Memoria del presente
di Andrea Cortellessa
Siamo qui con questo Meridiano aspettando suo Fratello. Come all’incipit celebre («Siamo qui a Fiumicino…») di Fratelli d’Italia: che del tanto atteso volume è naturalmente magna pars (e fosse riportata – come degli altri libri – l’ultima versione, i Fratelli «quarti e supremi» di trent’anni dopo, ci sarebbe voluto un Meridiano tutto per loro…). È quindi tempo di farci i conti, con Arbasino: proprio come l’opus magnum prometteva di «fare infine i conti col proprio paese, mimando le contraddizioni più deliranti della realtà italiana attuale con “estremi rimedi” percettivi e linguistici». Nasceva così l’attitudine «antropologica» di Arbasino, che gli ispirerà (maiuscoli) libri a venire come In questo stato e Un paese senza, per non parlare degli scintillanti scritti di viaggio e di memoria (primo fra tutti, per oltranza, Marescialle e libertini).
A mezzo secolo dall’Anonimo lombardo (che declinava in chiave metaromanzesca, epperò struggente, la lezione del Gadda dell’Adalgisa) abbiamo finito per leggere insomma, quelli di Arbasino, come libri di storia. Non solo nel senso che hanno «fatto la storia» (condizionando, a partire almeno da Tondelli, più o meno tutti i narratori che contano). Sono libri che ci dicono, se non tutto, moltissimo: dell’euforia funerea, e della fervida malinconia, degli anni del Boom. Accumulandone con la propria mimesi dell’«italiano parlato», di prodigioso virtuosismo, un’inesauribile banca-dati verbale. Del resto lo stesso Arbasino, nel presentare il suo primo libro «saggistico» Parigi o cara, gli preconizzava un interesse a venire «in quanto testimonianza notevolmente vasta di avvenimenti e di umori di una determinata epoca, i late Fifties». È questo solo uno degli infiniti documenti (spicca il prezioso inserto iconografico, con le copertine di tutte le edizioni) procurati dalle cure di Raffaele Manica: di gran lunga il critico più sintonizzato cogli umori di Arbasino, le sue passioni, i suoi tic incorreggibili. E che nel ricchissimo saggio introduttivo non manca di sottolineare le occasioni, e le aporie, di questo «doppio passo».
Basti pensare al «Siamo qui» incipitario. Dov’è – o meglio quand’è – quel qui? Siamo nei late Fifties pressoché live del ’63, nel ’67 già pop, o camp, della seconda Feltrinelli, nel ’76 dell’austerity Einaudi, nel ’93 del Monumento Adelphi o nel 2009 dell’iper-accessoriato Super-Monumento attuale (che chiude il cerchio – circolare, sin dall’origine, la struttura del romanzo – tornando all’improntitudine «à bâton rompus» della princeps)? Precipitiamo così nell’odissea-labirinto dell’Arbasino riscrittore di se stesso (oltre che di tutto il resto): non il primo (appunto Gadda, e prima di lui Manzoni, avevano gettato le basi), certo il più debordante e paradossale della nostra letteratura. Già, perché quel Siamo qui del ’63 – microparticella da cui esplode un big bang di milioni di parole – valeva, in origine, il più risoluto programma di «presa diretta» col presente. Dopo i fitzgeraldiani e proustiani racconti delle Piccole vacanze, coi quali nel ’57 esordisce ventisettenne pronubo Calvino (che però mette da parte il racconto più lungo e meno «pulito», Il ragazzo perduto – poi L’Anonimo lombardo – «per evitare inopportuni tralalà forensi»: ricorda l’Autore nella scintillante Cronologia, in cui la voce sua e quella di Manica fioriscono duetti degni della Norma e dell’Adalgisa belliniane…), Arbasino annuncia infatti di voler «“catturare il presente” così come da Proust in poi da decine d’anni si tenta di “recuperare il passato”».
Veniva così rovesciato il per molti motivi inaggirabile Proust (in una Via Proust di Milano, non a caso, si consumavano le estasi dell’Anonimo col suo Roberto…): il quale finirà col prendersi, però, la più clamorosa delle rivincite. Quando appunto, esauritasi la vena coi non irresistibili «meta-romanzini» (definizione d’autore) degli Anni Settanta, Arbasino passerà a «una certa manutenzione delle memorie lontane»: appunto industriandosi a rinsaporire, speziandoli di dettagli e precisazioni, i passati exploits. In Parigi o cara aveva detto che quella di Proust era stata una «lotta contro il Tempo», ma negli ultimi trent’anni abbondanti è stata proprio la sua – come quella dell’«Historia» per l’Anonimo manzoniano – «una guerra illustre contro il Tempo». Illustre quanto paradossale: perché a posteriori irriproducibile, nella sua flagranza e fragranza, sarà sempre il siamo qui di allora. Lo ha detto lui stesso degli ultimi Fratelli: «Anche, inevitabilmente, un “memoriale” funebre […] per i luoghi e le facce e le parole e gli aspetti fisici» che «si trasformano, anzi vengono distrutti, con una rapidità senza precedenti, e ormai apertamente straziante». Il miracolo dell’Anonimo e dei Fratelli, di portare a temperatura di fusione l’Aneddoto sentimentale del «racconto» e la Congerie di annotazioni «saggistiche», non si ripeterà più. E la coda di Arbasino, per quanto lussuosa, finirà per assomigliare proprio a quella del Manzoni che del suo «misto di storia e d’invenzione» s’era deciso a bandire l’invenzione: della storia, cioè, il vero «sugo».
Con arguzia Manica riporta una celebre degnità dell’Autore: e non si può davvero negare che Arbasino, dopo la fase della «brillante promessa» e quella del «solito stronzo», da tempo abbia raggiunto – con pieno merito – lo status di «venerato maestro». Ma il paradosso in cui vive ormai da decenni, ammirevolmente, a me ricorda piuttosto un suo inciso già di vent’anni fa: «avevo degli amici, quegli amici sono diventati delle edizioni complete, dei comitati, dei convegni, e io mi sento molto solo».
L’articolo è apparso il 14.10.2009 su Tuttolibri.
Se solo la baby boom generation italiana avesse seguito di più coetanei autori come Barbasino, oggi non avremmo così tanti lugubri sessantenni lettori di Libero et similia
:i barba asini
fabiandirosa è dada
Alcor, forse volevi dire: ‘f.. è stato dada in questa occasione’. ‘Comunquista’ sarebbe più corretto ancòra