Autismi 8 – Terapia di accoppiamento (2a parte)
di Giacomo Sartori
[Chiedo scusa all’autore e ai lettori per il ritardo nella pubblicazione della seconda parte di questo Autismo, ero in viaggio. a. r.]
Secondo mia moglie ero bravissimo a fare il santerellino durante le sedute e a intenerire la terapeuta raccontandole ogni volta una vagonata di inverosimili castronerie. Fingevo di essere una persona attenta e disponibile, ostentavo la mia buona volontà e la mia buona fede, fingevo di languire e soffrire, ero proprio un attore professionista. Meritavo un premio di recitazione. Dovevo lanciarmi nel teatro amatoriale, era la mia via. E quell’ingenua si lasciava ammaliare, nonostante tutti i suoi diplomi e la sua fama. Anche lei in preda agli ormoncini maschili, come una qualsiasi sprovveduta.
Io le ribattevo che quella che mostravo durante le sedute era la mia vera natura. Nelle studio dalla terapeuta veniva fuori la mia anima profonda, che lei a causa del risentimento accumulato nel corso della nostra lunga convivenza non sapeva più vedere. Lei rideva sforzatamente come quando si vuol far capire che l’altro l’ha sparata davvero troppo grossa. Se solo un decimo delle cose che mettevo lì il mercoledì pomeriggio fossero state vere sarebbe già andata bene, mi diceva.
La verità era che la terapeuta era dalla mia parte, anche se cercava di nasconderlo meglio che poteva, argomentava. Si sbagliava di grosso, tifava per lei, e lo dimostrava ogni volta, ribattevo io. Non le avrebbe permesso di dire che vivere con me era peggio di languire in prigione e che un paio di volte avevo cercato di ammazzarla, se non fosse stata più dalla sua che dalla mia. Se fosse stata veramente dalla sua ogni parola che dicevo me l’avrebbe fatta rimangiare, mi interrompeva lei. Insomma, la discussione degenerava, e i rumeni di sopra battevano per terra con la scopa.
Un mercoledì la terapeuta ci chiese con che frequenza avevamo dei rapporti sessuali. MAI!, rispose mia moglie. Preso alla sprovvista io facevo dei mulinelli con la mano, come per dire effettivamente non tanto spesso, ma si trattava di una contingenza passeggera. ASSOLUTAMENTE MAI!, ripeteva mia moglie. Quante volte alla settimana?, domandava la terapeuta, con il suo sorriso incoraggiante, ma anche con fermezza. Io continuavo i miei patetici mulinelli, con la testa piegata su un lato. ZERO!, diceva mia moglie, guardandomi come si guardano i criminali. Dando al suo sorriso incoraggiante una nota di sognante maliziosità la terapeuta ci disse allora che il sesso è molto importante, e fa molto bene ai rapporti di coppia. Non c’è niente meglio dell’intimità sessuale per intendersi, ci spiegò, fissandoci alternativamente e terapeuticamente negli occhi.
I disegnetti a due euro al minuto in qualche modo però funzionavano, questo bisognava ammetterlo. Mentre disegnavamo nello studio della terapeuta c’era un’atmosfera calma e rilassata, un’atmosfera che a casa nostra ce la sognavamo. Non c’era pericolo che volassero frasi sferzanti, i battibecchi erano rigorosamente banditi. Sia io che mia moglie eravamo a nostro agio, e non rimacinavamo le solite miserie. Eravamo tutti presi dalle nostre rispettive opere, e curiosi di sapere cosa diavolo avrebbe tirato fuori la terapeuta, come diavolo sarebbe riuscita questa volta a prenderci in contropiede. Certo, ogni minuto che passavano erano due euro di meno nel nostro portafoglio, ma in fondo non erano poi un dramma, due euro, mi dicevo. Un sacco di cose costavano di più, e non facevano così bene. Perché quando uscivamo da lì eravamo un po’ più in pace con noi stessi e con il mondo, era innegabile. Durava poco, il tempo di un caffé, ma era pur sempre qualcosa.
Avevamo preso l’abitudine, una volta usciti dalla seduta, di andare a bere un caffé assieme. La prima volta era successo quasi per caso, poi era diventata una consuetudine. Seduti a uno dei tavolinetti tondi del locale all’angolo guardavamo gli altri avventori, guardavamo le persone che transitavano sul marciapiede, guardavamo il cielo. Stavamo zitti, ma non litigavamo. Era evidente che a entrambi piaceva essere in quel caffé tanto diverso da quelli del nostro quartiere, con quelle persone tutte di razza bianca, tutte profumate e eleganti, con quei camerieri che ti trattavano come un signore, con quel caffé che era indubitabilmente più buono, e servito in una tazzina più bella. Costava il doppio, ma dopo esserci appena alleggeriti di centoventi euro per quattro disegnetti non era certo il caso di mettersi a fare i pidocchi.
Ognuno si avviava poi verso casa per conto proprio. Se uno metteva lì che avrebbe preso la metropolitana l’altro ribatteva che preferiva camminare un po’, se uno diceva che si avviava a piedi l’altro esprimeva il desiderio di prendere la metropolitana, perché aveva un po’ freddo. Lo stato di grazia non avrebbe retto alla sovraffollata scontentezza dei quartieri meno favoriti, o anche solo alle scalinate uggiose della metropolitana, ne eravamo entrambi ben coscienti. Ci ritrovavamo a casa, e riprendevamo a accapigliarci. Fino ai disegnetti del mercoledì successivo. I disegnetti rappresentavano pur sempre una tregua, se non una riconciliazione.
Io non avevo più vergogna dei miei scarabocchi sgraziatamente infantili. Ne ero anzi quasi un po’ fiero: mi sembrava di aver fatto dei progressi. E soprattutto sapevo che la terapeuta ci avrebbe trovato qualcosa di positivo, anche se certo avrebbe visto anche degli aspetti criticabili, che a fare bene avrei dovuto mettermi un po’ alla volta nell’ordine d’idee di correggere. E in fondo mi piaceva essere lì con mia moglie. Mi ricordava i primissimi tempi in cui stavamo assieme, dieci anni prima del nostro tardivo matrimonio. Quando nelle brevi pause del furioso e catartico sesso giocavamo a chi rideva prima o ci leggevamo a vicenda dei racconti fantastici tedeschi.
La terapeuta insisteva pur sempre con i tentativi di conversazione. Forse proprio per le difficoltà incontrate in precedenza le regole adesso erano cambiate. Prima di cominciare a dire la sua ognuno doveva riformulare con le proprie parole quello che aveva detto l’altro, in un modo che andasse bene anche a quest’ultimo. Solo dopo aver ripetuto il messaggio dell’altro senza deformare il suo pensiero e senza contrariarlo, si poteva finalmente rispondergli. L’altro traduceva a sua volta questa risposta nelle sue parole, e così via. Un sistema infallibile, in linea teorica.
Anche con questo nuovo metodo saltavano in realtà fuori fin dalle prime battute un sacco di inghippi. Se per esempio dicevo a mia moglie che mi sarebbe piaciuto che avesse più fiducia in me, la sua traduzione era che pretendevo di avere una schiava a mia completa disposizione. E se dicevo che secondo me doveva fare più attenzione a quello che le dicevo, badando a non fraintendermi, lei traduceva che le avevo dato della stronza fatta e finita. In altre parole la disprezzavo, l’avevo sempre disprezzata, lei e la sua famiglia di ascendenza contadina.
Con un ennesimo sorriso incoraggiante la terapeuta la invitava allora a riprovare a riformulare il mio pensiero. Lei diceva più o meno le stesse cose, ma con ancora più veemenza, e prendendosela anche con la terapeuta. La accusava di non voler vedere la verità in faccia, perché era dalla mia, era sempre stata dalla mia. La terapeuta sollevava il suo indice ammonitore, con il risultato che ci si può immaginare. Io gongolavo di fronte alla prova lampante dell’incomprensione di mia moglie, e vedendomi gongolare lei diventava ancora più furiosa. Mi fa paura!, esclamava la terapeuta, sporgendo il busto all’indietro, senza più sorridere.
Inutile dire che quando però toccava a me tradurre le sue parole, mia moglie mi rovesciava addosso una secchiata di critiche e di improperi. A sentire lei aveva detto l’esatto contrario. E il colmo è che la terapeuta invece di prendere le mie difese sosteneva che avevo effettivamente travisato le sue frasi, e quindi dovevo provare a tradurlo di nuovo, questa volta rilasciando la mandibola. Questa non è una terapeuta, è una banderuola, mi dicevo io dentro di me, molto deluso dall’improvviso e inaspettato voltafaccia. Vatti a fidare delle terapeute di coppia, mi dicevo, osservando i cenni di intesa femminile che scambiava con mia moglie.
Eravamo davvero tanto diversi l’uno dall’altra, finiva ogni tanto per riconstatare la terapeuta, dondolando tennisticamente lo sguardo tra me e mia moglie. Davvero diversi, ripeteva con il suo intramontabile sorriso incoraggiante. Sulla sua fronte faceva però capolino una stanchezza che veniva da molto lontano, dalle steppe ventose del suo paese di origine. Noi ci guardavamo a nostra volta, e nei nostri occhi leggevamo lo stupore di constatarci effettivamente così diversi come diceva la terapeuta. Quasi uno spavento. Per tanti anni non ce n’eravamo accorti. Come dire, ci era sembrato normale.
Tra una seduta e la successiva avremmo dovuto fare i compiti. I compiti a casa consistevano nel sedersi pacificamente uno vicino all’altro, preferibilmente di faccia, con un cuscino pacificamente nel mezzo. Un normale cuscino, né troppo grande né troppo piccolo, di qualsiasi colore. Chi prendeva serenamente la parola doveva tenere sollevato il cuscino a mezz’aria, a mo’ di re magio, e quando aveva finito di parlare lo doveva porgere all’altro come se fosse un prezioso regalo. L’altro doveva accettare quel prezioso regalo, e con le sue parole e passando a sua volta il cuscino fare a sua volta un altro prezioso regalo. E via così, di prezioso regalo in prezioso regalo, in una crescente armonia reciproca. L’idea non era male, e nemmeno la prova eseguita nello studio confortevole della terapeuta era venuta malissimo. Un metodo come un altro per parlare senza saltarsi subito addosso.
A casa però non tirava proprio aria per mettersi a fare l’esercizio del cuscino. Ce lo saremmo tirati addosso il cuscino, se avessimo provato, c’era da scommetterci. Ci saremmo ammazzati a cuscinate. Personalmente mi sarei sentito ridicolo anche solo a proporla, una cosa del genere. Sarebbe stato come invitare qualcuno a giocare pacificamente a scacchi mentre dei cecchini sparano dai palazzi circostanti. Se non proporlo al cecchino stesso, fingendo di non vedere che è armato fino ai denti, e che ha già il dito sul grilletto. Niente compiti a casa, insomma.
Rivivevo quindi quella che tanti anni di esperienza mi avevano fatto identificare come l’essenza più profonda dell’educazione scolastica: l’angoscia per non aver fatto i compiti, le fitte all’intestino ad essa connesse. A quarantacinque anni suonati mi ritrovavo a avere paura che me le cantassero come avevano effettivamente fatto schiere di maestri e professori. Di mia spontanea volontà, e per sentirmi dire che quello che fa bene alle coppie è il sesso.
La terapeuta però non ci chiedeva mai se avevamo effettivamente fatto i compiti. Sembrava essersi dimenticata di aver insistito moltissimo, di averci ammonito che il solo modo per migliorare era quello. Probabilmente lo leggeva sulle nostre facce, che non potevamo aver fatto nulla. O semplicemente era una maestra buona, che si fidava dei suoi allievi. Se non addirittura, considerando le cose a posteriori, una fata che ci aveva mandato il destino.
Disegnare ci piaceva sempre di più. Sapevamo entrambi che dal disegnetto che stavano facendo avremmo imparato qualcosina su noi stessi, si saremmo chiariti un po’ le idee. E nello stesso tempo ci stuzzicava essere assieme, assieme senza bisticciare. Senza darlo a vedere io guardavo cosa diavolo avesse disegnato lei, e non potevo non ammirare il risultato sempre valido anche sul piano estetico. Ma anche lei non si mostrava schifata davanti ai miei disegnetti idioti. Sembrava anzi considerarli normali, sembrava cercare di capire che cavolo avessi voluto dire.
All’uscita di ogni seduta ci dirigevano verso il caffè affacciato sulla piazza lussuosa. Ci sedevamo a un tavolino e ci concedevamo il nostro quarto d’ora di rilassamento turistico in quel quartiere dove le persone non avevano dipinto sulla faccia le loro angustie e i loro problemi economici. Dove sui marciapiedi non stazionava nessuno sputo e nessuna merda di cane, nessuna cartaccia bisunta. Dove i signori portavano l’indistinguibile marchio delle loro importanti e gratificanti occupazioni. Dove le donne erano slanciate e incedevano vittoriose, lasciando dietro di loro una scia di costoso profumo. Dove i bambini erano dei meravigliosi e inavvicinabili lordicini. Dove perfino il giornalaio aveva l’aspetto di un coltissimo professore di egittologia. Era un gran riposo, dopo una settimana nel fango di una trincea.
I disegnetti andavano bene, erano gli esercizi di conversazione che lasciavano molto a desiderare. Ogni nuovo esperimento si trasformava in una colluttazione verbale. Sempre più spesso la terapeuta pareva un po’ suonata, come un pugile che s’è beccato una scarica di colpi sulle tempie, dopo i nostri scambi più violenti. Raddrizzava il busto, si riempiva per bene i polmoni di aria. Il sorriso incoraggiante era sempre lì, intendiamoci, ma gli occhi a mandorla erano quello di chi non sa più che pesci prendere. Alla fine di ogni seduta ribadiva che nonostante tutto c’erano molti piccoli miglioramenti, che un po’ alla volta si sarebbero trasformati in progressi inarrestabili, ma secondo me i suoi incoraggiamenti erano un inflazionato stratagemma del mestiere. Come le infermiere sono abituate a ripetere ai malati terminali che un po’ alla volta si riprenderanno, che è solo questione di tempo.
A sentire lei il trucco per non bisticciare era badare a non esprimere dei giudizi sull’altro quando gli si diceva qualcosa. Se l’altro non si sentiva giudicato non si indisponeva, e tutto andava bene. Noi pensavamo entrambi che fosse un’ottima trovata: ci sembrava la logica conseguenza, adesso che avevamo scoperto di essere tanto diversi.
Solo che dopo quindici anni di vita in comune avevamo entrambi un odorato più sensibile di quello di un cane da tartufo, quando si trattava di scovare dei giudizi nelle frasi dell’altro. Individuavamo il più piccolo sentore di giudizio anche a un chilometro di distanza, anche quando era sepolto sotto spesse ramaglie fintamente innocenti, sotto mezzo metro di terriccio verbale. Avevamo un bel cercare di bandire dalle nostre parole i giudizi, i giudizi erano sempre lì. Come quelle infezioni che non si riescono a debellare nemmeno con gli antibiotici più potenti, che ormai sono diventate resistenti a qualsiasi attacco.
Per certi aspetti però aveva ragione la terapeuta, era innegabile. Dai e dai mia moglie mi interrompeva di meno durante gli esercizi di conversazione, non mi insultava più. Si vedeva che non era d’accordo e che dentro di lei ribolliva, ma considerava normale lasciarmi parlare. Era una rivoluzione copernicana. E io avevo fatto dei progressi da gigante nei cinque minuti di riassunto finale. Dicevo per esempio nel corso di quella seduta avevo imparato la data cosa o mi ero reso conto della tal altra. O addirittura che da quel momento in poi non avrei più fatto gli errori di prima. La terapeuta mi guardava come si guarda un frugolino un po’ difficile che ci dà finalmente le soddisfazioni che ci meritiamo, e il suo sorriso era ancora più incoraggiante del solito. Mia moglie invece mi fissava come si fissa uno che tira fuori una farina che non è del suo sacco. Io la guardavo a mia volta negli occhi, come a dire che quelle erano le mie impressioni, e nessuno poteva togliermele.
Le settimane passavano, e noi disegnavamo con sempre più concentrata applicazione, con ispirato fervore. Avevamo ormai fatto grandi passi anche nell’arte dell’interpretazione. Eravamo noi stessi in grado di elucubrare e di argomentare, senza aspettare le imbeccate della terapeuta. Sempre più spesso il nostro occhio ormai esperto riconosceva il senso del tratto che la nostra mano stava in quel momento stesso fissando sulla carta, come una persona che già alla prima parola afferra il senso di una frase. Quando però la terapeuta ci diceva che non si sarebbe aspettata un’evoluzione così rapida e così spettacolare, ci guardavamo, per una volta solidali nel nostro scetticismo.
Il fatto di andare al caffé dopo la seduta era diventato un rito irrinunciabile. Non ce lo domandavamo nemmeno più, puntavamo senza esitazione alcuna verso il locale all’angolo con la piazza pretenziosa. E anche la maniera di stare seduti allo stesso tavolino non era più la stessa. Non guardavamo più ciascuno da una parte diversa, le nostre spalle non formavano più quell’impercettibile angolo ottuso che tradisce l’insofferenza. Sempre più spesso ci capitava di fissare l’attenzione sulla stessa persona, ben coscienti che era così. E quando ci scappava un commento, questo non provocava l’ironia dell’altro, come ci si sarebbe potuti aspettare, ma la sua approvazione. Constatavamo che le nostre opinioni su quegli avventori e su quel quartiere tanto diverso dal nostro, tanto spocchioso, non erano poi così diverse, per quanto fossimo diversissimi uno dall’altro. Non si poteva certo chiamarla una conversazione, ma era pur sempre un promettente abbozzo.
Nonostante gli oggettivi miglioramenti mia moglie restava sempre molto scettica nei miei confronti, molto sospettosa. E i compiti a casa rimanevano il solito motivo di discordia. Per me era colpa sua se non li facevamo, mentre per lei il solo e unico responsabile ero io. Avevo però trovato un trucco che la faceva smettere di essere polemica. “Bene-bene” le dicevo, imitando la voce della terapeuta, quando lei faticava a trovare le parole per dire qualcosa. Lei scoppiava a ridere, e si dimenticava di essere polemica. “Bene-bene”, la incoraggiavo io, scimmiottando l’espressione benevolente della terapeuta, lottando per non ridere anch’io.
Continuavamo indefessamente a disegnare. La magia di quel momento dipendeva dal fatto che eravamo lì assieme, ne eravamo entrambi sempre più coscienti. Io mi dicevo che avremmo forse potuto provare a farli anche a casa, i disegnetti. L’età anagrafica non vuole dire niente, quel che conta è restare giovani nello spirito, mi dicevo. Cinquant’anni al giorno d’oggi non sono nulla, mi dicevo.
La terapeuta ci ripeteva sempre più spesso che avevamo fatto degli enormi passi in avanti, che eravamo irriconoscibili rispetto a quando ci eravamo presentati tre mesi prima. In fondo non è una cosa necessariamente negativa, essere così diversi in una coppia, ci diceva, con il suo sorriso incoraggiante. Avevamo entrambi molta fantasia, forse quello che ci accumunava era quello. Noi evitavamo di guardarci, perché se ci guardavamo pensavamo alle imitazioni, e ci veniva da ridere.
Secondo mia moglie restavo però sempre il solito egoista, il solito paranoico. Ero anzi diventato ancora più pigro, pensavo ancora di più a fare i miei porci comodi. Non mi era servita la terapia: avevo solo imparato a dire le bugie. Ero solo diventato più scaltro. Rideva però sempre moltissimo quando scendendo le signorili scale imitavo la terapeuta. Rideva mettendosi la mano sulla bocca e strabuzzando gli occhi. “Bene-bene”, insistevo io, contraffacendo la voce e il sorriso di benevolenza della terapeuta. Schh!, schh!, mi diceva lei, indicando con l’indice il piano della terapeuta. Schh!, schh!, ripeteva, come però un bambino che ha voglia di ridere ancora di più. Se infatti continuavo a fare il pagliaccio era colta da incontrollati movimenti sussultori e si aggrappava al passamano dell’elegante ringhiera. Io allora sollevavo l’indice, e proiettando il busto all’indietro le dicevo che mi faceva paura. Riuscivamo appena a aprire il portone che dava sulla strada, da quanto ridevamo. Una volta fuori sghignazzavamo fino a piegarci in due, fino a avere le lacrime agli occhi. Cinquant’anni da una parte, quarantacinque dall’altra, per un totale di novantacinque anni, quasi novantasette, e ridevamo come dei bambini. Centoventi euro per fare dei disegnetti, imparare i benefici del sesso, e ridere come bambini.
Entravamo nel caffé di buon umore, e ordinavamo quello di cui avevamo voglia con la voce chiara e sonante. Niente a che vedere con le entrate sottomesse e colpevoli delle prime volte. Non ci intimoriva più quel locale così diverso da quelli del nostro quartiere, così raffinato. Ci sembrava che se c’era qualcuno che doveva vergognarsi erano gli altri avventori, con la loro supponenza metropolitana, e con quelle loro facce barricate in una tetra vanità, non noi. Sempre più spesso parlavamo del più e del meno senza nemmeno accorgerci che il tempo passava. Il tono di una coppia normale, che non deve pagare ogni settimana centoventi euro per un’ora di disegnetti. Una coppia che ha dei normali rapporti sessuali.
“Bene-bene” replicavo io a qualche sua frase più stentata, imitando la voce della terapeuta. Presa alla sprovvista lei rideva. Rideva come ridono le donne con gli uomini che le corteggiano. Rideva come quando ci conoscevamo appena e io per impressionarla facevo lo spiritosone. E se le prendevo la mano non mi guardava con quell’odiosa espressione: e questo cosa vuole? Tornavamo a casa assieme, prima passeggiando sui viali trafficati e poi con la metropolitana.
Un pomeriggio riuscimmo finalmente a fare il gioco del cuscino. Non venne tanto bene, perché io tendevo a essere un po’ troppo cerimonioso, e lei a venire un po’ troppo al dunque, però a nessuno dei due passò per la testa di tirare il cuscino in faccia all’altro. Ci mettemmo anzi a parlare.
Il mercoledì seguente la terapeuta ci accolse però con delle laconiche raggiere di rughette attorno agli occhi. Ci accomodammo in silenzio, sentendo che era successo qualcosa di gravissimo. Ci fissava con le labbra strette e gli occhi molto infossati: si sarebbe detto che le fosse morto il gatto. Noi ci guardavamo, la guardavamo. Dov’era finito il suo sorriso di benevolenza? Siete in ritardo di un’ora, sbottò, come si potrebbe fare con dei bambini irresponsabili. A me sembrava proprio che fosse l’ora giusta, anche se effettivamente qualche volta mi confondo, quindi non potevo essere sicuro al cento per cento. Ma anche mia moglie era certa che fossimo arrivati all’ora fissata, e lei non si sbaglia mai. Intervenendo a turno le dicemmo quindi che era lei che aveva preso un abbaglio. Questa volta eravamo noi che avevamo il sorriso di benevolenza. Ci vollero due o tre minuti per smuoverla dall’idea che fossimo necessariamente noi nel torto. Ma si vedeva che non era ancora completamente convinta.
Scendendo le scale con l’odore di cera e di rispettabilità mia moglie faceva la faccia da terapeuta imbronciata, e io l’ammonivo sollevando un indice minaccioso. Lei allora mi mordeva il dito. Ci trascinammo nel solito caffé come due ubriachi ondeggianti, con gli occhi appannati dalle lacrime. Bene-bene!, mi diceva lei con la voce incoraggiante, appena dicevo qualcosa. Due giorni dopo, al termine di un accoppiamento particolarmente riuscito, decidemmo che con i disegnetti poteva bastare.
mi è molto piaciuto.
La parabola terapeutica, pur trattandosi di un racconto lieve lieve, è ben concepita. Anche se qua e là emergono, credo, alcune ingenuità. Non c’era bisogno, ad esempio, di sottolineare che:
“Questa non è una terapeuta, è una banderuola, mi dicevo io dentro di me, molto deluso dall’improvviso e inaspettato voltafaccia”.
Agire, non descrivere.
Mi pareva strano che anche stavolta Sartori non attirasse almeno un maestrino…
E a me mi pareva strano che anche stavolta non ci fosse il pronto soccorso.
Con tutto il rispetto – sincero, io non lo conoscevo – che merita Sartori.
Saluti
Carlo Capone
Grazie per il piacere della lettura.
Ritrovo i protagonisti che mi diventano simpatici.
Ho molto apprezzato la situazione: in fine la coppia trova una complicità contro la terapeuta.
Una terapeuta che è assomigliata a una professoressa: ben visto.
Ho pensato anche all’idea del “transfert” : il terapeuta incarna in realtà altra persona della vita del paziente.
Per infortuna non vediamo gli altri che dietro l’illusione del passato.
Siamo sempre a fare il conto del passato. Ma non voglio approfondire: ho abbandonato l’analisi per questa ragione: analisare tutto diventa una stanchezza e preferisco sbagliarmi.
In un romanzo è diverso, perché solo la verità della creazione vale.
E la “nevrosi” è un magnifico terreno per creare.