Registro dei fragili
Una madre uccide il figlio. Il fatto di cronaca diventa lo spunto per una ricerca sul campo minato della normalità: con 43 canti che procedono a ritmo incalzante, a tratti perfino ipnotico, Alborghetti segue le persone comuni nei vari non luoghi di una provincia qualsiasi, i supermarket, le palestre, i giardinetti, per spiarne le scelte, i dialoghi, i sogni e le catastrofi.
«Fabiano Alborghetti è andato a cercare in posti pericolosi e terribili, rischiando ancora una volta di smarrirsi. Invece ha saputo riemergere, e riportare a galla questo Registro dei fragili; sembrerà strano a dirsi, ma si tratta di un gesto di speranza, nonostante tutto, di un gesto d’amore».
dalla prefazione di Fabio Pusterla
Canto 2.
Occorre l’ordine al vestire, occorre la coerenza
per l’inganno. Cosi ripeteva mentre a mani lisce tutto il bordo
della giacca a risalire, i risvolti, la camicia intonsa attorno al collo
troppo stretta eppure esatta per l’immagine allo specchio.
Un ampio gesto, un ritocco anche ai capelli
già perfetti nell’assetto e tutto il resto: perfezione ripeteva
offrirsi certi come il volto di quell’uomo imparato alla tivù.
Sono meglio a ben vedere, anche più vero:
guardava gli occhi nel riflesso, l’adesione
dell’immagine per il verso che voleva…
Anche la pelle era esatta nel colore, con il tono preso a tempo
nel solarium dietro casa. Perfezione ripeteva
e si mostrava sulla porta alla moglie già vestita.
Mano a mano senza dire. Non dicevano mai nulla. Troppo spesso
non trovavano che dire. E non trovava altre cose a ben vedere:
una ragione per restare soprattutto…
Canto 10.
Sognava il volo e un altro corpo e non diceva
quanto sforzo per trovare
quella forma da velina cui sapeva appartenere.
Molto prima di sposare era diverso
ma il parto lei capisce, è il parto che rovina.
Dallo step lo sguardo attorno rivolgeva per trovare
un solo sguardo che posasse su quel culo faticato, fatto magro
sulla dieta che diceva la tivù. Poi a casa un’altra dieta
cose bio per costruire più che il corpo quell’idea:
l’organismo era diverso molto prima di sposare
altro il corpo fatto meglio per l’età.
Niente intralci o imperfezioni
non contava neanche gli occhi che fermavano un suo sguardo
ripassare tra le forme sode e ferme
che scopriva poco a poco e di cui andava fiera:
ogni abito perfetto e scopriva l’ombelico
ribassava una spallina o le gambe accavallava senza pena o smagliature.
Guarda ora che disastro:
non più donna di un qualunque corpo sfatto
che vedeva giù al mercato. Non è questo il mio destino
ripeteva, meritavo altro destino
che un marito sempre assente ed un figlio che risucchia
ogni stilla e paragone… Continuava sullo step
insistendo il moto fermo, gli occhi chiusi nel pensare
che all’uscita se un incontro… Le varianti immaginava
senza figlio o sposalizio, senza altro che un volto, un qualcuno farsi avanti
per offrire la rivalsa, dare un senso alla fatica
ritornare in superficie coi polmoni doloranti…
Canto 17.
Stare attenti ad ogni gesto
cancellare la memoria al cellulare
era questo che premeva poco prima di rientrare
poco prima di rimettere le chiavi nel portone
risalire per le scale
ritornare col sorriso alla recita serale
con la cena, le notizie delle otto da seguire alla tivù
con i piatti già riempiti e mezza cena da finire
ritornare col sorriso, un accenno per un gesto
che veniva rifiutato….Si cenava con il film
gli occhi alti per lo schermo che aiutava a superare
almeno il tempo del contatto
delle forme messe accanto
a cibarsi d’altra forma, d’alimento e niente altro.
Lava i denti del bambino gli diceva a denti stretti
che sia a letto per le nove…
Canto 24.
Come gli altri anche loro certe volte se d’estate
il tempo regge, se d’estate con il sole: nel giardino la grigliata
con i tavoli le sedie con l’odore della carne
e il marito col grembiule con la birra che discute
mentre attorno coi vicini si ritorna sul lavoro, alle rate del pc
all’offerta che al super offre un nuovo dvd ma di quelli americani
e le mogli più discoste sotto il melo e dentro l’ombra
che si scambiano consigli tutte assorte dentro il ruolo
e a turno ognuna chiama con il nome il proprio figlio
che divincola nel prato a rincorrere il pallone
che lanciato contro il box fa tuonare la lamiera
manca poco che si mangia
poi a tavola per lungo con il vino quello buono
da provare nell’assenso di chi sa dove comprare
e le mogli in altre cose ed i figli
a metà pasto sono andati per giocare, sono intorno
già divisi per le cose da inventare, chi si arrampica sul melo
chi improvvisa la partita le magliette a far da porta
ed il sole va scendendo ch’è già ora di tornare. Solo dopo
la certezza che la vita è come un film, col giardino americano
con l’unione da famiglie come ha visto alla tivù e tutto torna a ben vedere
e non estingue in episodi…
Canto 35.
Occorreva l’attenzione e lo faceva da già da mesi
ritagliare dei mattini per andare a far l’amore
lasciare indietro tutti i pesi per tornare in superficie
dopo avere salutato il marito sulla porta
dopo aver lasciato a scuola quell’intralcio di bambino
dopo essersi vestita come fanno le veline
gli stivali a mezza gamba ed il panta coi decori
con gli occhiali a tutta faccia come ha visto alla tivù.
Se non fosse la famiglia quella forma di prigione, se non fosse
la famiglia a tenermi incatenata e s’aggrappava
al corpo amante come fosse una salvezza
e faceva poi l’amore senza chiudere mai gli occhi
come fosse che col buio ogni cosa poi scompare…
Poesie tratte da Registro dei fragili, 43 canti (Casagrande Editore, 2009)
Nell’immagine: Diane Arbus, A young Brooklyn Family going for a Sunday outing, N.Y.C. 1966
che belle!
è il ritmo incalzante di questi versi che non ti lascia fermare. Molto ben costruiti.
Una scrittura molto curata, lavorata nella ricerca di una ritmica precisa.
Chiaro l’ “oggetto di osservazione”, chiara la resa. Fabiano punta a una poesia che si dà al lettore in modo diretto, non lasciando spazio a nessun fraintendimento.
Eppure nel momento in cui si osserva non è possibile l’assetticità (e non sarebbe comunque auspicabile perchè totalmente incompatibile con la natura umana). L’esito è sempre frutto di una prospettiva, dell’angolazione dalla quale si sceglie di guardare le cose. Nelle poesie del “registro dei fragili” l’autore manifesta molti lati di se stesso proprio nel momento in cui si allontana dal proprio centro e focalizza la sua attenzione su una tematica difficile e coraggiosa come la famiglia.
Un autore serio che si approccia alla poesia in modo personalissimo ma anche una persona di rara generosità a cui faccio i miei complimenti.
invece mi chiedo se la fragilità di questi versi rispeto alla lirica che ci siamo trascinati dal 900, il loro essere crepati, insomma l’antilirismo – o il loro mancare, il loro non essere “belli” (già, nonostante 3 secoli di estetica è sempre facile dire “belli”) abbia un senso. insomma il necessario di una forma che spiazza. E la scelta non-fiction dell’oggetto.
In attesa di leggere tutti i canti (c’è del neorealismo pur sempre dantesco? ) mi viene in mente per contrasto: Aldo Nove, il suo Woobinda era già poesia verso la prosa ma la sostanza la trovo simile. Mi vengono in mente per contrasto sempre Aldo Nove, ma il suo “Maria”, tutta un’altra storia, alla lettera.
E mi viene in mente -e qui stranamente lo vedo più vicino – il Viviani de “La forma della vita”. Stop.
Cercherò il libro. E’ una scrittura assai potente, affine, per certi versi, oltre che all’ultimo Viviani, a precedenti come Pagliarani, il Raboni delle “Case della Vetra” o il Roberto Roversi delle “Descrizioni in atto”.
Splendido. Complimenti.
canto 2 è una poesia. cosa succede dopo non è chiaro.
Fabiano Alborghetti è, prima ancora di un ottimo poeta, una grande, cara persona; lo dico perché non sempre i due aspetti combaciano, e quando lo fanno, è un dono del cielo. Fabiano, da anni, sta sondando le sconfitte e gli inganni di questa nostra società ostaggio dei diktat estetici e morali della televisione, e sa farlo con la naturalezza di una parola che sgorga limpida, mai ammiccante o forzosa; “Registro dei fragili”, per ciò che ho letto, mi sembra l’opera della sua maturità, in più c’é quel “fragili” che amo: lo siamo tutti, ormai, anche se nessuno sa ammetterlo; per questo sento la poesia di Alborghetti un canto all’onestà della parola, all’onestà umana, quella sì mai fragile, in chi ancora ci crede.
Un grande abbraccio, Fabiano; fiero di esserti amico, e sodale. Fabio F.
Fabiano è antilirico, non credo vi possano essere dubbi. Il suo linguaggio è semplice e diretto, arriva al lettore con potenza e fascinazione, soprattutto per l’esattezza del suo dire, del significare.
“…. e tutto torna a ben vedere/e non estingue in episodi…”
In queste poesie la famiglia, le cose “minime” della vita quotidiana sono descritte con un crudezza e un realismo davvero convincenti e sottendono una riflessione attenta e precisa nonché una padronanza sicura della forma, che rende le poesie ancor più intriganti.
liliana
ringrazio tutti per la splendida attenzione. Sono quasi in imbarazzo e dico (scrivo) sul serio.
Grazie anche per la ricerca di paragoni/epigoni che possono ravvisarsi nella mia poesia, come anche annota il Pusterla nella sua prefazione (ora dovete scoprire chi annota….)
Una richiesta a “temptative” . Puoi definire meglio, per cortesia, darmi/darci una tua analisi che a me farebbe piacere? Però firmati, che l’anonimato non permette un buon dialogo.
Come sottolinea Fabio Franzin, Fabiano è prima di tutto una persona non comune per disponibilità e profondità, e mi riesce dunque più difficile essere obbiettivo nei confronti del suo lavoro. Ho avuto la fortuna di leggere Il Registro dei Fragili nella sua quasi totalità, e proverò comunque a dire ciò che penso.
Come già accadeva nel lavoro precedente di Fabiano, L’Opposta Riva, si tratta di una raccolta che ricorda i concept album musicali di moda più in passato che oggi: scegliere un tema che è un tema importante e svilupparlo nella sua interezza, seguendo un percorso emotivo e razionale insieme. L’attenzione si sposta sul privato, su una famiglia ma potrebbero essere tante famiglie, la famiglia in generale. Fabiano va oltre all’interesse emotivo, ma studia, scava, cerca, in qualche modo impara i suoi soggetti. E poi, solo poi ne scrive. Lo fa come un documentarista attento per certi versi, ma un documentarista che utilizza immagini e forme della poesia. E’ vero, dunque, che non si tratta di poesia lirica, ma il rischio del documentarismo (appunto) viene evitato perché ci sono gli squarci e le aperture improvvise che capovolgono la prospettiva, anche in una realtà che è estremamente (terribilmente?) vicina a quella che molti di noi vivono come quotidiana. Mi sembra un equilibrio difficile da raggiungere e difficilissimo da sostenere per tutto il lavoro, e invece Fabiano lo fa.
Della forma mi colpisce la ricerca ritmica che trasforma il testo in una sorta di rap recitato. Questo no, non antipoetico perchè presenta riferimenti nella tradizione, ma anche qui continuamente in bilico tra una ricerca lessicale e metrica molto rigida e la libertà di espressione necessaria per lo scrivere poetico. Anche in questo senso mi sembra che Fabiano abbia lavorato tanto nel tempo, e sia giunto a scavarsi una sua lingua, che ha presto l’immagine della scrittura, fino a farla diventare naturale.
E’ chiaro che amo molto il Registro, ma in poesia non vale e non basta dire “bello”. Allora dico che secondo me, per ciò che esprime e per come lo esprime, questo è un lavoro importante, che magari alcuni apprezzeranno (spero molti) e altri meno (spero pochi), ma che anche per questi ultimi si pone come termine di paragone e confronto e giustifica il tempo necessario per affrontarlo.
Francesco t.
“preso” l’immagine della scrittura
ft
Stare attenti ad ogni gesto
cancellare la memoria al cellulare
era questo che premeva poco prima di rientrare
poco prima di rimettere le chiavi nel portone
risalire per le scale
ritornare col sorriso alla recita serale.
due terzine “facili” ( nel senso di apparentemente chiare ) che dipingono una scena abbastanza familiare e, ugualmente, carica di presagi non chiariti, ambigui. Resta come un senso di mistero intorno a questi versi, che potrebbero raccontare per ognuno un unica storia, metafora della assurdità del nostro quotidiano. Pochi versi che raccontando qualcosa altro si fanno allo stesso tempo emblema per noi stessi di una verità.
L incipit è un lampo, arriva quasi come un ordine, un consiglio, o un rimprovero, un memorandum sulle piccole cose da fare nel giocarsi la vita, anche se in maniera cosi amara , restando incompresi, incomunicabili, assorbiti dentro ogni sè.
La scelta dei verbi all infinito aumenta questo disagio nella comprensione. Il lettore è sempre soggiogato a tendere l orecchio a un discorso altro, metaforico, che l autore sta rivolgendo a lui. Se per un verso sembra di seguire sulla scena un personaggio, preso in media res, in una storia il cui inizio si è già svolto nel passato ( è stato l autore di un delitto, ha commesso un peccato, una colpa?) e che sta per proseguire nel racconto delle sue azioni, dall altro è come se stesse confessando al lettore le sue oscure colpe. Quali sono queste colpe se non le colpe stesse che ognuno di noi commette verso l altro, prima tra tutte il tradimento? Il tradimento di per se, verso se stessi e verso gli altri, il tradimento di una vita incompiuta, vissuta senza coraggio, un peccato di vita ridotta a scarto, a recita. Quello che dice questa poesia è insieme il racconto di una banale commedia vissuta nella quotidianità e, sotteraneamente, l emblema drammaticamente comune di una colpa.
Che sia presente questa ambiguità sotteranea, come un secondo discorso che ronza dietro quello apparente riportato sulla pagina, è da rinvenire, ad esempio, oltre che nella scelta dell infinito, cosi efficace, a mio parere, nel lasciare il lettore sospeso in questo stato di ambiguità, nell uso del ritmo. La stessa musicalità dei versi rende al meglio la possibilità di imbastire un altro discorso taciuto, sotterraneo e metaforico. Il ritmo piacevole, quasi melodrammatico ( quasi tutti ottonari ?) duplica il contenuto rappresentato. Lo sdoppia, lo rende ridondante. L intreccio “facile” delle rime esterne ed interne, la leggerezza del ritmo sono tutti meccanismi volti a realizzare questo effetto. In fondo un discorso cosi semplice quale la descrizione di un azione si sarebbe potuta ottenere in maniera piu lineare. Il ritmo invece costringe a riconsiderare ciò che si è appena letto. Parole come gesto, memoria, premeva diventano come azioni ripetute eternamente.
Quasi si prendesse gioco delle vite rappresentate, le canzonasse, le umiliasse, è segno che in realtà vorrebbe raccontarci un altra storia a noi più prossima, ma non possa farlo, se non nascondendosi . Meglio usare una musica carezzevole per raccontarci ancora ciò che di rado siamo disposti ad ascoltare.
stare attenti ad ogni gesto
cancellare la memoria
al cellulare era questo
che premeva poco prima
di rientrare
poco prima di rimettere
le chiavi nel portone
risalire per le scale
ritornare col sorriso
alla recita serale.
Ottonari sì, che danno / al testo un andamento rap, / come bene dice France’. / Eppure io non capisco: / perché sminuzzare i versi, / no/made, per poi farli tutti / sghembi? / [piuttosto: stare attenti ad ogni gesto / cancellare la memoria al / cellulare era questo / che premeva poco prima / di rientrare // poco prima di rimette- / re le chiavi nel portone / risalire per le scale / ritornare col sorriso / alla recita serale.]
confermo che ho usato quasi sempre doppi ottonari, a volte franti, per quasi tutta la raccolta.
quasi tutti ottonari… infatti tra le righe si possono notare variazioni ritmiche come senari ed endecasillabi, che appaiono a scatti durante la lettura e che fugano il rischio della monotonia dovuta al profluvio del doppio ottonario per tutta la raccolta.
Poi, più che al “andamento rap” preferisco pensare al melodramma.
Quello che colpisce è lo spessore umano, la volontà, la capacità di raccontare, di far poesia, di mettere le mani nella realtà qualunque essa sia senza preconcetti.
E a questa attitudine, a questo bisogno e necessità, Fabiano riesce a dare voce, più voci. Costruisce col tempo una poesia puntuale ed efficace al progetto che ha in mente. Dote che ammiro molto!
La sua poesia mi arriva concreta, ritmica, quasi stereofonica. Un verso complesso, stratificato, denso che restituisce però piena musicalità. Un “pieno” per parlare di vuoti, di mancanze, di identità deprivate.
La ricerca di paragoni, di influenze è da prendere come gioco in attesa di leggere per intero il libro? Non so, fare nomi, gettare dadi, dire Whitman per il verso…c’è da dire che ne L’opposta riva per il progetto, per “l’oggetto indagato” mi hai ricordato Ben Jelloun e i suoi emigrati sradicati, alle pareti della solitudine dove veniva violentata l’identità in toto: le radici, il passato e il futuro, la sessualità.
antonio b.
Gli apparentamenti suggeriti da Enrico De Lea mi sembrano molto appropriati. Raboni però usava un ritmo meno puntuale e più disteso a un colloquiare più avvertito e talvolta ironico-mortifero. Ma le tematiche di Alborghetti sono comunque quelle lombarde, milanesi e novecentesche. Qui Fabiano alza di molto il senso della musica-nenia, che non perde mai la chiusa identica, ad ogni fine canto. Dal poco che ho letto, ne traggo un’impressione di immarciscente miseria umana. Questa coloritura, forse, è la cifra maggiore dell’opera.
Ciao, Fabiano.
Complimenti.
Gianfranco
Ancora e ancora, grazie per l’attenzione e per le parole di apprezzamento. Non è stato un lavoro semplice (come fu per L’opposta riva, molto è stato vissuto sul campo e di persona) ma l’apprezzamento -qui ed altrove- mi fortifica e spinge avanti.
Grazie, grazie a voi.