Le due lune
di Alessandro Mazzoncini
Pacini Duilio, detto Cartaccia, per la prima volta in vita sua ebbe pietà di sé. Pensava:”Certo che è brutto morire soli come cani.” La tosse era diventata un nodo che gli toglieva il fiato, le logge, che per quella notte erano la sua camera, facevano da cassa armonica e il suo rantolo rimbombava per tutto il rione da ore.
“Io non ce la fo più!”, pensò l’eroe. E scese. Chissà quante altre volte gli era venuto in mente di farlo, in tutto quel tempo che era stato appollaiato lassù nel mezzo della piazza che portava il suo nome.
“Tanto” si disse “chi vuoi che passi a quest’ora. E con questo tempo.”
Gli era piovuto in faccia tutto il giorno e poi s’era levata una gran tramontana a spazzolargli la schiena. Sì, l’avevano allogato proprio bene: sole fisso negli occhi e acqua anche – che in quel posto era sempre lo scirocco che la portava – e spalle al freddo, lui che era sempre in camicia. Come mise piede a terra, fatto com’era di metallo e dentro vuoto, si sentì leggero e pesante insieme. Come succede ai briachi. Mosse qua e là la testa per dar sollievo alle sue povere spalle e s’inarcò all’indietro per sciogliere il filo dei reni, anche se di ossi e muscoli gli restava ormai solo il ricordo, come quando davvero cavalcava un cavallo e non un baldacchino dalla forma equina, che, sempre per abitudine, ammonì:
“E te non ti muovere di lì!”
Quello, inchiavardato com’era al basamento di marmo, non si spostò d’un millimetro e lui, avvezzo un tempo a comandare, se ne compiacque.
Si girò, la parte della piazza che non conosceva gli garbò di più di quella che aveva sempre di faccia. Una dozzina di dattere, in mezzo un’altra gran palma di cui non sapeva il nome, e poi panchine e una vasca.
“M’hanno sistemato proprio a spregio.” pensò “E magari, a sentir loro, dovrei sentirmi anche in debito di riconoscenza.”
Ancora quella tosse, che gl’impediva il libero corso dei pensieri. Veniva di sotto le logge di una palazzina che, in fondo a sinistra, limitava la piazza.
Mosse alcuni passi, pesanti e incerti e si chinò a guardare.
“Ma questo muore!” disse tra sé l’eroe. Era sgomento. Non sapeva come prestargli aiuto e non poteva né chiedere soccorso né niente. Allora prese, lo tirò su e se lo mise in collo.
“Oh, benino!” fece Cartaccia, che la camicia di bronzo pareva diventata morbida come velluto e quelle braccia calde, come se ancora dentro ci scorresse il sangue. Non gl’importò più neanche delle sue sporte, che teneva sempre in mano, anche nel sonno, ed erano rimaste abbandonate sotto le logge.
Vide la luna che stava ferma nel cielo e poi ne vide un’altra che, tremula, si specchiava nella vasca e a ogni istante sembrava sul punto di rompersi. Appoggiò il capo alla spalla del gigante e si addormentò.
Quel fagotto di cenci del Pacini lo trovarono morto stecchito, abbarbicato in cima al monumento, le braccia strette intorno al collo dell’eroe. E ce ne volle a tirarlo giù.
“Pagherei per sapere” disse una guardia, mandata sul posto per allontanare i curiosi “come ha fatto a montare fin lassù.”
Quello che conosceva la risposta neanche lo sentì. Sguardo fiero, le briglie in una mano e l’altra chiusa a pugno appoggiata su un fianco. Aveva altre cose per la testa.
Bello.
la visione, il riflesso che fa da ninna nanna a quel sonno, l’ultimo, fra le braccia di un solido compagno, basta un gesto per non sentirsi soli… la compassione. Grazie Alessandro e Francesca
Complimenti molto bello!
Curioso il punto di vista, bella come fiaba, da raccontare o raccontarsi..
Mi fa pensare come a volte l’immaginazione possa con potenza inspiegabile andare a colmare i vuoti di solitudine, fino a renstituire vita al metallo.Questa è la bellezza dello spirito umano, che si incarna in ogni forma e infonde il suo calore ovunque si apre uno sguardo sincero sulla verità dell’uomo. Grazie