La luce
di Andrea Inglese
Qui non mi può raggiungere la forma interna della città, la sua anomalia di riflessi, tutti metallici, con l’azzurro del cielo in transito, in continuo sfogo verso il nord e l’oceano, qui la configurazione intima si è allentata, la morsa del tredicesimo, la sua monotonia di acacie e grate metalliche per terra, qui le cancellate del liceo, la scale mobili che non si arrestano neppure di notte, nel tempo morto, qui i giocatori di pallone nel campetto di cemento, qui Max, l’alcolizzato colto, il senza casa, qui non mi possono raggiungere, i fumatori costretti ad appoggiarsi alle vetrine, all’esterno, qui i carrelli di tela cerata da cui sbucano i sedani non arrivano, la mappa mentale, che Parigi ha costruito per strappi continui, per trafitture, per piccole ustioni sentimentali, come un pirografo, qui no, non sopra i bastioni di Castel Sant’Elmo (la fortezza di tufo sopra i resti della chiesa di Sant’Erasmo),
qui mai, con tutta la luce polverizzata sul golfo, luce già africana, che pattina con violenza sullo specchio del mare, e si frantuma nella verticale della città, che dall’alto si abbuia, sprofonda, per scale e discese, rampe petraio, vicoli marci, qui la luce di Napoli, che rimbalza sulle paraboliche, che arroventa il centro direzionale, che rode l’ombra dei corpi sul selciato, qui dove i cani vomitano pezzi di vetro, qui tra gli astanti, che riempiono gli spazi in un raduno costante e senza scopo, nelle voci che si spezzano, tra i ragazzi clonati, con il medesimo occhiale da sole, orda uguale, salendo e scendendo dai motorini, qui la luce a rimbalzo sul tufo fa ostacolo, rompe le orbite dei pensieri, che tendono a girare ancora intorno al rettifilo della rue Tolbiac, a quegli asfalti, a quei corridori con le giacche aperte, e le borse, a quelle africane col passo ondulante, africane senza luce africana, con i chiarori metallici nelle pieghe delle vesti, qui è Napoli, una cosa che combatte con la luce, con troppa luce, dove tutte le miserie salgono, sono in superficie, sui muri, sulle facce, come stucchi barocchi, chiazze d’umido, cicatrici, buchi nei denti, e il destino non trova sfumature, recessi, è una nenia torva, piena di risate inutili, qui vendono anche la scarpe bucate, anche le pistole vere, qui non governa più Parigi, non mi tiene più, mi sono liberato, qui devo scappare, togliermi da questa luce.
[Da Materiali per un libro su Parigi]
passaggi cortàzariani
Sì, è vero. C’è qualcosa del flusso cortazariano. Mi ricorda certi racconti metropolitani di Ottaedro.
Magnifico Andrea Inglese. Avrei amato scrivere un testo sotto questa luce africana.
Ho ancora negli occhi il suo colore giallo/ occhi di pantera.
“qui devo scappare, mi sono liberato, togliermi da questa luce.”
E’ strano perché il mio cuore murmura lo stesso e il contrario:
“Qui devo gettare l’ancora, mi sono liberata, entrare viva nella luce,
che il mio corpo sia nel corpo solare, che il mio corpo sia come animale,
che il mio corpo sia il muro lavico delle crepe.
Grazie,
véronique
ogni volta che lo rileggi, ti sembra nuovo, dev’essere l’abbaglio della luce, molto bello.
un cortazar franco-partenopeo? comunque notevole prosa, per un poeta… e senza il rischio dell’odiosa prosa lirica
Rimasto secco – come con tutti gli altri Materiali. E il percorso mi sembra qualcosa, nel suo complesso, assai al di là della semplice “notevole prosa”. Fecondo e germinale, Andrea. Grazie.
Un saluto,
F.