l’ustione
(ragionamenti sui tempi)
di Gianluca Cataldo
Sono capace di dimenticare tutto quello che conosco restando avvinghiato a un’intuizione, al senso generale perdendo dettagli e sgranando la precisione nel mettere a fuoco determinati concetti. So che alcune cose sono giuste, so che alcuni libri sono capolavori e altri meno. So che La pelle narra di uno scorticamento e che Roth può scrivere cinquanta pagine sulla fabbricazione di guanti senza annoiare neanche un produttore di stivali. So che la farfalla di Dinard vola dal mio letto al suo passando per sveglie acquistate in mercati rionali e conosco il sapore del manzanillo perché l’ho bevuto. Non è affatto infuso di carrube, è un semplice frullato di barbiturici e se non ti uccide porta davvero via il ricordo di tutto, il ricordo di quanto io sia stato intelligente, di quanto io sia intelligente, anche se non abbastanza da non finire sul divano, come ogni volta che lei dormiva da me, da non trasformare tutto in un esercizio cattolico quando lei si schiacciava a me e io rimanevo inerte e immobile, inchiodato dalla sorpresa, inchiodato dall’incertezza in una situazione incredibile. Lei era un’ombra tridimensionale incalzante e io non in lei ma quasi, quando ogni singulto era un insulto alla lealtà e ogni muscolo un monumento allo stoicismo. A pensarci bene ho da sempre un’inclinazione alla redenzione. Ho redento la mia religione e l’ho resa origami di sacre scritture, dal momento che per diventare santo la congregazione per la dottrina e la fede richiede due miracoli, come se uno non fosse, di per sé, già abbastanza miracoloso. La chiesa è il volto umano di dio e l’unico con il quale siamo tenuti a discutere, con il quale siamo tenuti a negarlo. La mia azione di ribellione è asintomatica, è una semplice frase interiorizzata: “io non credo”, senza incappare nel fatale errore di un ti. Ho smesso di peccare nell’esatto momento in cui ho elaborato questa frase. Da quel momento le parole hanno assunto un peso differente e al fonema peccato ho cominciato a sostituire quello di reato, fastidio, inciampo o fatto. Il peccato è diventato un fatto, un’azione senza conseguenze per la coscienza, senza condanne per l’anima. L’azione concessami dall’ateismo è una proto-azione squisitamente non-fisica, un fatto che la mia formazione giuridica mi porta a non considerare finché l’ordinamento non gli attribuisce una valenza. L’ordinamento è terrestre e si configura in termini di liceità o illiceità, legalità o meno, con determinati effetti riconducibili ad articoli di codici impaginati in x-press. Nel mio esercizio cattolico, al peccato ormai fatto ho sottratto la mobilità. Quando lei mi porgeva la schiena io le porgevo l’inverso di Moresco e mi ritraevo nella mia intelligenza dicendole che il verbo “segnare” mi sembrava appropriato, che parlare del clitoride in termini di “grumo sfuggente” mi pareva corretto. Non parlavo già allora con dio e l’etica si faceva piccola piccola nel cerchio ombrato del suo ano. Non c’era azione e quindi non c’era redenzione. Restavo incagliato nei miei sacramenti e mi limitavo all’osservazione della sua testa nella stessa prospettiva in cui la conobbi, leggermente piegata dell’inclinazione familiare del collo della gru. Nella stessa pendenza trovai il suo cranio mostruosamente ripiegato fuori dal letto. E mi sovvenne che altre volte mi era successo di ritrovare gesti consueti in sconosciuti o scambi di gestualità. Altre volte gesti costanti assumevano nelle stesse persone significati differenti, lievi storture, impercettibili declinazioni. Andare in Francia, ad esempio, oggi rappresenta una forzatura. Guardare mio padre ascoltare Jarre in silenziosa adorazione da nemesi mnemonica è una forzatura, una forzatura che per primo compie su di sé. Il cattolicesimo permette incontri, giorni dedicati alle visite, feste comandate e scadenze precise da rispettare ogni anno, come se la fede fosse un permesso di soggiorno. Mio padre attende quei giorni per rivedermi, aspetta in religiosa abnegazione il Natale per scambiare due chiacchiere. Entrambi abbiamo rinnegato il libero arbitrio molto prima della religione identificandolo, giustamente, in una concessione ipocrita, e ci attendiamo ogni anno alle stesse scadenze. Gli regalo un vinile, uno ogni dodici mesi, e lui con delicatezza lo ripone assieme agli altri. È una delicatezza sconfitta, molto differente da quella che conoscevo nelle carezze anni e anni addietro. La sua gentilezza nei gesti è un’altra inclinazione leggermente deviata. Invecchiano anche i pregi e assumono una forma esteriore decadente, crepuscolare. Il rovescio di una peculiarità non è l’opposto ma la sua vecchiezza. Canute deformazioni sembrano rendere colpevole mio padre che si muove a disagio tra le bottiglie di liquori accumulate e spartite con gli amici durante le interminabili discussioni sulla svolta della Bolognina. Avevo otto anni quando Napolitano trovava poco naturale la sigla “Partito democratico” e ora che ne ho ventotto Napolitano è il primo presidente comunista della Repubblica e mio padre vota convintamente pd. Confida nella segreteria di Bersani, stima D’Alema intelligente, come tutti d’altronde, attribuisce la caduta del secondo governo Prodi alle incaute dichiarazioni di Bertinotti sul finire della campagna elettorale (scelta di sinistra che ci ha condannato a due soli senatori in più, ingovernabilità), è convinto che la demonizzazione di Berlusconi sia la sua naturale linfa elettorale. Ha acquistato un televisore con decoder integrato considerando il digitale terrestre un’imposizione ineluttabile. Ricordo distintamente le parole che mia madre disse quando ci comunicò la sua decisione di tornare a Milano e vivere con un uomo che aveva conosciuto all’università durante un incontro su Carver e il minimalismo nella letteratura americana. “Io non lascio solo te, io lascio l’Italia”. Mio padre le stava seduto davanti e sprofondò il viso nelle mani, lui che Carver non lo conosceva neanche e amava tanto Flaubert. Io ero appoggiato allo stipite della porta, e non mi voltai nemmeno quando mio madre mi passò alle spalle, la sentii indugiare un attimo, credo che la sua mano sinistra si mosse verso di me, ma poi si ritrasse e senza dirmi niente uscì per sempre dalla mia vita di italiano. Restai a fissare mio padre sperando che quelle spalle curve e singhiozzanti, decorose nel centellinare ogni lacrima, avessero un rigurgito antimetaforico. Nostra madre (a questo punto mia e sua) aveva smascherato la nostra nazionalità, ci aveva caricato sulle spalle tutti i mali dell’Italia come dei Sisifo in cassa integrazione. All’improvviso diventammo, io e lui, perché in quel momento non c’erano differenze tra noi, colpevoli. Gli occhi di mia madre esprimevano quella bontà che rasenta la pietà e si esprime in gesti secchi di compatimento e ripulsa. Non ci furono reclami da parte di mio padre, né urla disperate che dicessero che no, non siamo italiani, ma se non siamo italiani possiamo essere solo apolidi perché nessuna patria ci vorrebbe, che possiamo cambiare se solo ce ne fosse data la possibilità e non è vero che il ventennio è ora perché è finito tutto a puttane e non con un’impiccagione pubblica dopo una guerra folle. Non so cosa pensasse in quel momento mentre teneva le tempie tra le mani e i gomiti appoggiati sulle ginocchia. So che non fece nulla, neanche allora, so che con accondiscendenza meridionale accolse anche quella verità, quella rescissione di palpebre. Io avevo ventitré anni e mi ero appena laureato in legge con una tesi sul concetto di profitto nei beni confiscati alla mafia, non sapevo cosa avrei fatto da lì a qualche mese e cullavo la mia unica certezza, che non avrei preso l’abilitazione né avrei provato concorsi pubblici. Mio padre mi sembrava così vicino che per paura di un’ustione me ne andai dall’Italia.
Bel pezzo che celebra la sacralità di una vita non credo-credo nella vita, nel tempo religioso della scrittura, nello stile di Flaubert sobrietà con il ritmo di tre nella frase, con la precisione del vocabulario, credo in lei-in lui nel sacro dell’erotismo, il punto fuoco del clitoride, la carne dentro la carne- credo nella redenzione del silenzio- il padre rimane inchiodato al paese- mi dà il nome della croce- sono il figlio della partenza- sono il figlio della madre assenza- sono nell’ombra del suo abbandono- sono lo scrittore in ombre portée del suo paese, la luce lacunaire del punto di nascita- la terra si profila nella pancia della scritture- mio amore per Roth.
Era la voce che sentivo leggendo questo brano.
Otto o dieci lampi magnifici in una sola pagina. Non chiedo di più. Questa scrittura si fa valere, però a mio avviso ci sono problemi di misura specie quando, assai spesso, la maschera feroce dell’attualità rispunta e beninteso solo come maschera. Forse è proprio l’argomento il punto debole e i risvolti sociologici e psicologici si fanno cancro per il testo. Per esercizio o come cura disintossicante sarebbe meglio scrivere circa la vita degli insetti o la pittura di icone e si eviterebbero più facilmente: ano e clitoridi, i D’Alema ecc. e relativi partiti, la Chiesa minuscola, il genere deprimente familistico rivisitato direi automaticamente, Carver, il Cattolicesimo e la Religione considerate un po’ alla cazzo di cane, il decoder, la Bolognina (vivo benissimo senza sapere cosa sia), gli affari dell’Italia attuale, passata e futura usati come universo di riferimento. Non ho capito perché la sua laurea in Legge autorizzi il personaggio a sostenere che esisterebbero solo dimensioni convenzionali e legali per l’etica; forse serve a dimostrare il suo basso grado di sviluppo mentale e morale, ma la cosa non è confermata altrove. Se ciò che conta è la forza della scrittura, come io credo, si tratta comunque di uno scritto forte che si legge volentieri.
grande gianluca, grande!
(arrivo come al solito in ritardo e come al solito penso che guadagneresti dalla divisione in paragrafi – ognuno ha le sue idiosincrasie ;-)
È possibile contattare Gianluca Cataldo? Una mail di riferimento è pinkmoon.giu@gmail.com
Grazie.
Ciao Gher, ci ho pensato su e ho deciso che non sono d’accordo con te!
Credo che la divisione in paragrafi indebolirebbe molto il testo. Almeno a me il primo pezzo che avevo letto di Cataldo (come anche i successivi) aveva convinto proprio perché doveva essere letto tutto d’un fiato (il che in un certo senso costringe alla rilettura, e sono pochissimi come sai gli scrittori che ci riescono).
Prova a pensare un libro (spero proprio che esisterà un giorno) di 15 o 20 di questi “ragionamenti” in sequenza, ti immagini che sciabolata sarebbe?