Tryptique récitatif: Giuseppe Schillaci, Paolo Grassi, Linda Calvino
I tre racconti che seguono sono stati letti dagli autori in occasione del primo incontro della serie 8×8, ideato da Leonardo Luccone e che si svolge presso il Caffè Fandango, piazza di Pietra 32, Roma, a partire dalle ore 21. Le date previste e le case editrici madrine sono state e saranno: martedì 21 aprile (minimum fax); martedì 5 maggio (Playground); martedì 25 maggio (Fanucci); martedì 9 giugno (Nutrimenti); martedì 16 giugno (Fandango). effeffe
Baglio della Magnolia
di
Giuseppe Schillaci
Fuori l’aria era ferma. La luce del tramonto iniziava a scivolare sulle creature dell’Orto Botanico, quando Saverio uscì dal laboratorio e prese a vagare per i sentieri odorosi. E come ogni sera, prima di tornare a casa, Saverio provò a svuotare la mente: si fermava, respirava forte e immaginava di essere albero, solitario e solido, legno tra i legni.
Assedio
di
Paolo Barrella
Ha cominciato a tagliare l’erba alle otto, otto e un quarto. Sentivo il rombo del tagliaerba a motore, direttamente in testa come un martello. Mi sono alzato alle otto e venticinque ed ero già stanco morto.
Ogni volta che prendo un nuovo lavoro, non riesco a dormire. (continua)
L’ora è fuggita
di
Linda Calvino
Avevo quattro anni quando mio padre morì.
Me lo ricordo bene, perché ero certa che fosse successo per colpa mia. Eravamo in quella che i grandi chiamavano “la stanza dei giochi”. La casa era immensa: potevamo permetterci un’ala al piano superiore riservata alla zona notte, e un’altra al piano inferiore con un salone che sembrava una piazza d’armi, una cucina che pareva un refettorio, un bagno che ricordava il boudoir di Maria Antonietta di Francia, e la stanza dei giochi, appunto. (à suivre)
Baglio della Magnolia
di
Giuseppe Schillaci
Fuori l’aria era ferma. La luce del tramonto iniziava a scivolare sulle creature dell’Orto Botanico, quando Saverio uscì dal laboratorio e prese a vagare per i sentieri odorosi. E come ogni sera, prima di tornare a casa, Saverio provò a svuotare la mente: si fermava, respirava forte e immaginava di essere albero, solitario e solido, legno tra i legni.
Quella sera, si trattenne più del solito. Vagolava tra i giardini e non trovava il suo posto tra le piante. Davanti alle immense colonne del Ficus Strangolatore, detto volgarmente Magnolia, ammirò l’esplosione di liane che tutto avvolgevano e ingoiavano, incrociando rami e radici.
Poi s’accorse d’un tronco che risaliva dal sottosuolo come cresta di drago e che pareva sfidarlo. Subito fu assalito dalle angosce, dalle nostalgie del tempo. E l’esercizio di vegetalizzazione, come lo chiamava lui, fallì definitivamente.
Allora provò ad alzare le difese e tornò a pensare al lavoro, alla cura delle sue creature, e riprese a camminare tra gli arbusti con occhi da botanico: l’albero bottiglia riprendeva il suo vigore, l’ibiscus cominciava a fiorire, la palma Washington era ormai divorata dal punteruolo rosso.
Saverio accelerò il passo. Costeggiò la fontana delle ninfee e s’infilò dentro la guardiola dove il portiere spiluccava un infinito cruciverba.
“Che mangia stasera?”, gli chiese Damiano senza staccare gli occhi dal foglio.
“Mi faccio il ragù”, rispose lui.
“Buon appetito Dotto’.”
Saverio uscì dall’Orto Botanico e venne aggredito dal rumore della città. Appena fu su via Lincoln, il suo pensiero si fissò sul punteruolo rosso, l’insetto assassino delle palme. Le larve penetravano sotto le fronde e ne succhiavano la linfa fino a svuotarle, la chioma si contorceva e poi crollava di colpo. Sul terreno restava il tronco senza testa come il cadavere di un condannato a morte. Saverio sentiva tutta la propria impotenza davanti a quelle carcasse dritte come pali della luce. Il rischio era la pandemia, l’estinzione dei palmizi dall’intero Mediter¬raneo: per Saverio si trattava di una tragedia collettiva e di una sconfitta personale.
Per lui alberi e piante erano identità e memoria di un luogo. L’uomo, con la sua boria di stemmi e palazzi, era soltanto un accidente.
Saverio camminava con lo sguardo sospeso e non si accorse delle smorfie languide delle puttane che popolavano via Lincoln. Forse era la vicinanza del mare a favorire la riproduzione del punteruolo rosso, l’aria di iodio e salsedine.
A un tratto, dall’altra parte del marciapiede, giunse acuto un fischio e poi un sibilo come il risucchio di un lungo bacio serrato tra le labbra.
Saverio lasciò il parassita e l’ipotesi dell’aria di mare e puntò gli occhi verso il motorino che cigolava sull’altra carreggiata.
In sella c’erano due malacarne, uno col cappellino dorato e uno rasato, che fischiavano a una donna.
La donna si stringeva in uno scialle nero e zampettava veloce tra i cofani delle automobili. I due malacarne, evidentemente, non cercavano compagnia a pagamento, e la donna comunque non sembrava offrire quel servizio.
Saverio cambiò passo, fu subito dall’altra parte della strada e s’infilò a testa bassa tra il motorino e la donna.
“E tu chi minchia sei?”, fece il malacarne con gli occhi famelici.
“Che c’è!?”, gridò Saverio facendosi coraggio.
“Cornuto e sbirro!”, rispose uno accelerando, mentre l’altro lo centrava con uno sputo.
Saverio si pulì il viso con la manica della giacca e proseguì verso la donna con lo scialle nero, tentando di intercettare il suo sguardo. La donna seguitava a camminare sul marciapiede, mentre di fronte una puttana saliva su una Panda rossa.
“Che volevano?”, chiese a un certo punto Saverio.
“Niente, non li conosco”, rispose la donna, rallentando fino a fermarsi e lasciando che lo scialle scoprisse il viso ambrato.
“I soliti cani!”, sbottò lui.
“Grazie, sono arrivata”, fece la donna con un accento locale innestato su un ceppo straniero.
“Se ha bisogno, io lavoro qui di fronte”, disse Saverio.
“Arrivederci”, fece la donna accennando un sorriso e infilandosi in una stradina che lui non aveva mai visto prima: Baglio della Magnolia, c’era scritto sul tufo. Saverio fissò la sagoma mentre spariva nell’oscurità, poi si frugò in tasca e si accorse di aver dimenticato le pastiglie per il diabete.
Tornò trafelato all’Orto Botanico col pensiero agli occhi neri della donna.
Bussò al portone diverse volte prima che Damiano venisse ad aprire e poi, senza una vera ragione, gli disse di quella donna e di quei ragazzi sul motorino, omettendo il dettaglio dello sputo.
Damiano alzò gli occhi dal cruciverba e balbettò con impeto, quasi urlando: “Sono loro la vera disgrazia di questa terra, Dotto’”.
“I soliti parassiti, si sentono padroni già a tredici anni”, fece Saverio.
“Ma la signorina chiamò aiuto?”
“Aiuto o non aiuto, si vedeva che era in difficoltà…”
“Brutta è la zona.”
“Abitava qui di fronte, al Baglio della Magnolia”, continuò Saverio.
“Al Baglio della Magnolia? Impossibile,” fece Damiano chiudendo il cruciverba, “lì non ci abita più nessuno da sessanta anni. Io lo so, perché ci stava mia madre in quelle case, prima delle bombe”.
“Ma che dite Damiano?”
“A parlare con gli alberi si diventa pazzi di catena, Dotto’… perdete colpi.”
Saverio non gli diede retta, ingoiò la pastiglia e tornò subito fuori.
Una luna sottile non riusciva a schiarire il cielo. Saverio pensava alla donna con lo scialle, ai suoi occhi neri. Poi ancora a quei cani arroganti, ai punteruoli della sua terra. Senza interrompere il flusso dei pensieri e dei passi, s’inoltrò nel vicolo buio dove era sparita la donna.
In fondo formicolava il lumino di un altare per santi. La viuzza era ricoperta di rifiuti e girava subito a sinistra. I tufi diroccati non davano segni di vita e il cortile si chiuse dopo pochi passi in un cancello di ferro. Saverio avanzò nel buio, spingendo lo sguardo oltre le grate di ruggine.
Dentro c’era un rudere assaltato da rampicanti e rovi e, proprio nel mezzo, una sontuosa magnolia.
Saverio si stupì di non aver mai notato prima quell’esemplare meraviglioso di ficus strangolatore. Scrutò le linee sinuose dei tronchi, le acrobazie di rami e liane, la corteccia come pelle d’elefante. Provò a forzare il cancello, ma la base era fossilizzata al terreno.
Spiando tra le foglie, oltre il labirinto di rami, vide un’altra creatura. Dentro la magnolia. Avvinghiata dalle trecce del pachiderma, c’era il tronco rinsecchito di una palma decollata. I tentacoli della magnolia si stringevano sulle vertebre della palma come a proteggerla o a soffocarla. Saverio sentì una profonda pietà per quel albero senza testa, ma non osò condannare la potenza fatale della magnolia.
Poi si voltò a scrutare il vicolo, cercare tracce umane.
Gli parve di vedere la donna con lo scialle nero, o almeno i suoi occhi, neri, come quelli d’Agata, la donna con cui Saverio aveva spartito la sua vita e che poi l’aveva lasciato solo. Sentì braccia che lo avvolgevano, occhi che lo fissavano, mani amorevoli e crudeli.
“L’abbraccio tra due creature è sempre spasimo”, sussurrò Saverio venendo via dal baglio, e dagli occhi d’Agata. Le spire della magnolia non avrebbero allentato la morsa.
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Assedio
di
Paolo Barrella
Ha cominciato a tagliare l’erba alle otto, otto e un quarto. Sentivo il rombo del tagliaerba a motore, direttamente in testa come un martello. Mi sono alzato alle otto e venticinque ed ero già stanco morto.
Ogni volta che prendo un nuovo lavoro, non riesco a dormire. Mi sono addormentato verso le quattro, dopo essere stato sveglio per tre ore ed essermi alzato un paio di volte per la poppata del bambino. Non appena lo sentivo piangere, mi precipitavo a scaldare il biberon, mentre Livia si girava nel letto e implorava di lasciarla dormire. Chiaro: la mattina si alza presto per andare al lavoro, io no.
Ho messo su il caffè e ho acceso la prima sigaretta. Mentre aspetto, do un’occhiata al frigo e annoto mentalmente la spesa per il pomeriggio. Sul tavolo il solito biglietto di Livia con le commissioni da sbrigare. Tra le altre cose devo andare al supermercato, perché il frigo è mezzo vuoto – ma di questo me ne sono accorto già io, e poi la portafinestra del soggiorno: ricordo che viene Mario per aggiustarla? Appallottolo il foglio e lo lancio nella pattumiera.
Il ronzio del tagliaerba s’è fatto sempre più nitido e vicino, minacciosamente vicino. Prendo il caffè e spalanco le finestre. In fondo al viale noto la Cromo grigio metallizzata di Mario. Dopo poco lo vedo apparire dietro la siepe, al seguito del suo tosaerba maledetto. Credo che abbia guardato da questa parte, io mi tiro subito indietro. Chissà se mi ha visto.
Mi chiudo nella mia stanza e accendo il computer. I tempi di consegna della traduzione sono strettissimi. Il primo lavoro decente, dopo tanto tempo. Si tratta di un sistema di videosorveglianza di una ditta tedesca che il comune vuole installare in ogni quartiere per la sicurezza dei cittadini. Credo che tutto questo si chiami politica del territorio o controllo del territorio, che poi è lo stesso. Dalla casa accanto sento le voci. Del bambino e della nonna, la madre di Livia. Lei gli canta una canzoncina per tenerlo buono. Non riesco a rendere bene una particolare espressione idiomatica che in italiano dovrebbe suonare pressoché così: non c’è niente che spaventa di più la gente che sentirsi in pericolo come un topo in trappola. Più o meno così. Sento picchiettare fuori, dal lato del soggiorno. Non è troppo presto per essere Mario? I colpi si fanno più insistenti, poi una voce chiama: “C’è nessuno?”. Come se non sapesse che ci sono io. Mi alzo e gli apro.
“Disturbo?”
“No, per niente.”
Mario fa cenno alla portafinestra girando in un vortice l’indice della mano: “Sai tutto?”.
“Sì, Livia mi ha informato, ma pensavo che dovessi prima finire in giardino.”
“Già fatto!”, dice. “La mattina vengo presto, alle sette e mezzo già sono qua. Non mi hai sentito?”
“No.”
“No?”, mi guarda perplesso.
“Vuoi un caffè? L’ho appena fatto.”
“Non prendo caffè. Il dottore mi ha vietato di prendere caffè.”
“Un succo di frutta, allora.”
“Sì, un succo, grazie.”
Svuoto il bricco, un bicchiere per lui, uno per me. Mario beve qualche sorso, poi si guarda in giro: “Prendo la scala”. Dice così e fa per dirigersi verso lo sgabuzzino delle scope.
“Ci vado io.” Mi precipito a prendere la scala perché non mi va che si senta libero di girare per casa.
Al mio ritorno, lo trovo già al lavoro. Fa girare sui cardini le imposte di legno della portafinestra. Poi osserva con cura il saliscendi fissato a uno dei battenti. I suoi movimenti sono abili e precisi, fa tutto con estrema calma, come se avesse tutto il giorno a disposizione. Infine sentenzia: “Bah! Adesso provo, così capisco il problema”. Chiude gli infissi interni di alluminio, alza le zanzariere e accosta le imposte esterne di legno. “Ecco, vedi? La maniglia del saliscendi tocca gli infissi e non riesce ad agganciarsi sotto.” Guarda su in alto. “Voglio però vedere se aggancia sopra. Mi reggi la scala? No, sopra sta bene. Allora è solo il gancio di sotto.”
Scende e finisce il succo. Mi costringe a stare qui impalato, anche se non so fare un cazzo. Intanto sono già passate le dieci. Comincia a battere il gancio con un martello, e intanto chiacchiera. “Stamattina ho visto Livia. Correva come una matta, a stento mi ha salutato. L’ho vista strana. Mica avete litigato?”
“No, non abbiamo litigato.”
“Ah, no? Perché l’ho vista strana, allora ho pensato: vuoi vedere che hanno litigato?”
“Non è così.”
“Già, non è così.” S’interrompe per un attimo e mi fissa. Poi prosegue a battere: “Fa una vita troppo sbattuta, il bambino, la casa, il lavoro… A proposito, a te come va? Sei riuscito a ingranare?”.
“Cioè?” Comincia ad innervosirmi, lui vuole chiacchierare, io non ho niente da dirgli, voglio solo ritornare al mio lavoro.
Come se avesse letto nei miei pensieri, si affretta a dire: “Forse eri impegnato. Ti sto facendo perdere tempo”. Ma poi subito aggiunge: “Mi passi la tenaglia?”. Gliela passo e lui continua: “No, intendevo questo nuovo lavoro che hai preso. Ti va bene?”.
“Insomma”, mi schermisco. “Non c’è male.”
“Eh, lo so, questi sono lavori da due soldi, tanto tempo per buttare giù una pagina e poi ti pagano poco e niente. Secondo me, dovresti cercare altro. Prendi mio figlio: ha cominciato come operaio in una ditta e ora si è messo in proprio, padrone in casa sua.”
Ma chi è, mio padre? Come si permette di parlarmi in questo modo? E poi chi lo conosce suo figlio? Ne parla sempre lui, mai visto. Annuisco con condiscendenza, ma dentro mi monta la rabbia. Taccio del tutto. All’improvviso sentiamo piangere il bambino.
“Non è che si sente male?”, chiede Mario con tono preoccupato.
“Non… credo. È un po’ irrequieto perché sta mettendo i denti.” Cerco di tranquillizzarmi. In realtà ho il terrore che la nonna mi porti il bambino prima delle quattro.
Mario scuote la testa: “Per principio, io sono contrario a lasciare i bambini dai nonni. Ai miei figli ci ha sempre pensato mia moglie. Certo, io lavoravo e lei no, però era giusto così. Altri tempi. Ora è cambiato tutto”.
Per fortuna il bambino ha subito smesso di piangere, si sente che gioca di nuovo con la nonna.
“Toh, hai sentito? La nonna ci sa proprio fare”, continua lui. “Certo, se non ci fosse lei che ve lo tiene…”
Lo stoppo subito: “Ora se permetti vado di là a finire il mio lavoro”.
“Oh, scusami se ti ho fatto perdere tempo. Vai pure. Tanto, qui tra un po’ ho finito.”
Sarà! A me sembra ancora in alto mare.
Appena mi siedo, riprende a battere con il suo fottuto martello. Niente, non riesco a concentrarmi con quello di là che fa un fracasso del diavolo. Mi rialzo, esausto. È quasi mezzogiorno. Mi viene voglia di altro caffè. Di là non sento più niente, s’è placato. Lo trovo seduto sul divanetto di vimini che sfoglia la Guida Tv. Con sgomento, mi accorgo che ha smontato la portafinestra.
“Mi riposavo un po’”, dice come per giustificarsi. “Ho la schiena a pezzi. Che fai, prendi altro caffè?”
“Sì, mi va. C’era proprio bisogno di sfilarla via?”, chiedo indicando la portafinestra appoggiata alla parete.
“Come sarebbe a dire?”, dice lui, offeso. “Certo che ce n’era bisogno! Ti pare che potessi lavorarci senza smontarla tutta?”
“Pensavo che ci volesse meno tempo”, provo a rimediare.
Ma lui non gradisce e aggiunge in tono ironico: “Ma certo, adesso sono tutti bravi a dirti come vanno fatte le cose”.
“Scusa, non intendevo offenderti.”
“No, niente, niente”, fa lui. Si alza e si rimette al lavoro. Di tanto in tanto mi sbircia al di sopra degli occhiali che gli sono scivolati sulla punta del naso. Io lo guardo, lui mi guarda. Aggiusta con un dito gli occhiali sul naso, poi sbotta: “Che fate, vi separate?”.
Mi colpisce come una cinghiata in faccia, sono annientato, depongo le armi contro l’intruso. Scuoto la testa: “Non lo so, non lo so…”.
Mi interrompe con un’alzata di mano: “Quand’è così, va fatto. Fino a quando potete continuare così?”.
Annuisco trattenendo le lacrime, non ho più la forza di muovere un muscolo.
Mario si avvicina, rattristato. Mi abbandono sulle sue spalle, piango come un bambino.
Usciamo. Ci allunghiamo in silenzio fino al cancello. Dovrò rivedere tutto, da adesso in poi dovrò rivedere la mia vita da cima a fondo.
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L’ora è fuggita
di
Linda Calvino
Avevo quattro anni quando mio padre morì.
Me lo ricordo bene, perché ero certa che fosse successo per colpa mia. Eravamo in quella che i grandi chiamavano “la stanza dei giochi”. La casa era immensa: potevamo permetterci un’ala al piano superiore riservata alla zona notte, e un’altra al piano inferiore con un salone che sembrava una piazza d’armi, una cucina che pareva un refettorio, un bagno che ricordava il boudoir di Maria Antonietta di Francia, e la stanza dei giochi, appunto.
Eravamo nella stanza dei giochi. Mio padre e io. Soli.
Coloravo un album di figure, per terra, accoccolata sulle ginocchia, tra pastelli di cera e pennarelli Carioca. Animali che nascevano a nuova vita grazie alle tinte improbabili partorite dalla mia fantasia: elefanti blu, giraffe verdi e viola, leoni rosa acceso.
Lui doveva aver pensato che era un’occupazione troppo statica e noiosa per una bambina di quell’età, così si alzò dal divano su cui era sdraiato a leggere il giornale e mi si avvicinò con fare scherzoso, clownesco quasi.
“Allora, amore di papà?… Basta con questi colori, su! Corri, corri, che t’acchiappo!”
Prese a solleticarmi lungo le costole, cosa che detestavo al punto di concentrarmi su una reazione il più possibile violenta che avesse il potere di far cessare quella tortura. I grandi pensano che sia divertente, ma non funziona così con tutti.
Gli urlavo di smettere, ma i miei urli anziché impietosirlo lo eccitavano, e mi solleticava ancora, e ancora. Cominciai a scalciare, cercando di colpirlo più per fargli male che per liberarmi dalle sue dita insistenti e cattive. Credo anche di avergli piantato i denti in una mano, stringendo forte, più forte che potevo, convinta di essere il leone rosa del mio album di figure che non ero riuscita a completare.
Gli mollai un calcio in faccia. Mio padre si portò le mani alla bocca con un lamento, poi le tirò via insanguinate. Gli avevo spaccato un labbro. Approfittai della cosa per mettermi in piedi e schizzare verso la piazza d’armi del salone. Lui mi corse dietro.
“Dove vai, disgraziata? Vieni qua! Guarda che hai fatto a tuo padre!”
Correvo per come può correre una bambina di quattro anni. La distanza da coprire per arrivare al salone mi sembrò infinita, ma lì avrei potuto facilmente trovare scampo; mi sarei rifugiata sotto il tavolo, o forse nell’anfratto tra il muro e la credenza dell’Ottocento inglese, oppure dietro la poltrona da barbiere nell’angolo vicino al balcone.
Lui stava per raggiungermi. Non mi rendevo conto che il suo era un finto inseguimento, che avanzava a falcate lente per darmi l’illusione di essere un coniglio braccato da un lupo. Correvo, correvo tutt’intorno al salone, sbattendo contro le sedie e i tavolini pieni di cornici e ninnoli d’argento, incespicando sui tappeti, tirandomi su, piangendo. Avevo ferito mio padre, gli avevo spaccato un labbro. Quale punizione mi attendeva? Mi avrebbe picchiata con le sue mani enormi? Costretta a mangiare merluzzo? O avrebbe ripreso a solleticarmi fino a farmi morire?
Un rantolo.
Alle mie spalle.
Non capii subito, concentrata com’ero sulla ricerca della salvezza.
Poi forse l’istinto.
Mi girai.
Lui era in piedi. Barcollava, la bocca spalancata, la mano sul petto.
Succhiava l’aria e la risputava fuori come un mantice, le dita artigliate alla camicia.
Cadde in avanti, contro la spalliera della sedia infilata sotto il tavolo da pranzo. Ci rimase aggrappato con un braccio mentre precipitava per terra a faccia in su, trascinandosela dietro.
Boccheggiò e si contrasse per qualche secondo, come il pesce rosso che avevamo comprato insieme al luna park e che io avevo subito tirato fuori dall’acqua pensando che tutta quella umidità gli avrebbe fatto male.
Poi, più niente.
Solo due occhi sbarrati, un rivolo di sangue dal labbro, e silenzio.
Era la prima volta che moriva.
*
Mi piaceva leggere.
Nonna mi aveva insegnato a farlo che ero molto piccola.
Mi raccontava storie bellissime nascondendomi però alcuni dettagli, e mi spingeva a cercarli nei libri di cui casa sua era piena, anche in soffitta, dove li teneva stipati dentro imponenti bauli in mezzo a vecchie biciclette, cimeli di famiglia e agli sci con cui andava in montagna quando era ragazza. Mi perdevo tra pirati, piccole donne e piccole donne che crescevano, lampionai e figli del capitano Grant.
Un giorno scoprii Pinocchio e me ne innamorai. Imparai a leggerlo dando anche la giusta intonazione: di volta in volta ero il narratore, maestro Ciliegia, il Grillo parlante o la Fata dai capelli turchini. Mio padre aveva comprato un registratore a bobine, e io, novella Sarah Bernhardt, trascorrevo interi pomeriggi a incidere me stessa mentre interpretavo Le avventure di Pinocchio.
Eravamo in salone. Mio padre e io. Soli.
Lui leggeva il giornale sdraiato su un mastodontico divano bianco: occupava due pareti, ed era composto da più blocchi che si spostavano sul pavimento liscio ogni volta che ti ci stendevi, creando un vuoto improvviso e facendoti finire col sedere per terra.
Io stavo sul tappeto, il libro di Pinocchio spalancato sul grembo, tutta presa a dare il meglio di me nella registrazione di una delle sue avventure.
Declamavo con la bocca appiccicata a un microfono rettangolare, grigio chiaro, con una specie di griglia sul davanti e un ferretto sul retro che serviva a tenerlo in piedi se lo si poggiava su un piano. Ma non mi davo pace: ora mi dava fastidio tenerlo in mano, ora mi pareva troppo lontano dalla bocca, ora si chiudeva il ferretto di sostegno e il microfono cadeva.
I rimproveri di mio padre arrivavano puntuali a ogni decisione che prendevo sulla sorte di quell’aggeggio.
“Ferma… Spostalo dalla bocca, è troppo vicino… Attenta con quel ferretto… Piano, che lo rompi… Non tirare troppo il filo… Fa’ attenzione a dove lo poggi… Vuoi starmi a sentire, sì o no?”
Ma io avvertivo un piacere sottile a fare l’esatto opposto di quello che lui mi ordinava; ci provavo gusto, e questo lo faceva imbestialire.
Cominciò a strillare, appallottolò il giornale con rabbia e lo lanciò, mettendosi di scatto seduto sul divano e facendo spostare i blocchi su cui era disteso fino a poco prima, precipitando a terra di culo.
Scoppiai a sghignazzare, additandolo, e polverizzando in un istante tutto il suo carisma genitoriale.
Fu un attimo.
Di colpo divenne livido e prese ad ansimare. Si portò la mano al petto e gorgogliò.
Poi fece una specie di sibilo, e piano piano reclinò la testa.
Rimase lì, immobile, col culo per terra, stretto fra i due blocchi del divano bianco.
Lo fissai per un po’ senza muovere un muscolo, in silenzio.
Riafferrai il microfono, lo appiccicai alla bocca e ricominciai: “C’era una volta un pezzo di legno. Non era un legno di lusso, ma un semplice pezzo da catasta, di quelli che d’inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per accendere il fuoco e per riscaldare le stanze…”
Era la seconda volta che mio padre moriva, e non ne ero più tanto convinta.
*
Da allora, sarà morto una ventina di volte.
O forse di più, ma ho smesso di contarle da tempo.
E adesso che sono qui, in chiesa, avvolta dai fumi penetranti dell’incenso e dalle salmodie del prete con la stola viola al collo, fisso la bara e osservo la gente intorno.
Piangono.
Quando l’altra sera mio padre ha preso a rantolare e si è portato la mano al petto, nessuno ci ha badato. È caduto come una pera cotta davanti al lavello, in cucina; e lì è rimasto. Abbiamo cenato, rassettato, muovendoci anche con una certa difficoltà attorno al suo corpo ingombrante. L’indomani mattina stava ancora là.
Per tutta la vita ha finto di morire per spiare le reazioni di chi assisteva alla sua fine, e ora che è morto sul serio non può godersi lo spettacolo.
Piangono.
Solo io sono fredda e impassibile. So da un pezzo cosa si prova a perdere il padre. Le mie lacrime le ho già piante tutte e non ne ho più da regalargliene.
Fosse per me, lo butterei nudo nella terra nuda; lo getterei negli abissi, in pasto ai pesci.
Esco dalla chiesa e mi incammino verso il lungomare.
Soffia una brezza piacevole.
Mi rollo una canna.
E rido. Finalmente, rido.
Intervista a Leonardo Luccone
Forlani: Leonardo, cos’è 8×8? Un Suv?
Luccone: Macché. È un concorso letterario (l’unico senza quote di iscrizioni e senza premi, a parte qualche libro che il vincitore sarà costretto a portarsi a casa) che abbiamo organizzato noi di Oblique Studio con Fandango. A corredo ci sono una serie di case editrici (le madrine) che ci accompagneranno in quest’avventura. Precisamente: minimum fax, Fanucci, Playground e Nutrimenti. Volevamo fare una cosa divertente e autocanzonatoria, e soprattutto fare uno sberleffo agli insulti di una triste stagione dei premi. Mi piacerebbe che partecipasse il grande pubblico di lettori e scrittori di qualità e aspirazioni. Qualche notizia in più si trova su questo link.
Forlani: Sei sicuro che non si vince niente? Nemmeno ai giurati va qualcosa? Che so, una pizza e birra, un gratta e vinci, insomma un incentivo ci sarà.
Luccone: A te una pizza (salsiccia e friarielli, ndr) e una birra te la offro io di cuore. Questa manifestazione è a costo zero per tutti. Credo che l’unica cosa che un autore debba volere è essere letto. Qui noi chiediamo una cosa in più: che sia l’autore a leggere sé stesso. Mi rendo conto che i valori potrebbero alterarsi, ma fa parte del gioco. Voglio riprendere la grande tradizione romana delle letture ininterrotte davanti al pubblico. I bei tempi di Braci e Prato pagano.
Forlani: Ci spieghi allora in cosa consiste the game?
Luccone: Chiunque può mandare un racconto inedito che soddisfi queste due condizioni: deve essere lungo al massimo 8000 battute e deve poter essere letto in otto minuti. C’è una preselezione con un comitato formato da persone di Fandango e Oblique e quaranta fortunati potranno leggere i loro racconti. Cinque serate, otto racconti per sera. Al Caffè Fandango, in pieno centro di Roma.
Ogni serata sarà caratterizzata dalla presenza di una casa editrice madrina che entrerà a far parte della giuria insieme a persone di Fandango e di Oblique Studio. Oltre a questa giura, che per prenderci in giro chiamiamo di qualità (e in effetti sembra proprio quella di Sanremo o quella di Ballando con le stelle), c’è la giuria popolare, costituita dal pubblico presente il sala. Tutto qua.
Forlani: Quando si comincia? Avete già delle adesioni?
Luccone: Abbiamo cominciato da tre settimane. Sono arrivati già duecento racconti. Dieci giorni prima di ogni serata (la prima è stata il 21 aprile, con minimum fax a fare da madrina) pubblichiamo i nomi dei selezionati sul sito di Oblique. E così via fino al 16 giugno, gran finale con Fandango.
Forlani: Si puoi dire se ci sono stili e temi ricorrenti, provenienza geografica, anagrafica, insomma se ci sono nuove dal fronte occidentale? Oltre alla scrittura sarà premiato anche il livello performativo?
Luccone: Grosse nuove non ce ne sono. Mi sembra che i racconti siano in linea con la qualità e i temi dei manoscritti che invadono le case editrici. Domina il solito autobiografismo. Disagio giovanile, solitudine. Inadeguatezza. C’è molta tristezza e amarezza di fondo. Le storie incardinate sulla famiglia sono la maggior parte. Quanto alla provenienza: sono arrivati racconti da Biella a Palermo, con un prevedibile picco su Lazio e Campania. L’età è compresa tra i venti e cinquant’anni. Tra i racconti arrivati ci sono pure quelli di scrittori già conosciuti, giornalisti e amici.
La tua idea di premiare la performance è molto bella. La faremo nostra.
Forlani: Girando per l’Italia mi sembra che si stia delineando – come nel passato, forse di meno o di più – una cartografia letteraria che vede Roma e Milano come centri di aggregazione letteraria, di lettori e scriventi. Secondo te conta molto la spinta degli editori?
Luccone: Sì, è così. Roma sta crescendo molto. C’è un’interessante spinta dell’editoria giovane. C’è aggregazione, voglia di fare, spirito di iniziativa. Ci manca – complessivamente – il mestiere, e i progetti sono un po’ vacillanti. Ci si monta la testa facilmente, si pensa troppo presto a far cassa, e il pubblico se ne accorge. Quando i passaggi da meteore a case editrici di catalogo (e tra queste ci metto solo e/o; altri candidati sono Fanucci, Fazi e minimum fax; dal ragionamento ho escluso Newton&Compton e Einaudi Stile libero) saranno una decina, l’incidenza dell’editoria romana sarà più significativa e forse i distributori avranno un po’ più di rispetto. La casa editrice romana più significativa degli ultimi trent’anni, secondo me, è stata Theoria.
Milano e Torino continuano a essere il passato e il presente. Ora però il futuro devono cominciare a guadagnarselo anche loro.
Forlani: I partecipanti si giocano una qualche chance in questa occasione di concorso?
Luccone: Eh sì. Ci mettono la faccia. E poi ad ascoltarli ci sono editor, responsabili di collana. Chissà che non venga fuori qualche nuovo talento…
Tenete d’occhio Paolo Grassi e il suo “Daruma”…
Io l’ho già fatto.
io tengo d’occhio Giuseppe Schillaci …
bravi tutti, bravo Giuseppe.
errata corrige al
grassi che ha partecipato classificandosi secondo ha scritto un racconto diverso da quello che hai letto che invece è di Paolo Barrella,. gli dedicherò un post a parte grazie alla tua raccomandazione, anzi digli pure di scrivermi (ma magari leggerà il messaggio anche lui, magari…) a francesco.forlani@wanadoo.fr, e di mandarmi tre racconti per un tryptique dal sotto titolo, la sfiga esiste ma può mutare vinto.
effeffe
ps
@ Leonardo, per questo tuo errore di scambio minimo minimo mi paghi il caffè e l’ammazzacaffè
Il Grassi lo avverto subito caro Francesco.
e comunque il racconto era questo:
Paolo Grassi
Featuring Ground Zero
Oltrepassate le cime di Lilliput, il tenente smetterà di fissarmi storto. Non che io lo veda, imbracato così stretto al mio sedile, fronte orientata allo schermo e al bottone rosso sotto chiave. Ma i suoi occhi mi puntano, ne sono certo, li sento prudere addosso e pungere, come l’alito della sua invidia, il rollio isterico della menta piperita in gomma nel suo palato. Roba da accavallare i nervi, vorrei che la piantasse, ma è inutile discutere adesso, solo non capisco, sul serio, perché se la sia presa tanto.
D’accordo, lo so, toccherà all’insignificante sottoscritto l’incarico di dare inizio alla vera festa, spezzare il filo ramato del sigillo, armare il confetto e premere il dannato bottone: onore e gloria a me, titoli di testa e copertine, ma è il comando che ha deciso. Faccio solo il mio dovere. Niente di personale, quindi, niente contro di lui. A me volare neanche piace, potrebbe tentare almeno lo sforzo di collaborare, avere il buon gusto di capire. E quant’è ingenuo, invece: ancora crede che a contare davvero, questa volta, siano la sua casacca di cotone pluridecorato al merito, i bersagli massacrati al simulatore e i pettorali d’acciaio. Povero scemo, da primo della brigata gli è toccato farmi da navigatore, da balia, come se davvero ne occorresse una per premere un bottone.
Gli rode l’intestino, lo fa impazzire, ma il solo responsabile è il test, non io. E lo sanno i generali, benché non vada a genio neanche a loro la mia divisa da civile, la giacchetta lisa da impiegato comunale: “Desolato, la mimetica non è il mio stile”; lo sanno i sergenti istruttori, ancora giù al campo a sfottermi per la schiena ricurva, deprecare il fiato corto e la pancia molle, ma sufficientemente ragionevoli da capire quanta poca spina dorsale serva, in fondo, per premere un bottone. Ad accettarlo sono tutti, presidenza e ministeri, servizi e sacerdoti, ma ancora lui non vuole, si rifiuta, convinto che questo posto sia il suo.
Lo psicologo del genio bombardieri aveva calcolato anche questo: un soldato di carriera come il tenente non ammette capogiri da catena di comando rovesciata e un civile a bordo, qualsiasi cosa accada, è un sasso troppo duro da mandare giù. Ma che non voglia riconoscere la mia idoneità al test è davvero infantile. Gioca a fare il sordo sui rapporti delle missioni fallite, ufficiali con le palle di roccia quanto lui, né più né meno, rientrati a casa senza ferire di striscio un piccione: rapidi volteggi, l’obiettivo a fuoco e neanche una pallottola di carta contro il gigante nudo. Il fior fiore di truppe scelte, geni balistici, cecchini di ghiaccio ridotti a innocui contemplatori inebetiti, deliranti, capaci solo di ripetere che era troppo bello, sì, che dal vivo era qualcosa di meraviglioso. Chi ne aveva abbozzato un ritratto, chi scattato fotografie, chi ne aveva addirittura scritto in versi, persuaso dalla grandezza sfrontata, dalla docile decadenza, dal sorriso perfetto con denti estesi come colline, trepidi come reclute al primo colpo di fucile. Un’armata di eroi ridotta a circolo di poeti gentili, sgretolati davanti alla visione di un gigante, disteso per chilometri sulla pianura, senza che egli faccia nulla di più che posare sdraiato sull’erba, beatamente, girandosi e rigirandosi come in dormiveglia, nudo e pigro, stiracchiandosi con infinito compiacimento. E se ne resta lì ad arricciare un boccolo di capelli, disegnare cerchi nel grano, gemere e mugugnare per capriccio in un canto amplificato di megattera, assordante e magnifico, per l’invidia e la fobia dei lillipuziani, per l’imbarazzo del comando, per l’agonia del mondo all’improvviso diventato piccolo.
Hanno ingaggiato altri soldati, hanno tentato di nuovo, poi delegato, deviato, mano destra all’insaputa della sinistra, ma a un tratto restava sempre qualche bottone da premere, una risoluzione da compiere, e chi di dovere cedeva, sabotava o impediva. Arruolare il popolo è stata l’ultima risorsa, scovare qualcuno che sostenesse il peso, non esitasse, e allora è servito il test, nessun abitante escluso, anche solo per capire se la patria fosse ancora capace di aggredire il mostro, oppure soccombere d’invidia e perire d’essa.
Vorrei che il tenente accettasse l’esito del test, che se la prendesse con il punteggio, non con me. Chissà cos’ha risposto lui, del resto? Nei fogli con i pasticci d’inchiostro, ad esempio, io ho visto una vagina e il teschio di una salamandra, tanto ognuno ci vede quel che vuole. E ho provato una vergogna calda per tutta quella pornografia che nascondo in ufficio, fra le pratiche e i bolli. Come è stato bizzarro raccontare del mio ultimo sogno su un cane che indossa il casco da football e mi ripete di correre, correre come non ho mai corso per la salvezza della mia anima, ma non so. Forse è per via del ricordo di bambino, il mio libro sugli animali terrestri, con la coppia di gattini sulla copertina, i loro sguardi rivolti a me: cuccioli da strappare il cuore. Una vertigine, un’emozione mai provata prima. Non era tenerezza, non era eccitazione e neanche era libido. Li osservavo senza poterne fare a meno e qualcosa dentro mi batteva, pulsava sul diaframma fino a darmi un’idea di vomito. Sentivo di volerli amare, li volevo, ne morivo, e cercavo di capire cosa avrei potuto fare per combattere quel torpore, cancellarlo o domarlo, comunque venirne a capo. Li continuavo a fissare fino alle lacrime, non capivo, li temevo, li rassicuravo, mi sentivo inetto, come stare davanti a un angelo, non avrei saputo cosa farci. Non avrei saputo fare nulla. Erano lì davanti e mi mettevano in croce senza che capissi come o perché. Tutto qui, poi strappai la foto. E lo psicologo dei bombardieri ha fatto una faccia strana, come di sollievo. Ma non so, davvero. Sono il primo di un test, è il comando che ha deciso, e il comando non sbaglia mai troppe volte, questa è quella giusta, lo sento.
Ecco cosa dovrebbe capire il tenente: è un bene che io sia qui, gli faccio un bel favore, forse un po’ di gloria si rifletterà su di lui e certamente ne uscirà pulito. Che sconfitta se tornasse alla base con gli scatti del gigante sulla sua digitale, le linee del volto da militare di ferro rammollite in smorfie timide e impacciate, perché neanche le ragazzine al bar se lo filerebbero più, scoprendolo debole tanto quanto loro, ricoverato per accertamenti assieme al resto degli eroi falliti.
In fondo è sciocco che mi preoccupi. Tra poco anche il tenente capirà. Smetterà di fissarmi a quel modo, e le mie spalle torneranno finalmente leggere.
Prima rimarrà in silenzio, poi sibilerà “Dio onnipotente”, inghiottendo la gomma e serrando i denti. “Dio onnipotente” ripeterà come un mantra, con l’identica voce stordita che ogni scatola nera delle missioni precedenti ha registrato impietosa sul nastro. E alla fine capirà, ammetterà che non ci sarebbe mai riuscito. Capirà una volta che avrò sganciato, quando il fianco del gigante, stavolta, si scioglierà sotto di noi, il fungo incandescente si eleverà dalla sua carne in un tuono che scuoterà la valle, spazzando come colpo di spugna tutto quanto, liofilizzando ogni muscolo, setacciandolo a velocità iperbolica in un anello di aria compressa e fuoco.
Oltrepassate le cime di Lilliput, s’intravede qualcosa laggiù. Qualcosa di grande, qualcosa che in video non è la stessa cosa.
Il tenente non mi fissa più, ha smesso di masticare, e a me qualcosa comincia a bruciare dentro, divampa, mentre all’orizzonte si stagliano, baciate dai primi riflessi di sole arancione, le poderose natiche di Gulliver.
Caro effeffe,
il sottotitolo di cui sopra mi alluzza. Cerco subito qualche bozza da mandare, sperando di trovarne in tema.
il Grassi
Il primo racconto evoca la vita in tunnel della vegetazione.
Nella prima parte c’è un respiro della natura: essere un albero con l’anima del vento e della terra, sola preoccupazione di stare in piedi, di non muoversi, restare tra gli elementi. Ma forse il colore del testo si amareggia, fa il brusio di una minaccia, con la scoperta che sotto vegetazione e bellezza, si nasconde morte e inghiottire.
Il terzo racconto mostra il vincolo di violenza nel segreto della casa familiare. La rabbia di una ragazza contro il padre, perché dentro il nodo dei sentimenti c’è cielo bianco pesante del temporale, ambiente che stringe, opprime il petto. La morte “giocata” del padre è lo specchio del disaggio della ragazza. L’ho letto cosi.
Assedio parla delle cose che ti fanno la vita in infierno. La macchina del taglia erba è una minaccia con i suoi denti, taglaire l’energia, fare pelle nuova alla terra, lungo rombo. Tutte le cose della vita quotidiana fanno complicità per trascinare l’uomo verso il lavoro: fanno un rumore che entra nella mente e fa l’assedio del pensiero.
@natàlia: grazi grazi :-)
Grazie Veronique, la tua interpretazione del mio racconto è molto … poetica, poetica su una quotidianità che spesso non lo è.