A Gamba tesissima e cattiva: Agit Pop!

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(agitateurs pour café.)

di
Francesco Forlani

Non ho il televisore e dunque da dieci anni e passa non guardo la televisione. Se per questo non ho nemmeno il gatto. Per la vita che faccio, “sans domicile fixe” non è ragionevole averne. Così quando sono a casa della mia compagna, che il televisore lo ha, di tanto in tanto la guardiamo, ed ecco che scopro cose straordinarie e mirabili, a partire dalle facce modellate dal tempo che popolavano parte del mio immaginario prima di spegnere l’apparecchio Pop per eccellenza. Ma poi si tratta veramente di un mezzo Pop? Secondo alcuni dei miei Maîtres à penser, che non sono i metri dell’attuale finta pornografia intellettuale a cui siamo sottoposti, se vado a rileggermi in particolare Christopher Lasch, piuttosto che di cultura popolare pare che si tratti in realtà di cultura di massa 1 .

A tal proposito vale la pena riportare (e tradurre) la nota critica all’edizione francese uno dei libri di Christopher Lasch, Culture de masse ou culture populaire ( Mass culture reconsidered?)

“Si difende la cultura di massa a partire dall’idea che abbia permesso l’accesso di tutti a un ventaglio di scelte un tempo riservate solo ai più ricchi. La confusione tra democrazia e libera circolazione dei beni di consumo è così profonda che ogni critica all’industrializzazione della cultura è automaticamente percepita come una critica alla stessa democrazia. Mentre il marketing di massa, nel campo culturale come in altri, non aumenta ma riduce le possibilità di scelta dei consumatori. La cultura di massa, omogeneizzata, delle società moderne non implica affatto una mentalità illuminata e indipendente ma al contrario una passività intellettuale, la confusione e l’amnesia collettiva.Questo pseudo pluralismo culturale impoverisce l’idea stessa di cultura e ignora il legame intrinseco esistente tra libertà intellettuale e libertà politica. Una cultura veramente moderna non ripudia gli schemi tradizionali. La sinistra dovrà allora rivedere le proprie idee su cosa possa veramente far accedere gli uomini alla modernità.”
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E infatti giornali, televisione e radio, vengono definiti Mass media e non Pop, come in molti vorrebbero farci credere.
Ma chi vorrebbe farcelo credere, au juste? Pupo, semplice no! Sì proprio lui, quello di Gelato al cioccolato e Firenze Santa Maria Novella.

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Pupo, ovvero Pupu, nella versione Russa, in una recente e notturna trasmissione Rai consacrata al Premio Mogol 3 ospitava nel proprio salotto oltre ad eminenze grigie e rosa della canzone italiana colui che considero al pari di Berardinelli, tra le menti più brillanti della sua generazione e che come lo stimato critico letterario c’ha famija. Altrimenti non si spiegherebbe come Oliviero Beha, una persona così tosta e coerente potesse patrocinare la serie di pupate dette quella sera davanti a un pubblico televisivo attestato sulle novecentomila persone circa.
Non avendo preso nota delle dichiarazioni fatte in quella sede che decretava come grande vincitore della serata tale Povia con una canzone che portava nel titolo il cognome di un mio vicino di casa di un tempo e valente magistrato impegnato nella lotta alla camorra, riporterò a memoria le cose pregando chi avesse più solertemente di me registrato tali dichiarazioni di eventualmente intervenire e correggermi.
Il leitmotif – ma questa parola la capirà la massaia di Massa Carrara? – diciamo, il fil rouge, la tesi dominante era: carissimi intellettuali di sta cippa ci avete rotto il @@@@@ con il vostro linguaggio, la vostra verve cerebrale, il vostro essere di sinistra (non era formulato ma avrebbe potuto) il vostro disprezzo per il Pop, per la canzone che è pura poesia – al punto che i giurati, a cominciare da Mogol leggevano con un effetto a dir poco imbarazzante le lyrics manco si trattasse di Dante .

Il che detto tra noi non è assolutamente falso, specie quando ti imbatti nella spocchia di chi pur citando Pasolini ad ogni piè levato, è pronto a scomunicare chiunque ami il calcio o la musica Pop. Ed eccoci al punto G di questo mio intervento. Fermo restando che non è chiaro a tutti quanto sia ancora valida la legge del doppio registro, che dal Cristo a Massimo Cacciari stabilisce che la vera intelligenza sta nell’adattare il proprio linguaggio alle possibilità dei propri interlocutori, la cosa che mi ha fatto veramente incazzare era che quella propagandata da Pupo e Compagnia come autentico Pop, autentico genere basso e popolare, in realtà non lo fosse. A meno che non si voglia considerare la canzone vincitrice e dunque emblematica del discorso, come pop e non come mass, secondo quanto detto all’inizio.
Cos’è allora il pop? Gran bella domanda. Proviamo allora a rispondere a un’altra domanda forse più accessibile. Cos’è il Mass Pop? Facendo appello a una conversazione avuta con uno dei miei migliori amici jazzisti, Louis Sclavis, ogni volta che sentiva canzoni simili a quelle descritte da Pupo sbottava quasi gridando: “Mais enfin c’est de la varieté!” . Dove la categoria stava a significare, a mio avviso, arte dell’intrattenimento, qualcosa di simile al Villaggio Turistico Globale, animato da cazzeggio di massa e senza pretenzione, per un karaoke universale simile a una bevuta tra amici e quant’altro. Insomma né musica colta né tantomeno pop, alta o bassa, niente di tutto questo, diciamo allora, n’ata cosa. Perché Louis, pur disprezzando contaminazioni “interessate”, come le composizioni finto world music di Garbarek, ama Celentano, conosce a memoria canzoni del repertorio di Giovanna Marini ( da un suo testo ne ha tratto un brano contenuto nel Napoli’s wall) e adora Nino Rota.
Diciamo allora che pur provenendo da una tradizione colta per molti, della sperimentazione jazz, e degenerata per altri, vd i puristi delle accademie e dei conservatori, il suo punto di vista mi sembra assai più vicino a un Pasolini, che non a un redattore di un colto giornale di sinistra (qui lo so che tutti voi direte, tipo Alias, e io vi potrei dare anche ragione se Alias fosse tirato a ottocentomila copie). Perché come Pasolini si alimenta della cultura pop di un Modugno o di un Totò, o alla maniera di Gilles Deleuze ne esplora le potenzialità, del Pop, come quando insieme a Guattari ne descrive certi esiti, in testi fondamentali, come quello sulla ritournelle contenuto in mille plateaux 4

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Certo la questione che si pone riguarda allora il movimento alto/basso (fragile, aggiungiamo noi ) che porta chi attinge all’immaginario Basso Pop per poi restituirlo in una forma Alto Pop quasi non più Pop, a determinate scelte di campo. Quanti ammiratori di Totò, per esempio, si sono ritrovati nella rappresentazione che ne ha fatto Pasolini, e quanti italiani conoscono il Modugno, strepitoso, di Cosa sono le nuvole? Ma basterebbe citare Franco Battiato che con “Fleurs” ha proprio rimescolato tutti gli archetipi della canzone pop europea – remouer come fanno gli “agitateurs” veri con lo zucchero nel caffé e non rimuovere come i paladini del Mass Pop modello Renzo Arbore – o i virtuosismi ludici e meccanici di un Pascal Comelade. Certo la televisione di un tempo era più Pop, e l’ultimo esperimento in questo senso è stato Carmelo Bene a farlo quando commentava le partite dell’Ascoli a novantesimo minuto, se non mi sbaglio, o nell’indimenticabile puntata del Maurizio Costanzo Show.
Se allora la televisione riduce secondo quanto asserito all’inizio di questa ehm, riflessione, il Pop al Mass è perché è cambiata la comunità a cui quei mezzi si rivolgevano? Perché non sono più i contenuti a veicolare i contenitori – vd pubblicità- nella modernissima macchina dell’entertainement? Forse, ma allora quanto ha contribuito il mezzo a mettere in atto questa trasformazione? E se si tratta veramente di una modifica, percettiva, politica, linguistica della realtà, quanto ha contribuito il mezzo a che ciò avvenisse? E se trasformazione c’è stata, ma mi sembra che ce ne siamo accorti tutti, si tratta di un processo irreversibile?
Qualcosa, ma non saprei bene dire cosa, mi dice che non è così.
A quanti dicono che il pop è morto perché non esiste più il popolo, e le classi, e la lotta di classe, raccomanderei allora di abbandonare per qualche ora il telecomando e fare google e poi mondo. Ecco che apparirà su quell’altro schermo qualcosa di simile a un carnevale, uno spettacolo che Michail Bachtin diceva ” situarsi alle frontiere dell’arte e della vita. In realtà è la vita stessa presentata con i tratti particolari del gioco.”
E già. La vita. Il gioco. Altrove, il pop è altrove.
Ecco perché Pupo, Mogol e compagnia, quella sera avete mentito due volte. Una spacciandovi come difensori del Pop, mentre la vostra è una cultura di massa e l’altra quando dicevate essere pop quello che pop non era. E che detto tra noi, molto lapalissianamente, non ci sono canzoni pop e canzoni che non lo sono, ma belle canzoni, e robe che sono della pura pacotille. Intanto metto su un caffè. Così Pop, il caffé. Magari con in testa una canzone che mi ricordi l’immagine usata per il post. Quella che fa.

NOTE
  1. Culture de masse ou culture populaire ? / Christopher Lasch ; trad. de l’anglais (américain) par Frédéric Joly ; avant-propos de Jean-Claude Michéa. – Castelnau-le-Lez : Climats, 2001 (46-Cahors : Impr. France Quercy). – 80 p. ; 20 cm. – (Sisyphe).
    Titre original : Mass culture reconsidered🡅
  2. La culture de masse est défendue à partir de l’idée qu’elle a permis de faire accéder chacun à un éventail de choix autrefois réservé aux plus riches. La confusion entre démocratie et libre circulation des biens de consommation est si profonde que toute protestation contre l’industrialisation de la culture est automatiquement perçue comme une protestation contre la démocratie elle-même. Alors que le marketing de masse, dans le domaine culturel comme ailleurs, n’augmente pas, mais réduit les possibilités de choix des consommateurs. La culture de masse, homogénéisée, des sociétés modernes n’engendre nullement une “mentalité” éclairée et indépendante, mais au contraire la passivité intellectuelle, la confusion et l’amnésie collective. Ce pseudo pluralisme culturel appauvrit l’idée même de culture et ignore le lien intrinsèque existant entre liberté intellectuelle et liberté politique. Une culture vraiment moderne ne répudie pas les schémas traditionnels. La gauche doit donc réviser ses idées sur ce qui fait accéder les hommes à la modernité.🡅
  3. Esibizione degli audio2 durante la serata dedicata all’assegnazione del premio Mogol, condotta da Pupo.L’evento ha visto la vittoria del brano di Povia “Luca era gay” ed e’ stato trasmesso il 22 giugno 2009 alle 23,40 su Rai1. La serata ha raccolto un’audience di 794.000 spettatori con il 12,19% di share.🡅
  4. “C’est curieux comme la musique n’élimine pas la ritournelle médiocre ou mauvaise, ou le mauvais usage de la ritournelle, mais l’entraîne au contraire, ou s’en sert comme d’un tremplin. “Ah vous dirai-je maman…”, “Elle avait une jambe de bois…”, “Frère Jacques…”. Ritournelle d’enfance ou d’oiseau, chant folklorique, chanson à boire, valse de Vienne, clochettes à vache, la musique se sert de tout et emporte tout. Ce n’est pas qu’un air d’enfant, d’oiseau ou de folklore, se réduise à la formule associative et fermée dont nous parlions tout à l’heure. Il faudrait plutôt montrer comment un musicien a besoin d’un premier type de ritournelle, ritournelle territoriale ou d’agencement, pour la transformer du dedans, la déterritorialiser, et produire enfin une ritournelle du second type, comme but final de la musique, ritournelle cosmique d’une machine à sons. D’un type à l’autre, Gisèle Brelet a bien posé le problème à propos de Bartok: comment, à partir des mélodies territoriales et populaires, autonomes, suffisantes, fermées sur soi comme des modes, construire un nouveau chromatisme qui les fasse communiquer, et créer ainsi des “thèmes” qui assurent un développement de la Forme ou plutôt un devenir des Forces? […]”

    [Gilles Deleuze — Félix Guattari: Mille Plateaux. Editions de Minuit — Chapitre: “De la ritournelle” page 381.] 🡅

32 COMMENTS

  1. Ancora uno sforzo (come disse in tempi non sospetti il Divino Marchese), Furlèn, e poi estendiamo il discorso sulla cultura di massa-pop anche al web…
    Cmq, sul ripiano superiore del mio televisore ci ho messo tanti ninnolini di pessimo gusto, cosa che non posso fare su quello del mio pc… che sia questa la différence?
    (ti anticipo: oltre a quella, beninteso, che l’interattività di certo web consente anche a me di dire le mie stronzate…)

  2. Un articolo davvero fecondo. Non ho la televisione, perché durante tre anni di conttato quotidiano mi ha lasciato un’impressione di noia. Non ho trovato un senso al gesto di sedere davanti a une schermo colorato, in movimento, rumoroso; quando invece ho bisogno di armonia dopo una giornata alla scuola. Invece sono un’appassionata della radio e delle canzoni popolari che amo cantare. Quando sento una canzone, rimango con l’aria, mi rende la vita più leggera.

    La télévision mi dava l’impressione di pazzia: colori, parole vuote: un vertigne senza chiarezza. Mi sembrava avere la mente piena di residui.

    PS l’ultima canzone ‘A tazza ‘ e caffè lm’ho nella testa per la serata!

  3. oggi guardavo un film che si svolgeva contemporaneamante in tre luoghi ai confini del mondo, con tre popoli, tre gruppi di uomini, che vivono la quotidianità e la sopravvivenza. Dei cacciatori nomadi in Mongolia, dei Tuareg nel deserto del tenerè in niger , degli Indios in Amazzonia. C’è un evento però che sta sconvolgendo le loro vite. È la finale dei Campionati del Mondo Germania-Brasile (siamo nel 2002). E tutti la vogliono vedere.
    Questa la sintesi di questo piccolo, film che gira intorno a una sfera, a un pallone. Ed è la semplicità /sport che si può giocare ovunque in simbiosi con la semplicità delle esistenze quasi primordiali nella loro essenza, e globali nella sostanza. Questi uomini che cacciano le scimmie o camminano per ore e ore nel deserto, indossano la maglietta di Ronaldo, e sono consapevoli che attraverso una parabola e un televisore si può raggiungere la civiltà, o presunta tale, come la consideriamo noi nel mondo cosidetto occidentale (ma che sarà mai ?)
    la semplicità (il concetto ricorre) è geometrica, i paesaggi sono aperti, esssenziali, verticali (la foresta che si sviluppa in altezza è ripresa dall’alto o a livello uomo). Perchè sono i teatri infiniti dove si muovono i protagonisti. Il contrasto fra la natura, umana e non, e i giocatori come Ronaldo, i cui nomi campeggiano sulle magliette indossate, è immediato I campioni sono elementi di contaminazione parti dell’universo al servizio del dio denaro, che qui non esiste, perché vige ancora il semplice baratto. Il grande match è per chi ama la semplicità del calcio e della vita, dove il silenzio si oppone al boato del goal e dove Ronaldo gioca idealmente con i Tuareg.

    “A quanti dicono che il pop è morto perché non esiste più il popolo, e le classi, e la lotta di classe, raccomanderei allora di abbandonare per qualche ora il telecomando e fare google e poi mondo. Ecco che apparirà su quell’altro schermo qualcosa di simile a un carnevale, uno spettacolo che Michail Bachtin diceva ” situarsi alle frontiere dell’arte e della vita. In realtà è la vita stessa presentata con i tratti particolari del gioco.”

    poi ho preso un caffè, e sono uscito
    per strada pensavo che tu (effeffe) avessi come sempre ragione
    ma stavolta di più,come un fallo come due calci di rigore
    c.

  4. bello il pezzo di francesco, ma mette molta carne al fuoco e non mi addentro in una disamina, avendolo già fatto con impegno improbo nella parallela discussione su m. jackson. mi limito a dichiarare solo la mia parziale adesione a quanto dice il furlen, ma a mettere in dubbio che si possa distinguere fra il valore di pupo e quello del vero pop, utilizzando le sue categorie. io credo – detto molto o troppo sinteticamente – che l’unica base obiettiva di distinzione sia effettuale ed in utlima analisi etica… affrontando il problema da qualsiasi altro punto di vista si cade nell’abisso delle percezioni individuali, della loro privatezza e inconoscibilità, dell’indecidibilità su quanto vi attiene

  5. VIAGGIARE LONTANO RESTANDO VICINI

    Suonate musici la Danza degli Spettri
    che la nostra rovina
    s’accompagni ad una fede di rinascita

    quando fu che abbandonammo lo Spirito
    come i bisonti la prateria
    attorno fuochi tossici scambiammo fucili

    folli d’odio solo il deserto ci guarirà
    le bocche di polvere e sale
    soffieranno l’alba in un osso d’aquila

    l’Uccello di Tuono oltrepassò nella via
    attraverso il Padre
    e la saggezza che proferì all’assemblea

    l’Uomo Guida sorgerà dal tipì lacero
    brocche d’acqua
    portate da donne con rosari di mescal

    brucierà il ritorno
    sotto i piedi
    nell’occhio incredulo

  6. ciao a tutti,

    per come la vedo io, oggi la “categoria massa”, utilizzata per spiegare i fenomeni sociali, quanto l’estetica di quei fenomeni, è praticamente scaduta. non esiste la “massa”, come non esiste “l’uomo ad una dimensione”, come non esiste il “pubblico”, com’è molto fuoriviante la categoria di “audience” – tra l’altro una finzione televisiva, una categoria televisiva nata dalla televisione per spiegare il comportamento della televisione.

    sono tutti concetti e categoria da fine anni sessanta, idee che provengono dalla scuola di francoforte, e che se allora erano una scorciatoia euristica per comprendere la realtà, oggi sembrano tremendamente datate, per non dire dannose, perchè offuscano lo sguardo e limitano la nostra comprensione dello stato delle cose.

    se per ipotesi, assumiamo come s/oggetto della nostra indagine sociale la massa, allora la prossima mossa da fare è la seguente, ed è una domanda semplicissima: come ragiona, la massa?

    e poi: con che logica si muove all’interno dello spazio sociale, la massa? quali fini persegue?

    ovviamente, non c’e’ risposta. la massa appare un termine vago, onnicomprensivo, totalitario, che al suo interno non ammette nè sfumature, nè differenze, nè distinzioni – come per esempio segnala un sociologo come pierre bourdieu. in poche parole, il temine massa nasconde una volte per tutte non solo gli individui che comporrebbero la massa, ma soprattutto la loro capacità di percepire, sentire, confermare o opporsi alle forme del reale.

    molto meglio sarebbe allora convogliare le nostre forze ermeneutiche intorno al concetto di “fenomeni collettivi”, cioè fenomeni caratterizzati da un elevato numero di individui che scelgono nello stesso tempo, ma con motivazione del tutto singolari, di prendere parte al fenomeno stesso – e ciò a prescindere se questo fenomeno collettivo si concretizzi in una manifestazione per i diritti dell’uomo o nella visione di un programma televisivo di bassa lega.

    ed è qui la distinzione principale. la massa è agita da fuori. in un parolone, è eterodiretta, è spinta cioè da forze esterne alla massa. mentre i fenomeni collettivi nascono dall’adesione o meno di individui a fenomeni che si fanno estesi, tentacolari, diramati, per dirla alla deleuze dei “mille piani” che tu citi. (anche se ciò non significa che i fenomeni collettivi non siano influenzati da forze e spinte esterne, significa solo che queste spinte non vengono accettate passivamente, ma riprese dagli individui e rielaborate, rimesse in forma, magari in un’altra forma rispetto a come sono state proposte, magari in una forma completamente opposta).

    per fare un esempio lampante, così che tutti possano capire: il successo di un libro come “gomorra”, di roberto saviano”, è stato una roba di massa, o un fenomeno collettivo? se fosse stata una roba di massa, sarebbe bastato che l’editore immettesse il libro nel mercato editoriale per spiegare il successo – anche se ciò non significa niente, altrimenti per ogni libro immesso nel mercato editoriale dovrebbe accadere la stessa cosa. il caso gomorra, invece, è un esempio di fenomeno collettivo, di individui slegati che poco alla volta, per motivi personali, rielaborando le informazioni che provengono dall’esterno, hanno deciso (sia pure per farsi notare o per prendere parte dentro un particolare gruppo sociale) – ed è questa la cosa fondamentale – di prendere parte all’esperienza che questo libro consegna al lettore.

    (anche qui, non è che si possa segnalare il fenomeno collettivo come qualcosa di assolutamente fondato sulla razionalità. in un classico come “la psicologia delle folle”, scritto da le bon nel 1985, mettiamo a fuoco quanto l’irrazionale abbia la sua parte in questi fenomeni. ma tuttavia è soprattutto la razionalità a lasciare il segno, altrimenti non avremmo nessuna chiave di lettura dei fenomeni sociali: la sociologia, la sociosemiotica, in fondo, reggono il loro pensiero e la loro azione ermeneutica sulla ricerca di questa razionalità nascosta. perfino la psicoanalisi cerca una razionalità dentro il caos oscuro dell’inconscio, perfino lì. del resto era lo stesso lacan a dire che l’incoscio si struttura come un linguaggio, ma questa è un’altra storia).

    altra cosa e chiudo: sempre per come la vedo io, non esiste più questa divisione tra cultura alta e bassa. viviamo in un mondo dove tutto è stato completamente contaminato, tanto che ogni forma si è sciolta nelle altre. il dato di partenza, oggi, è questa infinita e complessa contaminazione. del resto tarantino è venuto fuori negli anni novanta, il momento in cui la contaminazione ha toccato il suo apice, contribuendo a mischiare ancora più le carte.

    anche lì, questa divisione non rende giustizia al mondo, perchè lo semplifica in uno schema davvero riduttivo. bisognerebbe invece considerare ogni forma dell’espressività umana – chessò, la letteratura, i fumetti, il cinema, i videogame, i blog, le ricette di cucina, etc. – come “prodotti culturali”, cioè come oggetti ne alti, nè bassi, ma che se studiati danno conto di tutta la compessità dell’epoca in cui sono stati prodotti, e del tipo di percezione che gli individui mettono in atto per addentrarsi in quell’oggetto.

    (anche qui, non sto dicendo che non è possibile dire cosa è migliore e cosa no, a prescindere dal gusto di ognuno, sto solo dicendo che ogni prodotto culturale nasce dentro la contaminazione tra ciò che un tempo veniva chiamata cultura alta e cultura popolare).

    a presto

    giuseppe

  7. Tempo fa ho chieso a un idraulico leghista sempre pronto a inveire contro gli extracomunitari che rubano il lavoro, la casa ecc. (meno inveisce invece contro le extracomunitarie, di cui ama fare l’utilizzatore finale), ebbene gli ho chiesto quasli fossero i tre poteri dello Stato. Silenzio totale (da parte sua). Allora ho scoperto che la high culture ancora esiste: è la conoscenza dei tre poteri dello stato…
    (Furlèn, l’idraulico in questione ha un pc, non un mac)

    Dwight Macondo

  8. Giuseppe, e tutti, vi ringrazio per l’attenzione che avete dedicato a questo post in translation. Ognuno dei commentatori ha secondo me proposto percorsi assolutamente praticabili ed ecco perché mi piacerebbe approfondirne alcuni esiti.
    Comincio con Giuseppe.
    Per una serie di ragioni che meriterebbero un’attenzione particolare non credo si possa parlare di una teoria o di un paradigma interpretativo politico o filosofico che sia, invalidandolo attraverso la dimensione temporale, ovvero secondo il principio per cui una teoria del prima che sarà necessariamente superata da una teoria del dopo. Credo allora che non si possa dire di una idea che è datata, inattuale, o desueta, dal momento che tali paradigmi li ritroviamo più in un assetto temporale ciclico che in uno lineare – altrimenti come spiegare il dibattito perenne su Darwin, o i fenomeni di renaissance nel pensiero – Kierkegaard renaissance, Nietzsche Renaissance, Spinoza Renaissance ecc ecc. Ecco allora che tanto un Horkheimer che un Walter Benjamin, Spinoza che kant, continuano a parlarci nonostante tutto, se non di tutto, di una buona parte. Le cose che dici su “massa” e , moltitudine, fenomeni collettivi (Bourdieu) minoranze (Deleuze), chiamiamole come meglio si crede, mi sembrano giuste, e quando dici che bisogna evitare di cadere nella trappola “alto” “basso”, e non rinunciare a “comprendere” la complessità dei fenomeni – ma allora lo faremo con una lingua semplice o complessa?- non puoi che trovarmi d’accordo. Converrai con me però nel constatare che tale “idée reçue” stabilita dal potere giustifica il potere ai propri occhi e a quelli dei suoi sudditi-clienti, in una serie di scelte che potremmo definire di “occupazione della comunicazione pubblica”, e chiedersi perché la ripartizione dei canali Rai, solo per fare un esempio, obbedisca a tale logica. E così accade nella carta stampata, bref in tutti i media che subiscono da anni il ricatto degli inserzionisti. Parlare semplice, anche a costo di non dire e fare nulla. Una cultura libera e indipendente deve anche correre il rischio di non essere nello spirito del tempo, anzi riprendendo quanto già detto all’inizio da Christopher Lasch, dovrebbe incoraggiare autonomia di pensiero, analisi critica, e soprattutto “agencer” la realtà, acchiapparla e non lasciarsela scappare, come accade ora.
    Il concetto di Massa poi contrapposto a quello di popolare mi permette di individuare uno dei maggiori disastri prodotti dalla sinistra del dopoguerra, soprattutto nell’incapacità di accettare il ruolo di “conservatore” all’interno di un processo di disintegrazione di certi nuclei tradizionali, come la comunità, la condivisione di ruoli e responsabilità nella dimensione collettiva, il rispetto della persona e della parola data, la lealtà ecc. Cose che si pensa essere erroneamente ad appannaggio della “reazione”, della destra e quant’altro.
    Ricci, sì proprio lui, quello di Striscia la notizia, a mio parere è riuscito a fare cose che Ghezzi non si sognerebbe nemmeno di fare, e fa, spesso, suo malgrado. Per fortuna però, che esiste Ghezzi. Certo, tutto per noi, alle due del mattino, fuori orario, per capirci, solo per noi. E’ quel “siamo solo noi” che ci sta facendo perdere la partita più importante.
    effeffe

  9. ciao effeffe,

    concordo con te sul desolante paesaggio della televisione italiana, oggi. come credo anch’io che le teorie una volta formulate rimangano presenti, compresenti, attuali, nel senso che anche dopo secoli possono illuminarci di nuovo – del resto, senza san tommaso, o agostino d’ippona, umberto eco non avre mai avuto modo di tracciare i fondamenti della semiotica, per dirne una.

    ma credo anche che la ciclicità del ritorno e dell’aggiornamento e della rivisione delle idee, comunque, non impedisca di sfidare e mettere fuori uso concetti, idee e categorie che non ci restituiscono più la complessità del reale. per esempio, nessuno oggi si sognerebbe – se non per problemi suoi personali – di utilizzare la categoria “razza” messa a punto all’inizio dello scorso secolo. succede che al confronto con il tempo, e con l’evolversi della storia umana, e della percezione che l’umanità ha di se stessa, molte cose semplicemente smettano di funzionare, ritirandosi e restrigendosi, fino a rimanere gusci vuoti.

    è chiaro che non butto a mare la scuola di francoforte e tutte le idee che ci ha consegnato. tanto che io non ho mai parlato di scuole, ma di categorie: se usurate, molte categorie possono anche essere dimenticate. per dirne una, e tornare al discorso di prima, la categoria “dell’uomo ad una dimensione” di marcuse, senza riggettare in toto marcuse, è infinitamente meno ricca e complessa e sfaccettata e priva di presa sul reale delle idee di foucault, delle sue categorie di soggettivizzazione, del sapere e del potere, di come le due cose siano intrecciate, di come le forme del potere siano storiche ma anche immanenti, cioè microfisiche, interne a noi e al nostro spazio sociale, non solo una forza esterna.

    la cosa che non mi convice affatto della categoria di massa è che, essendo la massa per definizione priva di autonomia, eterodiretta, sollecitata solo da spinte esterne, condizionata totalmente da ciò che trova nello spazio sociale, giustifica, consola, assolve qualsiasi comportamento. mentre invece la categoria dei “fenomeni collettivi” permette di individuare una razionalità interna ai fenomeni sociali, una volontà, una forma di decisione. solo così possiamo essere in grado di esprimere un giudizio etico su ciò che ci circonda.

    forse questo è stato sempre l’errore della sinistra. immaginare le moltitudini come guidate da fuori, e non da una specifica direzione che è stata in parte anche scelta e perseguita. non basta dire che i mass-media condizionano la gente, oppure determinano i suoi comportamenti (già la parola mass-media mette in forma ed esplicita questa ideologia). forse bisognerebnbe capire anche perchè le persone decidano in un modo o nell’altro di prendere parte a determinate forme sociali, e in che modo, e con quali finalità, e con quali sfumature di senso. se vogliamo cambiare lo stato delle cose bisognerebbe compredere soprattutto questo, bisognerebbe capire che noi cosciamente e incosciamente, decidiamo di prendere parte ad un modello sociale. non siamo soli sudditi, come dici tu, siamo soprattutto portatori di potere, delle forme del potere, di questo potere polverizzato e diffuso in ogni fessura dello spazio sociale.

    quanto a ghezzi, meno male che esiste! ricordo solo che è stato grazie a lui se debord, dal 1987, in primissima serata, continua a parlarci attraverso il fluido che uccide di blob. tanto che non ha mai smesso di funzionare, soprattutto perchè mette in cortocircuito l’era della comunicazione e dello spettacolo infinito in cui ci troviamo oggi. soprattutto questo potrebbe essere la televisione, ma è un altro lunghissimo discorso.

    a presto

    giuseppe

  10. Ieri ho riveduto Il Caïman di Moretti. A un momento c’è un brano di TV con ragazze che ballano spogliate. Berlusconi si rivolge al pubblico per confrontare tv di colore grigio e altre colorati, come mondo di Alicia al paese delle meraviglie. Una partita di foot è una balla espressione populare con un cuore universale che batte forte, ma che tristezza questa orgia di colori, del sexy facile, degli oggetti da consumare, questa felicità zuccherata, questo riso artificiale.
    Mancano artisti “agitateurs caffè”. Se puo fare una TV intelligente senza noia, ci credo…

  11. Vedi, Furlèn, un limite di questo post è, a mio avviso, che se è ben definito e precisato il significato della qualificazione (mass, pop), non è altrettanto definito il significato del sostantivo. Insomma, cos’è la cultura? Personalmente mi trovo a capire meglio il significato di musica pop (perché è un genere più delimitato e ristretto, più specifico) che quello di cultura pop.
    Da questi post poi si evince che la televisione è o “fa” cultura.
    Peccato che, come dici, sei privo dell’elettrodomestico televisione (ma come fai poi a vedere “fuori orario”? lo scrocchi a casa di amici?), sennò non ti saresti perso ieri il reportage (trasmesso a sfare da tutti i canali tv) sulla festa di mediaset per la presentazione dei nuovi programmi televisivi del prossimo anno. Pareva (o era) una di quelle riunioni aziendali anni 60-70 dove al centro era l’orgoglio imprenditoriale (rappresentato dal Berluska jr, tronfio e vanesio come il senior), e tutti i convitati, giornalisti di grido, reporter “d’assalto”, presentatori dalla fama di seri e professionali (oltre alle solite papiveline), a bearsi con un sorriso di quelle parole (c’era anche, naturalmente, lo staffi di Ricci). Ebbene, chiamala come vuoi, pop, op, mass, mid, trash ecc., ma personalmente con quella cultura non ci voglio avere nulla a che fare. Se poi il mio rifiuto è in nome di una cultra “alta”, beh, non ho pregiudizi…

  12. macò, quando ho riletto il post mi ero chiesto se esisteva ancora fuori orario che vedevo assai regolarmente negli anni ottanta.
    E la sigla è sempre quella? Because the night di patty smith?
    because the night, appunto, perché la notte ( tarda )
    effeffe

  13. si effeffe, Fuori orario esiste ancora ed è sempre sulle immagini dell’Atalante di Jean Vigo

  14. Ciao Furlén,
    qualche nottetempo ti inviterò chez moi a ri-vedere “fuori orario”. Tu devi solo portare un bel brunello d’annata

  15. @ macondo
    per caso hai registrato i film degli anni scorsi? Ti è capitata La stanza della musica di Satyajit Ray?

  16. Macò te porto a botija che me piacie der Bricco de l’uccellone che costa na cifra ma se dee fa pe mmomenti come quelo
    effeffe

  17. furlen, mi sembrerebbe di capire che tu ami più ghezzi, ma ritieni che ricci, suo e nostro malgrado, faccia di più.
    ma nemmeno quello! ricci è il buffone del re, cui si consente di “simulare” l’irrisione al padrone, o l’intelligenza, o l’etica. ciò che tuttavia lo tradisce è il linguaggio, che è quello del padrone: accelerazione e ritmo, divertimento, calembour senza referente, veline e messaggi a tempo zero di decodifica – insomma, spettacolarizzazione. striscia non denuncia, inscena la denuncia, il suo fine non è il bene, ma il suo spettacolo, e dunque quel che ottiene è spettacolo. negli uomini dei tempi non produrrà altro che una delega dell’etica allo spettacolo – un alibi – , e dunque per un caso che risolverà, ne produrrà o comunque taciterà altri mille.
    è un punto cruciale, fra ghezzi e ricci si gioca la distinzione fra chi tende all’essenza e chi, istericamente, prende il linguaggio alla lettera, e accetta la logica della rappresentazione, e del divertimento da sé.

  18. PS
    precico che, dovendo confrontare operazioni in qualche modo omogenee, il ghezzi cui mi riferisco è quello di blob

  19. Verrebbe da dire che ne è passato di tempo da quando McLuhan ne La sposa meccanica scriveva: “la moderna Cappuccetto Rosso, allevata a suon di pubblicità, non ha nulla in contrario a lasciarsi mangiare dal lupo”.
    Oramai si potrebbe dire di più e cioè che è l’intera società umana a mangiare se stessa davanti ad uno schermo, acceso; pc, tv, telecamere per la cosiddetta sicurezza… poco importa quale che sia il mezzo.

  20. @macondo
    grazie, ma è tanto che lo cerco e non lo trovo. Se vedo effeffe prima che passi da te ti trovo una buona bottiglia di bianco (ma sembra un ottimo rosso). Errore nel titolo che in italiano è La sala della musica. Grazie per il passaparola.

  21. ebbravo alicante che di mestiere fa l’arbitro e distribuisce cartellini: giallo a te, rosso a te, a te niente.
    effeffe

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francesco forlani
francesco forlani
Vive a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman e Il reportage, ha pubblicato diversi libri, in francese e in italiano. Traduttore dal francese, ma anche poeta, cabarettista e performer, è stato autore e interprete di spettacoli teatrali come Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, con cui sono uscite le due antologie Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Corrispondente e reporter, ora è direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Con Andrea Inglese, Giuseppe Schillaci e Giacomo Sartori, ha fondato Le Cartel, il cui manifesto è stato pubblicato su La Revue Littéraire (Léo Scheer, novembre 2016). Conduttore radiofonico insieme a Marco Fedele del programma Cocina Clandestina, su radio GRP, come autore si definisce prepostumo. Opere pubblicate Métromorphoses, Ed. Nicolas Philippe, Parigi 2002 (diritti disponibili per l’Italia) Autoreverse, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2008 (due edizioni) Blu di Prussia, Edizioni La Camera Verde, Roma Chiunque cerca chiunque, pubblicato in proprio, 2011 Il peso del Ciao, L’Arcolaio, Forlì 2012 Parigi, senza passare dal via, Laterza, Roma-Bari 2013 (due edizioni) Note per un libretto delle assenze, Edizioni Quintadicopertina La classe, Edizioni Quintadicopertina Rosso maniero, Edizioni Quintadicopertina, 2014 Il manifesto del comunista dandy, Edizioni Miraggi, Torino 2015 (riedizione) Peli, nella collana diretta dal filosofo Lucio Saviani per Fefé Editore, Roma 2017