Appunti sul prato
di Mariasole Ariot
L’ultimo prato che ho visto
Evidentemente il ricordo ha una traiettoria in salita. Il prato è a quattromila metri d’altezza, il lago al centro come un punto di raccolta dell’immaginario, ci sono donne invisibili che danzano – l’unico animale disteso al fuoco ascolta il rumore della goccia.
Le lacrime ad alta quota formano laghi vecchi millenni.
Un prato che non ho mai visto
Il primo prato era un sogno. Ci si arrivava percorrendo un terreno a zolle che pareva aiutare i passi ad evitare la ripetizione, oltre ogni linea. Nessun rumore. Nemmeno i rimbalzi del gioco sulle teste dei giovani pulcini, né il rumore del mare lontano. Diceva: continuiamo, Mariasole. Il mare è poco oltre il dirupo.
Sapevo che era morto. Tornava sempre così, i primi tempi. Poi un giorno ha lasciato la coppola sulla sedia impagliata e se n’è andato.
Se il mare è poco oltre il dirupo, perché non ci buttiamo giù dal dirupo, nonno? Non faremmo prima?
Che c’importa di fare prima? Il mare ama la pazienza. Credi che a lui piacciano i tuffi dei ragazzi?
L’uomo, va risvegliato. Il mare non ha bisogno di questo.
Quel prato era un pretesto, era l’attesa e la fatica prima dell’acqua. Io saltellavo, giravo attorno, raccoglievo piccoli frammenti d’erba e di corteccia, intrecciavo i fiori alle formiche, le prendevo per mano.
Camminammo per ore, fino alla dimenticanza, al punto in cui io non sapevo più cosa stessimo cercando e lui poteva finalmente ridere senza l’interruzione dei perché.
Stiamo salendo, dice il nonno. Lassù giocheranno.
Li vedo, li posso vedere! Ora salgo!
Era una parete scoscesa, una piccola collina d’erba a cui si poteva salire solo sostenuti da un corda – e una corda, in sogno, è il filo leggero che si tira dai baccelli di pisello. Io non ho forza. Arranco, aggrappo, tiro – e ad ogni passo sprofondo, retrocedo, il nonno bestemmia, bestemmio anch’io, il nonno piange. Io no.
E ora che dobbiamo fare? Il giro stabilito. Il giro, il giro lungo. Le barche ci aspettano.
L’ultima scena è un campo da calcio ed io con la palla sulla punta che vortico e vortico e piroetto. E mentre il gioco si fa intento, qualcuno grida: Sole! Mi avvicino alla rete, spingo l’occhio, l’udito e tutto ciò che sta nel mezzo. Lui è lì, con la sua coppola e le mollette ai pantaloni per non bagnarli. Ma ci entra tutto. Senza neppure girarsi. Né tornare.
Un prato visto da un altro
Il Signor X ha le mani fasciate e il cuore cupo, gli occhi aperti, spalancati. Al prato c’era arrivato dal centro della terra, riemerso quasi per un errore, l’intuizione che dagli Inferi spinge a cercare l’alternativa. Tende la mano, l’erba è soffice, i fiori piccole increspature del terreno. La bellezza è a colori e non ha sangue.
Conosco solo ciò che conosco. Ancorato, so solo questo, il mio inferno di fuoco, l’acceso, i megafoni e le urla. Conosco solo ciò che conosco, ancorato. Resto, vado.
E ora che il Signor X ha scelto di uscire – e vede i fiori, e la nube bianca, e la corolla, non ha mani per raccoglierle. China il capo all’ultimo tronco, congiunge le bende, e comincia a pregare di poter tornare là dove non c’era fiore, né prato, né bellezza, là dove le mani fasciate potevano almeno nutrire la speranza del fuoco.
L’aria che respiro
Oggi è inverno. Nella casa dai soffitti bassi l’aria è immobile poco sopra la mia testa. Stenta a scendere, resta sospesa, mi chiede di tendere il collo al primo respiro. L’aria è polvere. La sintesi della sua mancanza.
Descrivi il tuo respiro
Il mio respiro è convesso, ritmico solo quando si apre per pensare al successivo. Quanto vorrei, fosse liquido, aria addolcita e mescolata agli umori. Vorrei fosse aperto, accogliente, il mio respiro trema, perennemente in attesa di uno spazio cavo a cui poter attingere un po’. Aria. Dove c’è l’aria c’è la possibilità della gioia.
Descrivi un prato
Aprile era appena scivolato via. I bambini dei sottoscala giravano in tondo alla ricerca di chi s’era nascosto. C’era solo spazio aperto, il verde chiaro che attendeva la sfumatura dei fiori. Non c’erano alberi né rami, né animali da cortile. Un unico spazio deserto però vivo, lucente, ché solo ad un luogo pieno è possibile il nascondiglio.
Per parlare dei prati è necessario parlare d’infanzia, come se entrambe le cose vivessero l’una dell’altra, indissolubilmente legate. Amanti perfetti.
molto belle, Mariasole! l’immagine del prato che diventa acqua (il lago, le lacrime, il mare) e soprattutto quello che dici sull’infanzia. Un luogo apparentemente “piatto”, aperto su cui tutti credono di sapere molto. Ma che pullula di nascondigli e vite segrete.
Per avvicinare il luminoso cammino di Mariasole, il cuore si apre in un immensità di miraggio verde. Il prato si metamorfosa in cieli d’infanzia,con colori, forma del sogno. Il prato è la forma della scrittura
poetica, con erbe in salita e ombra di mare che vuole la pazienza.
Il corpo disteso è all’orrizonte del passaggio dal vivo alla morte, dalla vita
al nuotare nel prato, di liquidità si parla.
Il respiro è il soffio trovato per quello che si ferma, ascolta il corpo
nella sua armonia, e forse il suo dolore.
Magnifico!
bella mariasò ;)
Un brano, una serie di brani, che mi aveva già emozionato altrove, in un altrove che ora non è visibile, ma ancora esiste.
Prato. “Per parlare dei prati è necessario parlare d’infanzia, come se entrambe le cose vivessero l’uno dell’altra, indissolubilmente legati. Amanti perfetti.” Eppure. Non ricordo. Ricordo vigne. Ricordo alberi. Cerco di ricordare. Prato. Dove andava a lavorare mio padre, ma. Città. Prato, no. Sempre qualcosa, nel mio ricordo, i filari di viti, alberi, piante, olivi.
(Noto: Appunti sul prato, Appunti dal parco. Ariot-Matteoni)
Ma sarà che la parola, prato, non la usavo. Non so.
Da quando ho cominciato questo commento è passato. Va beh.
Lascio una canzone.
http://www.youtube.com/watch?v=t5HsQsmJsRY&feature=related
che belle volte quelle tra i fili d’erba e il respiro. le descrizioni minuziose, quelle però sotto i polsi, tra i paesaggi infantili. La scrittura di Mariasole, adesso verde schiarita come in sogno diluita, mi ha colpito a primo incontro.
e la scritta con su scritto
sui prati ” vietato calpestare i prati”
brava MS
effeffe
Grazie Mariasole. Questi testi spostano su altre dimensioni, quelle della memoria. Leggo e rivedo il prato davanti a casa. Non lo vedo, lo rivivo proprio.
Rivivo il vedere l’erba alta, più alta di noi quattro che correvamo in mezzo sotto gli occhi vigili di mia madre dal balcone di casa. Una madre che se poteva scendere anche lei si perdeva nei profumi di quel prato che ci sembrava immenso. Noi avevamo la sicurezza infantile di diventare invisibili e senza corporeità. Pensavamo di non lasciar tracce e che i corridoi aperti dai nostri passaggi si sarebbero richiusi come i labirinti fatati delle fiabe. Chi trovava l’erba cucca mordeva il gambo e sentiva il sapore aspro dell’erba, che valeva come acqua, conquista, prova di sopravvivenza. Ci si chiamava così da un’invisibilità nascosta all’altra. Poi si doveva tornare alla realtà dei doveri, dei grandi. Quando arrivava il contadino e scopriva il prato tracciato da corridoi di corse e sedute era un unico turpiloquio, urlato in modo che potessimo sentirlo bene. Lo guardavamo come se fosse uscito dal bosco, lupo mangia-bambine, rottura della magia, incapace di partecipare al nostro gioco e di capire di avere a che fare con un prato magico.
Si cammina nell’erbe lunga e si sente all’alba del mondo
Maria Luisa :-)
aria. una boccata d’aria. grazie.