Pizzuto découpage
di Domenico Pinto
«Erice, odoranti di salvia i suoi paradisi, ingiù dallo scosceso il mare cresputo immobile, terse come stoviglie le strade spirali, ingressi ed imposte chiusi, laddentro cortili dove minuscole lune l’acqua nei profondissimi pozzi in echi, ben scarsa entro cisterna simmetrica, framezzo qualche albero, mura mura convolvoli, secondari usci su candida viuzza tra verdi persiane opposti a quelli maestri».
È il bandolo di Testamento, e già il lettore ha un piede entro l’enigma costruttivo della scrittura pizzutiana, al discrimine fra lasse e pagelle, rotta estrema che il «questore in quiescenza» mantiene – lasciati alle spalle Signorina Rosina (1959), Si riparano bambole (1960) Ravenna (1962) e Paginette (1964) – fino a imprimere alla sua sintassi nominale, e insieme alla prosa italiana del Novecento, il segno del non ritorno, solcando più di una ruga nell’animo dei propri lettori. Dopo l’enchiridio che riproduceva una parziale anastatica dei manoscritti (Scheiwiller, 1967), e dopo la stampa per i tipi del Saggiatore (1969), scortata in bandella da Contini, oggi l’opera torna accessibile con una splendida edizione ‘in chiaro’, curata – fra i rari nantes di questa impervia filologia – da chi strenuamente, con implacabile pazienza, è riuscito negli ultimi vent’anni a serbare Antonio Pizzuto nel circolo delle idee: Testamento, commento di Antonio Pane, Polistampa, 2009, 312 pp., € 23,00. Innanzi agli arcani plurimi di un pensiero intricato e condensatissimo se mai ve ne furono, i cui esiti formali belligerano coi nostri sensi, il commento permette, adesso, di leggere i testi collegandoli alle loro radici spaziali e temporali, porta all’affioramento dei correlati affettivi, delle occasioni biografiche, segue l’andirivieni dei cabotaggi intertestuali, rendendo meno misteriosa la fonte dello stupore. Esegesi necessaria per il lettore che chieda anche i negativi della pagina, sempre individuata in un rapporto di circolarità continua con la vita e con il campo di forze del reale, e per chi nel poliziesco dei significati non finisca troppe volte a dirsi – con espressione da una lingua incorporante che forse al testatore sarebbe piaciuta – naluvara (in eschimese: «non so»).
L’appendice a Paginette – libro che con Sinfonia (1966) e Testamento chiude la trilogia delle lasse -, presenta al suo interno una voltura poetica, le Vedutine circa la narrativa, dove il démontage del ‘racconto’ poteva ormai considerarsi compiuto: inteso come registrazione, il racconto non può che pietrificare i fatti (del resto mere astrazioni), termine cui Pizzuto oppone quello di ‘narrazione’. Il fatto, scommesso dal suo rasserenante sistema di rapporti, prende a vivere, diventa non più ritratto ma risonanza. Se i personaggi raccontati, quindi, sono documenti, «i personaggi narrati sono dei testimoni», per giungere infine alla celebre sintesi tomistica della «cointuizione» e della partecipazione attiva del lettore. Testamento implicherà un’ulteriore torsione dello spazio retorico. A partire dalla lassa IX (Servitù) vengono aboliti i personaggi: Bibi, Pofi, Andrea e Foco, Lumpi, già puri contrassegni di relazioni, funzioni del discorso, si estinguono per sempre, inclinati in una direzione di scrittura pienamente beckettiana. Si rinuncia alle forme finite del verbo, con cui si cancella il tempo, o se ne grammaticalizza per tale via l’assenza, restituendo un mondo di fenomeni allo stato fluido. Nell’Ade dei personaggi finiscono anche i pronomi, qui assai rarefatti, come rarefatta risulta la punteggiatura (compare per la prima volta il punto in alto alla greca, che si aggiunge all’orchestrazione della frase). Siamo così alla svolta indeterministica di Pizzuto, e provare a abbracciare tutti i nessi di una lingua «per legame musaico armonizzata», a questo punto, è come voler schiacciare una lacrima di mercurio. Mano a mano perfetta si fa l’analogia con la musica – sovvenuta a tanti suoi estimatori – e alla matematica, conducendo per tale strada dritto a Novalis: «Per il linguaggio è come per le matematiche: esse non esprimono nulla se non la loro meravigliosa natura, e perciò esse esprimono così bene gli strani rapporti fra le cose». Se leggere Pizzuto vuol dire in certa misura inventare sulle didascalie fornite dall’autore, con un’attitudine propria dell’esecuzione musicale e della traduzione, allora a ogni pagina ricomincia il nostos che dalla nebbia dei fatti guida agli eventi in fieri. Ma per quanto celati, i referenti giacciono al fondo di questa vertigine agogica. Pizzuto disegna sempre dal vero, per cui nel cuore segreto della sua prosa convivono due istanze all’apparenza antitetiche: il massimo di precisione positivistica, il massimo dell’alea indeterministica. In una lettera a Contini del 19 agosto 1966 vede il libro alla stregua di una «autobiografia senza attore, senza futili madeleine, né storia». E gli riesce, per approssimazioni e scorrimenti, usando i lacerti della memoria, la più luminosa autobiografia senz’io che si potesse immaginare, purissima «manifestazione di un linguaggio che non ha per legge che di affermare, contro tutti gli altri discorsi, la propria esistenza scoscesa» (Foucault). A distanza ravvicinata, fra i tagli che costellano la narrazione, a produrre un altro esteso rimosso, sottotraccia, perspicuo al pari degli interventi sintattici, sarà la progressiva perdita del piano allocutorio, balenante in nuce fin dal suo primo romanzo, Sul ponte di Avignone (1938): «Pel caso che queste pagine dovessero cadere un giorno sotto sguardi estranei farò il seguente avvertimento: Non badare troppo ai fatti in ciò che espongo, mai vi fu sì poca voglia di raccontare! Tuttavia, inatteso lettore per cui non scrivo, tu non mi scorderai facilmente». La falcidia delle parti procedurali rimanda al nucleo del pensiero schizofrenico – che decapita nel suo arco, come voleva Bateson, persino gli articoli e le preposizioni -, alle locuzioni interrotte di Daniel Paul Schreber, benché in Pizzuto la frase sia levigatissima, e levigata perché divenga pietra da fiume, emblema, enigma. «È come se il linguaggio esistesse, ma non più per gli uomini», è quanto emerge in un luogo del dialogo tra Jean-Jaques Brochier e Roland Barthes, a proposito di Bouvard e Pécuchet, romanzo che annette al proprio interno la crisi del moderno e delle forme letterarie, dove è una perdita comparabile del piano allocutorio e della rappresentazione classica. Per le grandi avventure formali della frase, per la lucida, ossessiva cura delle sue componenti, l’iperstilistica follia Pizzuto – che incarna la preistoria del segno e, insieme, la sua promessa di futuro – la diresti consanguinea di Flaubert, elevata a potenza.
La prima lassa di Testamento (Nonna), con cui in apice si apriva questa nota, si concluderà nella persistenza lancinante della memoria: «E a lei dispensante sulla tovaglia ruvida le posatone d’argento, il vocativo ossignoriddio, pur calibrato in arrivo dallo scrittoio, fiaccava l’esercizio. Avanti sparecchio, la zia piccola a declamarle, avida tal udienza, imbambolandosi l’indigena fantesina, erano diffuse elegie materne frequenti nella lettera quotidiana di avvicinamento. Poi la siesta, dissipativa a penombre, tosto irreperibile l’ospitino. Allora, tempestivo altrove un forbir oricalchi per mo ricorrente diana, nel suo cantuccio, aria di non essere sola né vista, ella apriva roco cassetto, da farlo anche occulta labile specchiera cui abbellarsi, dita ad accordi su indulta capigliatura; dentrovi parafernali ciprie, aromi, unterie, persisterne rima interna volatili melliflue cere. Mai sempre, ancor dormiente, in sorrisi».
L’articolo è apparso sabato 25 luglio in «Alias».
Bellissimo commento, centrato e rigoroso, scelta di un testo e di un autore straordinario
concordo con lumina:-)
Letto insieme all’autore a Mesagne!
una nota di freschezza per una giornata torrida
effeffe
Ottima cosa ribadire l’importanza di Pizzuto, autore troppo dimenticato… perfetta, direi, la nota critica, davvero. Il problema, casomai, è la sua ricezione (anche se esigua): pericolosamente declinata in una facile oscurità fine a se stessa, troppo facile, troppo facilmente ridotta a orfismo da supermercato… che con Pizzuto, mi pare, non centra proprio niente… vorrei solo ricordare uno che Pizzuto l’ha amato e “interpretato” (proprio in senso musicale) in maniera ineccepibile: sempre il solitario Carmelo Bene…
Raro, oggi come oggi, trovare recensioni, anche brevi, di questa qualità. La maggior parte di esse sembrano composte da un software deficiente. Questo a onore di Pinto.
Quanto poi la Polistampa ha fatto negli ultimi anni su/per pizzuto, assieme ad altri pochi coraggiosi, merita un monumento.
Ottimo Pinto. C’è da augurarsi che il commento di A.Pane sia solo l’inizio di una stagione di esegesi pizzutiana.
Bravissimo Domenico Pinto. Fa sempre piacere constatare che l’intelligenza del critico può ancora associarsi, felicemente, alla complessità di uno scrittore come Pizzuto. Con lei, Pinto, ho spartito qualche schermaglia polemica sulle “poesie” di Fatica (ricorda?), oggi le riconosco un’autonomia intellettuale e una capacità di analisi notevoli. Grazie
Splendido, m’era sfuggito Alias del 25.7.
Grande Pinto per un grande Pizzuto.
Pane sta facendo un bellissimo lavoro su Pizzuto, al pari di quanto ha fatto per un altro grande “siculo” , Angelo Fiore.
Ringrazio quanti hanno aperto il pizzino e hanno lasciato un segno della loro lettura.
Bello (fortunatamente il Manifesto non è per operai).