuste.
Si esprime per lo più a gesti e il gesto che gli riesce meglio è l’abbraccio.
Ti vede da lontano, nella folla della Casa 139 o tra i tavolini bagnati dei Navigli e si avvicina, allargando un braccio, la mano con il palmo aperto, sincero. L’altra parte del corpo abbraccia un mazzo di rose rosse, fresche e sgualcite, ancora invendute. Poi ti abbraccia, le rose di lato, e vuole sentire il tuo corpo. Mette la sua testa sulla tua, la fa riposare e come ondeggiare. Poi comincia a baciarti le guance, più volte. A destra e a sinistra. E’ come una specie di rituale, ma rinnovato ogni volta nell’energia e nella passione. Io mi imbarazzo, ma ricambio l’abbraccio. Talvolta faccio un tentativo educato (non voglio che se accorga) e provo ad allontanarmi dalla morsa. Quando il movimento non ha effetto, e la morsa resta intatta, sollevo leggermente la testa, poggiata parallelamente alla sua, e mi guardo intorno. Ci sono facce che ci scrutano e indovino i pensieri, i sentimenti. Qualcuno sorride, qualcuno è indifferente. Io me ne resto lì, sulla pista, mentre abbraccio un uomo di età e nazionalità indefinibile, con un mazzo di rose sgualcite. Quando finisce la stretta, mi sento sollevato. Lo guardo e lui adesso quasi ride, anche se non supera mai veramente il confine del sorriso. Mi dice “Cazzo, Alì”. Ed è il suo modo per sentirsi vicino, per sentirsi uguale. La prima volta che mi ha detto il suo nome, Alì, mi ha chiesto il mio. Alessandro, gli ho detto. Ha fatto una faccia come a dire, lo sapevo, e ha detto: “Alì cazzo!”. E poi è cominciato tutto un movimento di mani per dire tu Alì, io Alì, tutti e due Alì. Siamo Alì, cazzo. Da allora lo saluto anch’io così, Alì cazzo, e ormai Cazzo sembra un cognome.
Alì è un alcolista. Entra nei locali, la Casa 139, Le Scimmie, e c’è sempre qualcuno che gli offre da bere. Chiede qualche moneta e loro gli danno una consumazione gratis. Beve tutto. Whiskey e rum e anche gin. A volte, quando nessuno gli dà niente, mi chiede un po’ di birra. Indica il mio bicchiere pieno.
Io gliela do, ma poi faccio finta di bere e lascio il bicchiere su un tavolino. Mi fa schifo. E penso, le malattie. Poi mi sento in colpa e penso, ma quali malattie. Allora adesso, per non sentirmi in colpa, per non guardare questo bicchiere quasi pieno abbandonato sopra un tavolino, quando mi chiede la birra ora gliene compro una nuova, al bancone. Così è diventato alcolista Alì. Lo so bene questo. Per scacciare anche questo senso di colpa, glielo dico spesso: Alì cazzo, non bere troppo che fa male. Lui annuisce e sorride.
Una volta l’hanno preso le ragazze e gli hanno ballato intorno. Non una cosa che lo prendevano in giro. Alì era contento e ubriaco e ballava. Alì ha dei figli o forse non ne ha. Non è ubriaco spesso, se con questo si intende spaccare le cose o urlare. Ha solo occhi più liquidi e oscilla più del solito. Una volta gli ho chiesto dove abita.
Lui ha cominciato a parlare, non si capiva ma ho capito che vive con altri che vendono i fiori. Molti altri, dentro una stanza, fuori Milano. Poi mi ha detto: posso venire a stare da te? Non mi ricordo se le parole erano proprio queste, ma la faccia e i gesti e tutto quanto di lui mi ripetevano la domanda: posso venire a stare da te? Io gli ho detto che no, che non poteva ma lui ha insistito un po’, con gentilezza. Io gli ho detto che no e poi gli ho detto, Alì cazzo, no che non puoi. No.
Io poi vivo con una ragazza.
Non so come mi è venuto in mente di dirla, questa cosa della ragazza, perché io la ragazza non ce l’ho. Io poi vivo con una ragazza. Al momento mi è parsa la maniera giusta per dare una risposta ferma ma educata. Ad ogni modo non lo so se l’ha capito cosa ho detto. Poi abbiamo parlato d’altro. In realtà ho parlato io. Ho fatto delle domande, mi sono interessato a lui, ho deciso di interessarmi a lui. L’ho pensato, anche, che lo avevo deciso. Comunque sia, non ne ho ricavato molto.
Perché non lo capisco Alì, quando parla.
Una volta avevamo pensato a lui per un cortometraggio. Si chiamava “Storia di una rosa”. Ci siamo messi al tavolo di una birreria e c’era anche Claudia. Le spiegavamo il progetto. Si comincia così, con la camera stretta a inquadrare una rosa in una pozzanghera. Poi la camera allarga il campo, si vede la mano della ragazza che lo getta, mentre già volta le spalle e si allontana. Poi il locale dove l’aveva comprata. Claudia non capiva. Noi ci siamo accaniti a raccontare. Facciamo un viaggio a ritroso, un’inchiesta. Si vede l’uomo che vende le rose nei locali, le ragazze che si schermiscono, i ragazzi che fanno gli spiritosi. Le comprano, non le comprano. Poi ancora indietro. Il gruppetto di stranieri che si riunisce la mattina presto e compra le rose dai caporali italiani. Questi che all’Ortomercato rubano le rose. Le rose che arrivano all’Ortomercato per via aerea. La serra olandese dove vengono coltivate le rose. E poi, in montaggio parallelo con il viaggio della rosa, il viaggio di Alì che torna a casa a piedi, lungo il Naviglio.
Poi sono andato via da Milano, sono andato via, e Alì ha continuato a camminare da solo, ad aggirarsi davanti al Capetown, alla Casa, alle Colonne, a sorridere con i denti da bambino invecchiato male, con i capelli bagnati e stopposi, ancora non completamente bianchi. Sapeva sempre di umido Alì, anche quando non pioveva. Mario, mi hanno detto, ha incontrato Alì l’altro giorno da Peppuccio e gli ha comprato un enorme mazzo di rose. Io me lo immagino Mario che lo abbraccia e gli dice Alì cazzo, ridendo. Poi Mario ha preso i fiori e li ha regalati alla ragazza Anna. Anna l’ho vista ieri al Pigneto. Non erano per me quei fiori, mi ha detto sorridendo. Mi sembrava un po’ triste, ma forse no.
Non erano per me davvero. Erano per Alì
Prima la bellezza dell’immagine. I petali nell’aria in colore vivo comme una festa, ma petali separati già dal fiore, dedicati all’oblio.
Leggendo il racconto, ho pensato che nessuno non vede il volto dell’uomo che vende le rose e va di tavola in tavola. Quando sei in coppia, sento ( se sei una donna) la leggera esitazione dell’uomo che si chiama amante, amico, ragazzo, marito, compagno, forse la leggera stizza.
Ma si parla di altra cosa, la storia di un uomo con dentro una memoria muta: non puo condividere il ricordo del paese, della sua vita. Un uomo senza sosta, senza età, con lo sguardo liquido (dice il ricordo), perché tutto è annegato nel suo sguardo.
Leggendo, si sente tutta la distanza che separa il narratore dell’uomo con le rose, sarà sempre nella distanza. E’ la distanza da un un mondo all’altro, non ha l’amicizia o l’amore per valicare questa distanza.
Mi è piaciuto il viaggio della rosa.
Mi ricordo che le donne zingare hanno contro il petto mazzo di garofani.
Avete sentito un garofano? Ha un profumo delicato, bagnato, discreto.
Sogno un testo sur la révolution des oeillets
o un saggio sul vincolo tra fiore e rivoluzione( mi sembra che è un argumento che piacerebbe a effeffe).