Il Libro delle streghe
di Joyce Lussu
La terra dei miei padri (non delle mie madri, che vengono dal nord, dal paese dei Pitti) è la Marca meridionale, ai piedi dei monti sibillini, dove aveva sede la sibilla detta appenninica o cimmerica, la cui immagine perdurò più a lungo di ogni altra immagine sibillina nella mitologia dei poveri e nella curiosità degli acculturati; più a lungo della sibilla cumana o di quella delfica, o delle tavole sibilline distrutte da Stilicone dopo un millennio di permanenza nel Campidoglio. La sibilla appenninica continua ad essere presente, non solo nell’oralità popolare ma nella cultura scritta; nel municipio di Visso, vi sono tuttora i ritratti di dodici sibille, giovani belle e ridenti nei loro abiti multicolori.
Le antiche memorie sibilline, narrate ancora oggi da vecchi analfabeti col ritmo poetico di una costruzione sapiente, servono a fare storia, a recuperare culture sommerse ma non defunte, sconfitte ma maggioritarie, diverse da quelle delle minoranze di padroni e di guerrieri; a ricostruire rapporti sociali e modi di produzione, a riannodare fili d’intelligenza creativa e di saggezza capace di tessere maturazioni e proiezioni nel futuro. Perciò, siccome sono appassionata di storia, e dovunque vado cerco di capire dove sto, perché ci sto e che è la gente che mi trovo attorno, anche in luoghi nuovi e mai visti, cerco le sibille e i vecchi analfabeti, per fare storia.
In Africa, giravo alla ricerca degli ultimi griots, gli storici-poeti itineranti della gente bantù, che di villaggio in villaggio raccontano, in un lungo poema ritmato, le vicende degli antenati, l’epopea gioiosa del quotidiano, l’incalzare delle sciagure. Andavano, con questa nostra parola sulle labbra, perché anche in bantù la radice del verbo andare è “anda” o “enda” (chi sa, se in tempi molto antichi, non abbiamo parlato la stessa lingua?). Poveri griots (che in Angola si chiamavano semplicemente “i vecchi” ed erano sempre accompagnati da due giovani discepoli), ormai quasi scomparsi, perseguitati prima dal colonialismo bianco, ma non meno dai nuovi poteri progressisti. Questo dei griots era argomento di aspri litigi tra me e il mio amico rivoluzionario Agostinho Neto. “Sono residui tribali e fomentano il tribalismo”, diceva Neto con disprezzo. “Qui dobbiamo costruire uno stato e una nazione angolana, e il tribalismo è il nostro peggior nemico.”
“Che nazione,” strillavo io indignata, “ quando le frontiere di questi nuovi stati sono state disegnate a tavola, dopo un pranzo troppo abbondante e troppo vino di porto, da qualche plenipotenziario britannico o francese ubriaco al Congresso di Berlino! E perché parli in tono dispregiativo di tribalismo, quando in Europa per gli stessi identici fenomeni parliamo con rispetto di autonomie, di recupero delle culture etniche locali, di democrazia reale da costruire in stati multinazionali, non accentratori-repressivi ma coordinatori di diversi? Io,” concludevo sentendomi in quel momento tutta sarda, “sono tribale.”
Anche in Medio Oriente, trovandomi a preparare, per la rivista “Problemi di socialismo” di Lelio Basso, un breve saggio storico sui curdi, popolo quanto mai sventurato e altamente civile, andai alla ricerca di sibille e di poeti. Avevo sentito parlare del vecchio poeta Gegherxhuìn, che significa Cuore-ferito (anzi, letteralmente, fegato-ferito, perché il fegato, e non il cuore, è per i curdi la sede delle emozioni e della sensibilità); con questo soprannome, era conosciuto nel Curdistan siriano e in quello turco, in quello persiano e in quello iracheno, e aveva passato la vita a cantare la storia e i sogni del suo popolo in migliaia di versi scritti e non scritti, ma mai pubblicati o tradotti in altre lingue. Lo trovai in una catapecchia di mattoni crudi alla periferia di Camishlé, una cittadina del nord della Siria, ai confini con la Turchia e con l’Irak. Ci arrivai con il fango fino al ginocchio, perché pioveva a dirotto e le strade non erano lastricate. Il vecchio, con la sua regale aureola di capelli candidi, i suoi occhi chiari pieni di malinconica onestà e il suo sorriso allegro e giovanile, mi aspettava sulla soglia, e mi fece entrare nel suo stambugio, dove c’era una brandina militare, con sopra una coperta tessuta a mano, un tavolino di formica con due sgabelli, un catino di ferro smaltato con la brocca, e una stufetta a petrolio con su una teiera fumante e profumata; e fogli sparsi dappertutto, e ammucchiati alla rinfusa in una cassetta a listelli di legno, come usano da noi quando si raccolgono i carciofi. Dopo i convenevoli, e i coloriti tentativi d’intendersi sui problemi dell’universo con un misto d’inglese-levantino, tedesco classico (Gegherxhuìn aveva passato due anni a Lipsia in gioventù), marchigiano-curdo, il poeta, con l’altera semplicità di un principe che sceglie nel suo scrigno una gemma per farne un dono all’ospite, tuffò la mano nella cassetta dei carciofi e ne trasse un foglio che m’offerse: vi erano tracciate cinque strofe, due versi lunghi e uno breve; e prontamente mi detti da fare per tradurle in italiano:
Mi svegliavo dal sonno, quando vidi un mercante di rose.
Ne fui tutto felice. Mi dai, gli chiesi, una rosa
una rosa in cambio del cuore?
Avevo un cuore solo, pieno di miserie e di tristezza.
Non credevo che avrebbe dato una rosa per il mio cuore
una rosa per il mio cuore…
Che c’entra, mi si può chiedere, la rosa di Cuore-ferito con il saggio sui curdi per una rivista marxista? Eppure, mi è servita di più a capire la loro storia che non una statistica sui capi ovini e caprini nel territorio che sta tra Erbil e Sulemanyie. Ma appunto, come ricordano sempre i miei amici accademici, io faccio storia in modo selvatico e inurbano, e non potrei mai aspirare ad una cattedra universitaria.
Arrivando in Sardegna, dove s’imponeva il mio innesto su un tronco dalle radice non mie, cercai, come prima e necessaria operazione, di capire la storia del popolo sardo. Quando andai a Nuoro, Raffaello Marchi mi parlò della sibilla barbaricina.
“Non è una bruxa,” mi disse, “come quella di Urzulei, che fa venire il carbonchio ai cavalli e infila gli spilli nei pupazzetti di mollica di pane. E’ una tiina,” una divina o divinatrice, che conosce anche le erbe benefiche e l’arte di guarire le ferite o riacconciare gli ossi; cerca sempre di prevenire i furti e le violenze, ammonendo, con intuizione puntuale, che sta archittettando in segreto una mala azione; la sua sapienza è sempre volta al bene e alla pace. E’ una donna straordinaria. Se vuoi, ti presento.”
Fu così che mi recai ad Orgosolo, e andai a bussare al portone di Elisabetta Lovico.
Nello splendido costume orgolese (sul corpetto turchino spiccavano i ricami aurei di seta naturale: per ottenere una matassa erano stati allevati dei bachi col gelso piantato nel cortile; la sbuffante camicia scollata era di puro lino, tessuto dagli steli dei fiori azzurri coltivati nell’orto; il fazzoletto da testa multicolore non era annodato sotto il mento ma ripiegato sopra il capo, sulle onde di capelli color mogano, lasciando liberi il collo e la fronte e le orecchie dai lunghi pendenti d’oro), nelle sue vesti festose Elisabetta, col seno prospero e i gesti vivaci delle braccia rotonde sotto le larghe maniche rimboccate fino al gomito, con gli occhi ridenti e la voce squillante e la schietta risata che scopriva i denti forti, era l’immagine stessa di una vitalità prorompente. “E’ tutta, lei,” fu il mio primo pensiero. “E’ una donna intera.”
E’ abbastanza raro trovare una donna veramente intera. In generale, alle donne hanno sempre tolto qualche cosa: autonomia, autorità, identità. Portano i segni di adattamenti forzosi, di rinunzia a una parte di se stesse, di mortificazioni secolari, di mutilazioni profonde, di violenze subite che generano paure, inganni e meschinità. In Elisabetta non vi era nulla di tutto questo. Aveva autonomia, autorità e identità; e le usava bene, non per sopraffare, ma per aiutare la sua comunità, in maniera interamente femminile, diversa e opposta al potere patriarcale e guerriero; come le sibille delle antiche società comunitarie. Mi balzò in mente l’immagine delle dodici sibille di Visso, così simili a lei nel portamento fiero e ridente.
Come Angeruta, Elisabetta non era cristiana. Non andava in chiesa e non temeva il prete. Mentre il prete temeva lei, e non osava criticarla che sottovoce, nel buio della sacrestia; ma mai era giunto a criticarla apertamente, a “leggere la sua vita” in chiesa durante la predica domenicale, come faceva per gli altri avversari.
Cercavo di capire quale fosse per Elisabetta il massimo sistema, il rapporto con l’universale. Rispondeva alle domande con immediatezza e abbondanza, seria o sorridente, ma senza mai farsi importante e compunta; il suo discorso era laico e solare, senza reticenze, misteri o angolini bui. La difficoltà era il suo orgolese stretto, parlato con tambureggiante rapidità, di cui molti termini mi sfuggivano; allora mi rivolgevo a Raffaello paziente e accorto interprete. Elisabetta parlava di una legge universale di giustizia, che riequilibrava instancabilmente le fratture e le contraddizioni tra le azioni costruttive e le azioni distruttive, tra la vita e la morte. Questa legge la chiamava con un termine che suonava come “perogno,” di cui nemmeno Raffaello sapeva darmi una spiegazione.
Dopo due ore di conversazione durante le quali si parlò di tutto, finalmente ne venimmo a capo. Il “perogno” era il Libro, la parola scritta. Quale Libro? Elisabetta era analfabeta. Un libro molto antico, ci spiegò, perché prima, in tempi molto antichi, le donne sapevano leggere e scrivere; poi avevano disimparato, e si erano tramandate oralmente le parole del Libro. E che cosa c’era scritto nel Libro? La legge, rispose Elisabetta, la legge della giustizia per tutti gli uomini e tutte le donne. Era un libro simile a quelli che aveva il prete? “No no no,” si ribellò Elisabetta, “è un Libro tutto contrario a quello dei preti, che ingannano la povera gente, la gente che non sa. È il Libro della Sapienza. I preti non hanno Sapienza.” E perché si chiama “perogno”? Perché è la sigla iniziale del Libro, per riconoscerlo fra tutti: perogno seculu secloru. Finalmente capimmo: il Libro cominciava con una frase latina, per omnia saecula saeculorum. Che libro era? Forse saremmo riusciti a scoprirlo, ma rimandammo ad una prossima seduta.
Elisabetta aveva un marito e sei figli. Il marito era un uomo dai capelli grigi, dall’aspetto mite e riflessivo. Nella grande cucina, stava seduto su una sediola bassa accanto al focolare, e attizzava il fuoco, guardandoci ogni tanto con uno sguardo acuto e partecipante ma senza aprire bocca, salvo che per le cortesie d’uso. I figli, robusti pastori dal volto bruciato dal vento sotto il berretto tondo, andavano e venivano senza una parola, dopo il primo saluto. Era Elisabetta, con i suoi colori sontuosi e la sua voce sonora, che riempiva tutto l’ambiente.
“Quando ci sono ospiti parla lei,” mi disse Raffaello, “ma poi in famiglia parlano molto tra di loro e hanno un rapporto affettuoso e civile. Ma in paese, il marito di Elisabetta è soprannominato su mìnghinu, il miserello.”
Nell’altro risvolto della comunità orgolese, quello patriarcale e maschilista, un vero uomo, l’uomo della balentìa e delle bardane, l’uomo che stupra anche la moglie (la vergine tremante che le vecchie gli mettono nuda nel letto per la prima notte di nozze), non avrebbe mai sposato una tiina; anzi, spesso non si sposava affatto, per non rischiare di mettere a confronto il suo potere di maschio armato con la contrapposta autorità della donna disarmata ma sapiente e padrona di sé.
Mi tornarono in mente le leggende sibilline del Tannhäuser e del Guerrin Meschino, dove il guerriero iniziato alla virilità col rito del sangue e della morte cerca l’altra cultura, quella in cui le donne hanno diritto al proprio corpo e alla propria vita e alla gioiosa convivialità comunitaria; ma poi si ritrae, e il venerdì vede le donne gentili e colte che vorrebbe amare trasformarsi in mostri; invece chi si trasforma in mostro è lui, quando si accorge che il suo potere basato sulla sopraffazione e la violenza verrebbe annullato, se accettasse la civiltà che gli offrono le sibille; infatti parte per le crociate, a seminare stragi, stupri e distruzione, con la benedizione del papa e dell’imperatore. D’altronde il termine bardana (in toscano medievale gualdana, dal germanico wald) ha un’origine strettamente legata ai rituali maschilisti-militareschi del feudalesimo: nell’Italia centrale le gualdane erano squadre di gente d’arme semisciolte dalle discipline centrali, armate con armi d’accatto, che seguivano gli eserciti e venivano usate da questi per le scorrerie sul territorio e le azioni irregolari particolarmente efferate “a preda e guasto.”
Il maschio della balentìa e delle bardane ha come complemento la femmina degli ittitus e dei lugubri scialli neri che nascondono anche il mento e i capelli, la donna in perenne lutto, la prefica delle veglie funebri in cui si esalta la virtù dei veri uomini, l’aberrante catarsi della morte data e ricevuta. Elisabetta apparteneva a una Sardegna meno tragica e più umana, a un altro filone storico, a una scelta diversa, perdente ma non ancora cancellata.
La sua scienza divinatrice non aveva nulla di magico e di misterioso. Era la preveggenza dell’esperienza e del buon senso, basata su una conoscenza totale della sua comunità, individuo per individuo, e su un’attentissima capacità di osservazione. Percepiva tutti i linguaggi che non sono solo parole, ma gesti, atteggiamenti, espressioni, tensioni, sguardi, movimenti minimi delle labbra, delle mani, di tutto il corpo, che rivelano l’onda delle emozioni e dei pensieri. Un uomo ossessionato da una volontà omicida o che pianifica nella sua mente il furto abile e pericoloso di un gregge, non è identico al se stesso di prima. Elisabetta captava questi mutamenti e cercava d’intervenire e prevenire, non direttamente, perché sarebbe stato inutile, ma usando parabole simboliche e allusive.
“Gliel’avevo detto,” raccontava, “al segretario comunale, che una delle aste di ferro del balcone del municipio non era più al suo posto, come se si fosse contorta durante la notte. Gliel’avevo detto, che era un cattivo presagio, e che era per almeno tre giorni non uscisse di casa, non si muovesse dal paese. Non mi ha dato ascolto. L’hanno ammazzato vicino al suo orto, a tre chilometri sulla strada di Nuoro.”
“Ci sono stati tanti ammazzamenti, qui ad Orgosolo…”
“Qualcuno sono riuscita ad impedirlo, gli altri li ho sempre saputi prima. Ma non mi hanno dato retta… Ho impedito anche dei furti, ho fatto ritrovare il maltolto… Sabato è venuto da me un vecchio contadino, ha solo un pezzetto di terra e un giogo di buoi, vecchi come lui. Glieli avevano rubati. Gli ho detto dove poteva ritrovarli, ora è contento…”
Anche in questo caso, non vi era certamente nulla di magico, ma un accurato calcolo delle probabilità. Se però come divinatrice era spesso inascoltata, molto apprezzata era invece la sua scienza medica, frutto di una secolare accumulazione di esperienze e di esperimenti. Lo stesso medico condotto mandava da lei pazienti con fratture e lussazioni, che lei rimetteva a posto con massaggi e unguenti, senza ricorrere all’ingessatura. (Quando seppe che mia madre si era rotta il femore ed era diventata un’invalida permanente, non si dava pace, e lo disse a Emilio che era di passaggio ad Orgosolo: “Se me l’avvesse portata l’avrei fatta guarire! I medici l’hanno rovinata!” Il che era poi abbastanza vero). Guariva le ustioni gravi e le ferite infette, conosceva le erbe medicinali e preparava decotti, pozioni e impiastri per le malattie più varie, calmanti per l’insonnia e le tensioni nervose, tisane per la pressione alta, colliri per gli occhi e tante altre cose. Su questo, come pure sul Libro della Sapienza, mi ripromettevo di parlare più a lungo in visite successive; ma non potei mai farlo, perché improvvisamente, ancora bella e giovanile e prosperosa e ridente nei suoi abiti splendidi e coloriti, Elisabetta morì.
Io pensai che l’avesse fatto apposta, che si fosse stufata di vivere in questo mondo di bardane e di eroi ottusi e assassini, e avesse scelto di mettersi a dormire.
Tornai ad Orgosolo non molto dopo, a cercare le sue memorie compiute, di cui avevo potuto intravvedere una così piccola parte. E mi trovai di fronte a un muro. Orgosolo (non solo gli amici del prete, ma i compagni marxisti-leninisti) l’avevano dimenticata e la volevano dimenticare. Anzi se ne vergognava, come Agostinho Neto dei suoi griots, e cercava di sminuirla e calunniarla. Gli antropologi, sociologi, etnologi, rivoluzionari alla Feltrinelli che accorrevano da tutte le parti (Orgosolo coi suoi Tandeddu e i suoi Mesina era allora molto di moda tra gli intellettuali di sinistra) s’immergevano con delizia nel romanticismo sanguinolento delle maschie vendette e dei funebri ululati delle prefiche. L’immagine energica e umana di Elisabetta, coi suoi colori squillanti e le sue risa, era seppellita tre volte.
La vidi riemergere anni più tardi, nelle ragazze dai capelli al vento e dai golfini rossi che marciavano su Pratobello per contendere a militari e militaristi i loro pascoli e le loro querce millenarie. Allora, con Raffaello Marchi (che era anche lui un barbaricino dell’altro filone storico, un uomo mite e gentile con sempre un lampo di allegria negli occhi, nonostante la miseria e gli acciacchi) tessemmo l’elogio tardivo di Elisabetta.
“Era una donna meravigliosa,” mi disse. “Ho tanti e tanti appunti su di lei, sulla sua cultura sarda, della Sardegna più vera, calpestata. Devo scriverci un libro. Lo intitolerò La sibilla barbaricina.”
Ma non lo scrisse mai, perché anche lui andò a dormire sottoterra, in una bara economica, finita di pagare parecchi mesi più tardi.
Il testo è tratto da “Il Libro delle streghe” di Joyce Lussu pubblicato nel 1990 da Transeuropa.
Potevi almeno scrivere JoYce, però.
Mi piace il lato buoi, misteriosa, come velato del tempo che è passato. Mi sembra che viene come incantata la figura della strega, della bruja.
Era la saggezza della parola strappata al mistero del mondo, la donna come interprete della parola da trovare nel centro della natura, nel cuore delal rosa, nel centro del cielo. Era una parola selvatica, poetica, notturna.
Grazie a Maria Luisa per il post. Non ancora visitato l’antro della Sibille, ma mi lo prometto.
Bellissimo, lunghissimo ma se ne vorrebbe di più, quasi. E sicuramente mi cercherò il libro.
Ho la curiosità (un po’ cretina) di sapere se Gegherxhuìn in curdo, alla lettera, chiedendo la rosa “in cambio del mio cuore” chiedesse “in cambio del mio fegato”.
E’ interessante la storia del perogno, la prospettiva della femmina oppressa ha fatto invertire alle streghe il mito di Theuth.
Sì, trattandosi di campagna è giusto che sia un lato piuttosto bovino.
Ma, per completezza, ricordo che ci sono anche gli ovini e i gallinacei.
una scrittura *femmina* per una storia *femmina*, grazie Maria Luisa, V.
Elisabetta e’ una parte di tutte quelle noi nella quale ci siamo riconosciute. E rappresentarla nelle nostre azioni quotidiane e’ un modo per farla vivere per sempre. Non temiamo di farlo. Grazie
Sì penso proprio che la “stregoneria” di Elisabetta, come lo sguardo di Joyce Lussu siano parte di noi, di una parte lunare, *femmina*, ma come dice la Lussu stessa libera, autonoma. E’ questo che mi ha colpito di questo testo, come degli altri racconti sulle sibille, le streghe che raccolti nel libro. Da questa lettura è partita una mia ricerca personale sulle “streghe” che abitavano le montagne fino a pochi decenni fa e delle quali ci sono in circolazione video con interviste, testimonianze, oltre a racconti vari conservati negli archivi storici locali.
Joyce Lussu l’ho “scoperta” da non troppo tempo, ma purtroppo da un tempo sufficiente ad aver letto molto del trovabile di ciò che ha scritto… purtroppo perché ogni volta che ho messo sotto gli occhi un suo testo è stata una sorpresa, ed ora mi manca perdermi e seguire la sua voce. Sì, sentivo le voci quando la leggevo :-)
Mi fa molto piacere trovarla qui pubblicata!