Giuseppe

di Maurizio Salabelle

A metà febbraio iniziò una fase in cui tutti noi soffrimmo molto spesso di sonnolenza. Le giornate, che si erano fatte molto più calde di quanto sarebbe stato invece normale, si susseguivano luminose ed ognuna identica alla precedente. Per esigenze di lavoro riguardanti nostro fratello ci trasferimmo in un appartamento in una zona chiamata «Orientale». In questo punto della città, che le linee degli autobus disdegnavano ed in cui mancava un Pronto Soccorso, vegetammo settimane senza riuscire affatto a sentirci a casa. Con stupore ci rendemmo conto che le ore di «relax» duravano qui il doppio che da altre parti. I nostri orologi di metallo, non coincidendo quasi più con gli orari che trasmetteva la radio, subivano spesso delle soste che contemplavamo senza discutere. Nostro padre considerava questo fatto una concessione offertaci da gente ignota, tramite la quale la nostra famiglia usufruiva di pomeriggi più lunghi. Verso il tramonto, quando la radio comunicava che le trasmissioni finivano, tutti noi constatavamo con sorpresa che in casa nostra era ancora giorno.
«Dovrebbero essere le 7 e 20», sussurrava nostra madre sollevandosi un lembo di manica, «e qui da noi c’è ancora un sacco di luce».
Non molto prima delle otto i nostri sudici apparecchi diventavano esatti di nuovo. Cercando di fare ciò che pensavamo venisse fatto negli altri quartieri ci sedevamo nella cucina e guardavamo il telegiornale serale. In quel momento nessuno di noi riusciva a capire che succedesse. Fino alle nove, quando la mamma metteva in tavola un gigantesco vassoio di pasta, ciascuno di noi eseguiva calcoli complessi facendo però finta di pisolare. Le nostre gambe in quegli istanti giacevano flaccide davanti alle sedie, disegnando ombre aggrovigliate che somigliavano a strani arnesi. Esaminandoci l’un l’altro ed enumerando somme terribili, per varie ore tentavamo di comprendere il perché di quegli enormi «surplus di pomeriggi».

A quell’epoca mia sorella Maria Paola non si vedeva quasi mai in casa. Quando la sera ci riunivamo ed iniziavamo a condire i ravioli, dopo aver spiegato una tovaglia dello stesso disegno del pavimento, notavamo che al suo posto si spalancava un vuoto mai visto prima. Dall’espressione di nostro padre intuivamo che la cena sarebbe iniziata più tardi del solito. Per un po’ ci osservavamo di sottecchi alludendo con cenni a quel posto vuoto, come se facendo in questo modo nostra sorella sarebbe apparsa. Davanti ai piatti di ravioli scorrevano minuti interminabili in cui evitavamo tutti di far rumore. Senza far vedere che eravamo in ansia tendevamo le orecchie al corridoio sperando di sentire la porta sbattere. Alle nove e dieci, però, uno di noi diceva con tono soffocato che non c’era più da aspettarsi nessun evento.
«Per stasera Maria Paola non verrà più», faceva appoggiando la forchetta ed allontanandosi triste. Il posto vuoto si trasformava in una voragine e ci impediva del tutto di deglutire.
Mio fratello Federico chiamò quest’epoca inusuale semplicemente «periodo brutto». Ogni giorno, girovagando per le camere dove cercavamo l’occorrente per lavarci i denti, sia io che lui constatavamo con tetraggine che Maria Paola non era in casa.
Lui stesso ci rivelò due giorni dopo il reale motivo di queste assenze.
«Maria Paola si è fidanzata», disse buttando sopra il tavolo un foglio di carta unta e macchiata. Dalle sue frasi smozzicate riuscimmo ad apprendere qualche notizia sull’individuo insolito che aveva scelto. Nostro padre, che attraversava in quel periodo un momento piuttosto difficile, definì il ragazzo di Maria Paola semplicemente «una nullità». Facendo finta di chiacchierare di faccende senza importanza ci riferì che lo incontrava spesso in un bar frequentato da camionisti. Quando parlava di questo giovane durante le nostre monotone cene (e dopo che in bagno avevamo trovato certe sue lettere piene di errori) si trasformava completamente assumendo l’aria di un depravato.
Uno di noi trovò la foto di uno sconosciuto infilata nel blocco di mia sorella.
«Dev’essere lui; dev’essere il fidanzato», spiegò mia madre sospirando e buttandola sul piano del tavolo. Vicino ad un margine scolorito, a due centimetri dalla cravatta indossata da quest’individuo coi baffi, leggemmo il nome di «Giuseppe» stampato in caratteri color carne. Federico, che ne osservò i baffi spettinati con un apparecchio da specialista, diagnosticò una malattia dalla quale secondo lui era contaminato.
.Si tratta di un’infezione di “germi neri”», disse indicando i suoi lineamenti con una matita appuntita. «Non so che manifestazioni provochi né quale sia la prognosi: l’unica cosa che so è che dà a tutte le facce un’espressione insana».
Quando le assenze di Maria Paola diventarono meno frequenti, un mese dopo, iniziammo a vedere quel Giuseppe che si aggirava tranquillo per casa nostra. Tutte le volte che arrivava, aggiustandosi una giacca che definimmo subito orrenda, nostro padre si ritirava nel suo studio facendo credere a tutti che aveva ospiti. Federico, che trascorreva l’intero giorno sopra una sdraio verde in giardino, evitava sempre di incontrarlo per non essere contagiato dai germi neri. Durante il tempo delle visite io e nostra madre stavamo seduti nella cucina ascoltando brandelli di conversazione. Sia Maria Paola che Giuseppe parlavano un idioma che non capivamo, e che avevano imparato velocemente assorbendo gli influssi dell’isolato. Nella zona di città dove avevamo la casa si parlava una lingua che da un po’ indicavamo col termine di «schiacciata». Nelle botteghe in cui entravamo, dove individui di duecento chili ci servivano enormi tranci di carne, il dialetto che si usava era infatti composto di parti non combacianti.
«È semplicemente un “puré di frasi”», ci spiegava Federico tutte le volte che lo interpellavamo a proposito.
Cercando di cogliere in qualche modo quell’assurdo flusso di logorrea, certe sere stenografavo su un foglietto un’antologia di termini incomprensibili. Nostra madre teneva d’occhio l’orologio non vedendo l’ora di coricarsi, e lasciando cadere parti del corpo in letarghi brevi che la sfiancavano.
Molto presto notammo tutti che Giuseppe soffriva di «attacchi di inettitudine». Per interi pomeriggi quest’uomo fissava un punto della parete con le braccia che pendevano come morte. Nostra sorella cercava in maniera disperata di indurlo a proferire qualche parola, ad eseguire qualche gesto o ad emettere un colpo di tosse, non riuscendo a trovare in alcun modo una ragione plausibile del suo stato. Tutti noi lo osservavamo inebetiti ogni volta che gli passavamo vicini, e lo definivamo crudelmente «un paio di baffi corrosi».
Una sera, dopo una visita di Giuseppe trascorsa nel più perfetto silenzio, nostro padre chiamò Maria Paola nel suo studio e le espresse il suo disprezzo per l’individuo.
«Il tuo ragazzo non ha alcun senso», affermò perentoriamente leggiucchiando un appunto sbiadito. «Spesso mi chiedo cosa significhi, e mi accorgo che in realtà non significa nulla. Quando pronuncio “Giuseppe” nella mia camera, soprattutto la mattina appena sveglio, mi sembra di pronunciare una parola che non ha per niente personalità».
«Qual è il suo stato sociale, infatti?» domandò. «Che lavoro fa? Da che tipo di famiglia proviene? Chi sono i suoi genitori? Ho notato che non ne parla mai. Infatti, siccome avrebbe da vergognarsene, evita sempre quest’argomento come se non avesse una sua famiglia. Ma in realtà è del tutto marcio. Giuseppe, se mi è permesso dirlo, è completamente corroso dalla sua malattia. Dentro, con ogni probabilità, costui è vuoto: è una zucca priva d’interno. Non riesce nemmeno a muovere le braccia perché le sue sono braccia prive di personalità: potrebbero essere definite tranquillamente “due prosciutti” od “alcuni chili di carne”».
Il giorno dopo comunicò davanti a tutti di aver proibito per sempre quella relazione. Chiamando di nuovo Maria Paola nel suo studio ingombro di carte (dove ci aveva convocati tramite un annuncio di Federico) dichiarò serio che da allora in poi non avrebbe più voluto vedere Giuseppe in casa.
«Quell’individuo non deve più venire», disse scandendo le parole come per darci il tempo di stenografare. Nostra madre osservò la faccia di Maria Paola che sembrava priva di sensazioni. Aveva estratto una sigaretta dal fondo della sua larga borsa di cuoio, e guardava il babbo a bocca aperta come cercando con sforzo di decifrarlo. Federico lasciò cadere sul pavimento lo stetoscopio metallico che aveva in mano.
«E se io lo volessi vedere lo stesso, nonostante la tua proibizione?» proferì nostra sorella facendoci diventare tutti paonazzi. Dai nostri posti vedemmo gli occhi della mamma che si spalancavano terrorizzati. Ciascuno di noi, pensando ad una pellicola di spionaggio vista molti anni prima in un cinema, immaginò una tragedia familiare in cui uno dei membri veniva ucciso. Federico, che non avendo più in mano il suo apparecchio si sentiva estremamente impacciato, disse qualcosa che non capimmo e si allontanò in silenzio dalla scrivania. Seguimmo subito il suo esempio e ci ritirammo ognuno nella propria camera.
Nei giorni seguenti quel Giuseppe continuò a venire spesso per le sue visite. Tutte le volte che arrivava, preceduto da una risata esageratamente stridula e vacua, sentivamo sbattere le porte e girare chiavi dentro le toppe. Nostro padre si chiudeva subito nello studio dicendo di dover scrivere ad uno zio.
«Non ho nessuna intenzione di vedere quel tipo», diceva ogni volta che uno di noi lo pregava di uscire di camera. Anche la mamma, che non aveva mai idee sue e seguiva gli umori del babbo, si rifiutava cocciutamente di cucinare i cibi che le proponevamo. Durante le ore in cui c’era Giuseppe eravamo tutti nervosissimi ed incapaci di compiere azioni. Alle otto e mezzo, quando erano ormai parecchie ore che nostro padre non si vedeva più, cominciavamo a preoccuparci perché la cena non era pronta. Sporgendo la testa dal corridoio scorgevamo Giuseppe e mia sorella tranquillamente seduti sul divano, intenti a discutere di quanti con un’inimmaginabile dimestichezza. Il fidanzato citava pieno di sussiego certe opere che noi non conoscevamo, ma di cui intuivamo vagamente l’enorme importanza tecno-scientifica. Sopra la bassa scrivania c’era una serie di matite che ci irritava profondamente. Mia sorella, che disquisiva di argomenti che aveva fino ad allora ignorato, parlava uno splendido italiano in cui non c’erano tracce di dialettismi. L’inconsueta metamorfosi dei due ci provocava degli orrendi cerchi alla testa.
In queste occasioni aspettavamo con angoscia che quel ragazzo goffo si dileguasse. Nostro padre a un certo punto iniziava a percorrere i corridoi, dicendoci stridulo di andare a tavola e ignorando i saluti dell’individuo. Alle nove passate, quando il portone veniva chiuso e mia madre si infilava il grembiule, aveva luogo una breve cena durante la quale non fiatavamo.

Il racconto è stato pubblicato in Riga 6, a cura di Marco Belpoliti e Andrea Palazzi, 1994

Rimando anche a questa bella riflessione dell’autore sul romanzo

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francesca matteoni
francesca matteonihttp://orso-polare.blogspot.com
Curo laboratori di poesia e fiabe per varie fasce d’età, insegno storia delle religioni e della magia presso alcune università americane di Firenze, conduco laboratori intuitivi sui tarocchi. Ho pubblicato questi libri di poesia: Artico (Crocetti 2005), Higgiugiuk la lappone nel X Quaderno Italiano di Poesia (Marcos y Marcos 2010), Tam Lin e altre poesie (Transeuropa 2010), Appunti dal parco (Vydia, 2012); Nel sonno. Una caduta, un processo, un viaggio per mare (Zona, 2014); Acquabuia (Aragno 2014). Dal sito Fiabe sono nati questi due progetti da me curati: Di là dal bosco (Le voci della luna, 2012) e ‘Sorgenti che sanno’. Acque, specchi, incantesimi (La Biblioteca dei Libri Perduti, 2016), libri ispirati al fiabesco con contributi di vari autori. Sono presente nell’antologia di poesia-terapia: Scacciapensieri (Millegru, 2015) e in Ninniamo ((Millegru 2017). Ho all’attivo pubblicazioni accademiche tra cui il libro Il famiglio della strega. Sangue e stregoneria nell’Inghilterra moderna (Aras 2014). Tutti gli altri (Tunué 2014) è il mio primo romanzo. Insieme ad Azzurra D’Agostino ho curato l’antologia Un ponte gettato sul mare. Un’esperienza di poesia nei centri psichiatrici, nata da un lavoro svolto nell’oristanese fra il dicembre 2015 e il settembre 2016. Abito in un borgo delle colline pistoiesi.