Di Stormy Six e di popoli fratelli

stormy-six-1974

di Gian Paolo Ragnoli

Era il ’73, io ero spesso a Milano, dove mia figlia Marta sarebbe nata l’anno dopo, gli Stormy Six stavano passando da Wooody Guthrie a Stalingrado, tutto sembrava in movimento. Era anche l’anno in cui nella mia città, La Spezia, conobbi Rudi Veo e Giovanni Sturmann, assieme ai quali avrei fondato un gruppo di folk “militante”, il Collettivo Franceschi, ispirato dal primo Dylan, da Guthrie e dagli stessi Stormy Six. Di lì a poco avremmo incrociato le nostre storie con tutti quelli che giravano nel microcosmo della sinistra alternativa, che in fondo tanto micro allora poi non era. L’estate “importai” il pezzo a Levanto, dove i miei genitori avevano una casa per l’estate, e Palestina, come successivamente anche Compagno Franceschi, diventarono patrimonio comune dei compagni locali.
Nel settembre ’78 andai in Germania con alcuni di loro, eravamo come sempre senza una lira e allora ogni tanto ci piazzavamo in Marienplatz, a Monaco, io e Federico Ulivi, grande chitarrista e kindred spirit, attaccavamo con tutto il nostro repertorio militante, che bizzarramente gli indigeni trovavano divertente, e tiravamo su qualche marco indispensabile alla sopravvivenza, nonostante la calda ospitalità dei compagni tedeschi. Tutti loro all’epoca erano fissati con la nuova sinistra italiana, che vedevano come un modello, noi, già in pieno riflusso dopo le fiammate dell’anno precedente, cercavamo di spiegare che sì, era stato bello, a volte meraviglioso ma che ora c’erano solo macerie, carcere, repressione e depressione. Niente da fare, non ci credevano… In queste performance di strada l’unica eccezione rock, in una set list che andava da Rosso a levante e ponente a Stalingrado e ritorno (Palestina compresa), era costituita da Wish You Were Here, che a un certo punto Federico invariabilmente attaccava, e che attraeva ragazzine come mosche sul miele, visto che lui era bello, giovane, capellone, musicista e… italiano. Contraddizioni, certo, ma se ne potrebbe concludere che le nostre contraddizioni le abbiamo sempre vissute in pubblico, a viso aperto, spesso sfidando le incomprensioni e i rancori (o le invidie) del militanti “duriepuri”.
Avevo fatto girare una ventina di copie della Busta, la rivistina maodadaista che facevamo nel ’77 tra i compagni del circolo Rudi Dutschke di Levanto, tutti o quasi più giovani di noi e le menti più lucide e aperte, alcuni di loro a Monaco con noi, l’avevano apprezzata. Il nostro motto, preso in prestito da A/traverso, la rivista che Bifo e altri facevano a Bologna, era: “non sarà la paura della follia a farci ammainare la bandiera dell’immaginazione”.
Non fu quello infatti, ma furono i compagni morti o in galera, quelli diventati tossici o pseudo-guru arancioni, o peggio quelli velocemente riciclatisi in solerti, ancorché “creativi”, guardaspalle del potere. Fu il voltarsi indietro un giorno, ad un corteo, e vedere che le facce sorridenti e arrossate dei compagni che amavamo non c’erano più, erano rimasti solo quattro gatti decisi a far pagare a qualcuno, poco importava chi, la loro disperazione.

Sono passati trentasei anni da quando Umberto Fiori, il cantante degli Stormy Six, scrisse Palestina. Molto è cambiato, e non in meglio, compresa Al Fatah, ma le ragioni per cui fu scritta e cantata mi sembrano ancora dolorosamente attuali, così come il verso:
“al di là di questo mare c’è un popolo fratello
ogni lotta aiuta un’altra lotta”.
Ora che i popoli al di là di questo mare spesso sono condannati ad annegarci dentro, o a vivere da schiavi se arrivano vivi ai nostri confini sarebbe forse il caso di ricantarla, anche solo metaforicamente, e cercare di agire di conseguenza. Altrimenti, come ha scritto Woody Guthrie, succederà ancora, e ancora, e ancora che
“Radio said: They are just deportees”.

Palestina venne scritta nel 1973 da Umberto Fiori, allora un giovane militante del Movimento Studentesco milanese e apparve su un e.p. 45 giri della commissione artistica del Movimento Studentesco milanese. Ovviamente la bandiera rossa che è stata messa come immagine su Youtube, che è quella del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina, non c’entra nulla col testo della canzone che parla di quella di Al Fatah, (“abbiamo alzato il rosso, il verde, il bianco, il nero…”).
Palestina

“Laggiù nel Medioriente, come un bufalo ferito infuria il pirata americano
Ma nei campi, sulle dune, sono armati anche i bambini e ogni donna impugna il suo fucile
No, non fan paura i carri armati d’Israele: la tua terra tu la devi liberare…
Abbiamo alzato il rosso, il verde, il bianco e il nero, stretto in pugno la bandiera: i colori di Al Fatah.
Abbiamo alzato la bandiera partigiana della rossa Palestina accanto a quella del Vietnam!
Li chiamano “banditi” i giornali dei padroni che chiamavano “assassini” i partigiani,
Noi non crederemo ai bollettini israeliani, al tiranno giordano traditore.
Quante volte ci hanno detto “E` finita in Palestina.” e ancora cantavamo la canzone…
Abbiamo alzato il rosso, il verde, il bianco il nero, stretto in pugno la bandiera coi colori di Al Fatah
Abbiamo alzato la bandiera partigiana della rossa Palestina accanto a quella del Vietnam!
Al di là di questo mare c’è un popolo fratello: ogni lotta aiuta un altra lotta,
Ogni colpo sparato sul nemico sionista in Italia colpisce chi comanda.
Coi popoli in rivolta si muove oggi la Storia, Rivoluzione, fino alla vittoria!”

3 COMMENTS

  1. Mah… io, Anna L.B., comunista, nata nel 1961, trovo tutto ciò piuttosto retorico.
    I tempi sono cambiati, quel tipo di amore militante internazionalista si fondava su basi sia storiche sia culturali che non esistono più. Senza contare che evidentemente era debole, visto che è stato sconfitto in maniera così tremenda. Si legga “La ragazza del secolo scorso” di Rossana Rossanda. Le lusinghe del capitalismo – un po’ di finto benessere e l’idiozia in trionfo – hanno fagocitato il misero e “fascista dentro” popolo italiano. E alla mesta galleria citata da G.P. Ragnoli dei “compagni morti o in galera, quelli diventati tossici o pseudo-guru arancioni, o peggio quelli velocemente riciclatisi in solerti, ancorché “creativi”, guardaspalle del potere” non c’è che da aggiungere proprio quei quattro gatti di nostalgici.
    Ricantare le canzoni di quegli anni va bene per sentire un brivido di calore nella schiena, ok, e questo non si nega a nessuno, tantomeno a me che vado a Inti Illimani: però penso che la necessaria nuova rivoluzione non possa trarre nessun giovamento da sguardi all’indietro, ma vada veramente rifondata dal nulla e dalle macerie in cui ci troviamo. Ammesso di riuscire. E sapendo senza illusioni che è andato tutto a fanculo. (Mentre la nostalgia è sempre dolce e porta ad illudersi).

  2. Cara Anna, tu sei nata nel ’61, io nel ’50. Figurati se non lo so “senza illusioni che è andato tutto a fanculo”. Ne porto dentro i segni.
    Penso però che ricordare sia importante, non per ripetere la tragedia in farsa, come diceva quel tizio colla barba, ma per sapere chi siamo, da dove veniamo, che macerie abbiamo alle spalle, penso che possa servire anche a trovare una via per uscire dal pantano in cui ci troviamo a vivere.
    “There must be some kind of way out of here”, per dirla con Dylan.
    Un’ultima cosa: la nostalgia non è sempre dolce, spesso è invece amara, è un grumo di pensieri che ti blocca lo stomaco e ti ricorda che avrebbe potuto andare diversamente…
    Ciao

  3. ciao giambo, bel pezzo (letto ora), ‘mplimenti
    i tempi sono cambiati? certamente, dal punto di vista tecnologico la società dei consumi sta dando il meglio di sé… ma dal punto di vista socio-economico il vecchio capitalismo pare tornato indietro d’un secolo o due, quanto a sfruttamento, libertà e diritti sociali
    è andato tutto a fanculo? può darsi, ma si aveva ragione (ce lo dice la storia, anche se non gli uomini, che sono un po’ più lenti a capire)

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marco rovelli
Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.