da “Schema”

di Adriano Padua

PARTI 5-8 (DEL SEGNO)

5. La porta spalancata sui testimoni oculari, addetta a introdurre. Propositi tutt’altro che saldi, paure ai linguaggi, nelle nostre radici parole, in trascurabili immaginazioni, nelle quali s’accumulano i particolari, si moltiplicano, danno forma alla parte del senso, è importante, non seguire le tracce. Appartenere, mentre intorno s’incide la storia, non è un fatto assoluto commesso dai corpi sconnessi. Ciascuno sta, come un giocatore, un’insidia visibile, giustificando in qualche modo la sua partecipazione. Alle estremità l’animale e la strada, l’arredamento invece è dentro, ci circonda, con i giochi riusciti.

6. Questo caso è la nostra realtà e non attrae dall’esterno. I soffitti raccolgono fermi il silenzio, in balìa come noi, che percorriamo insieme tratti stretti, fortuite vicinanze, gridiamo messi in mezzo, guardando il meccanismo separato, e l’oro in superficie. Davanti alla diversità di ogni singolo, immobili, ci neghiamo la parte soggetto, parlando degli stati delle cose, siamo falsi. Circoscrivere delitti entro le chiuse, a versi convocati da un udire di misteri. All’indomani trarre l’arma e astenersi, nei passaggi di luce che sono progetti, sul presente e le sue variazioni, le scale. Questo finché ulteriore andare noi, che perlomeno si finisse altrove, in teoria negato, un attimo due volte, s’inoltra nell’interno, di ampiezze limitate, annega nelle fosse. Il dire è un replicarsi, in altro materiale.

7. Non si può indurre il tempo ad essere superfluo. Il metodo è la parte della lingua, del sangue artificiale, ricreato, in sedimentazione. Nel luogo in cui soltanto erano stati, e moriranno anche, in un vagare al margine, nel nero di una notte impressionabile, tremante. Significava casa. È come un’irruzione permanente, ed un continuo sbaglio ma da fermi. Potrebbero parlare, cambiare gravità. Ora varcano specchi, producono dei suoni, percepiscono. Si mostrano e analizzano questioni, credono ingenuamente di fuggire. Scandiscono momenti, automaticamente, nell’inconscio, e ancora non si muovono. Il mutamento intorno, privo di lineare progressione.

8. Io vorrei costruire la parte del nome, fatta d’acqua. Qui sono un segnale anche le pietre, sembriamo nella casa, crollata del silenzio. Consideri gli aspetti, rifletti, risuona unica e sola una parola vaga. E liberi frammenti dalla carta, fuori davvero fuori, fino a qualsiasi vuoto. Non esiste altro modo, che so, di chiamarti. Sei un’assenza precisa, sei sostanza ed effetto, di un complesso di gesti. Quando esplodi cristallo, nello stesso frangente, reagisce lo spazio a contrarsi, e ci disintegriamo, senza oltre.

*

PARTI 9-12 (DEL SENTIRE)

9. Evitano ancora conseguenze, ma sono troppo chiare. Avesse mai un motivo, la notte, di terminare ora, sarebbe per enigma, o congettura. Il corpo si pronuncia nelle impronte, compromette. Abita la parte della morte, e l’immaginazione che deriva, la contiene. Ascoltano uragani, entrandovi in coesione, desiderando farlo, nel movimento suono. Non sono mai coincisi, e devono nascondersi. Ricavano dal vuoto le parole, negli incavi in cui stanno incastonate. Lo fanno con le mani.

10. Il vero poterlo non deve. Bastato inutilmente, è stato all’improvviso. Il ragionamento non è respirare, a cosa può servire, se scivola la stanza dalla casa. Praticamente a niente. E nonostante esista, la certa consuetudine, unire le parole è esperimento, proviene dalla parte della bocca, ancora da più dentro. Ogni sconfitta un chiodo, un ricostituire, di lei, la conoscenza. Lottare, procedere all’assalto, avere l’espressione, aggiungere la sillaba. Sviarsi del percorso, opprimere le rime, seguire la frattura. Resta come inspiegabile ma resta, resiste tutta questa ostentazione. Le prospettive vanno ribaltate. In mezzo alle rovine. Non ho versi.

11. Da miglior via distanti, forti e fisici, forzato questo nulla, questo assolutamente incompatibile , buio con i tuoi occhi. Sono profondi e simili, c’è dentro l’indomani, ogni sua deviazione non in più. Il tempo non puoi scardinarlo, è una molla, da cui tutto scatta, si scatena. Contiamo l’ammontare della strage, la stanza è semiaperta, c’è il solito silenzio, è questa la sua parte. Tu strangoli parole a conclusione, in descrizioni semplici, svanisci ed è qualcosa di perfetto. Non posso fare niente, sono io.

12. Guardavano sparirsi, dalla stessa finestra, e l’animale parla, non ragiona. Ovunque è la parte del suono, si chiudono sportelli, e vibrano i congegni. Essere e non vivere, con le aperture ermetiche dei pazzi, disorientando la conversazione, e l’ordine perfetto. L’aria deve ricevere ferite, noi perdere abitudine. Ancora, girano serrature, nell’eco si sofistica la notte, i modi sono tanti, della ripetizione. Qualcosa ci percorre, siamo strade.

6 COMMENTS

  1. Jacques Roubaud

    ”…uno scivolamento sempre più sensibile verso una fase (terminale?) dell’evoluzione formale: quella in cui il verso stesso non è più considerato necessario. Aveva già la tendenza, negli anni novanta del secolo defunto, l’ho constatato spesso, a sparire, alla lettura, nella dizione di numerosi poeti, che leggevano le loro poesie come fossero prosa, prosa ornata retoricamente dalla voce, poiché bisogna far ben vedere che si tratta di poesia. In queste condizioni, perché non comporre direttamente in prosa? La poesia, lo si può riscontrare in particolare nei poeti più avanzati in Francia o negli Stati Uniti, si fa allora con piccole prose corte, ma non visibilmente narrative: l’assenza di una trama narrativa netta è dunque il segno distintivo unico dell’appartenenza al genere della poesia.”

    (traduzione di Valerio Cuccaroni su “Absolute Poetry”)

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.