Ai no corrida!
Nel quadro della rassegna letteraria “GIULIO PASSAMI IL LIBRO: “I NIDI PENDENTI”. La prima serata è dedicata a Loredana Raciti e Stefano Malatesta ( seguono i due testi) lunedì 19 Aprile 210 ore 21:00 presso il locale “Giulio Passami l’Olio” – Via di Monte Giordano, 28 – ROMA. Gli altri appuntamenti verranno via via comunicati. I testi saranno in seguito pubblicati in una edizione speciale a cura dello studio Oblique per le edizioni Infinite Soluzioni.
Scrittori partecipanti : Teresa De Sio, Roberto Donatelli, Carmine Vitale, Andrea Inglese, Francesco Forlani, Sonia Topazio, Alexandra Petrova, Stefano Malatesta, Loredana Raciti, Marco Fabio Apolloni, Paolo Piccirillo, Michele Sovente, Luigia Sorrentino, Stefano Gallerani, Gualtiero Rosella
Letture a cura di: Simone Caparrini, Lia Zinno, Nicola Pistoia, Daniela Scarlatti, Sonia Topazio, Marina Giulia Cavalli
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Estratti 1 -in due tempi
di
Loredana Raciti
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Un Bicchiere dopo il funerale
di
Stefano Malatesta
Estratti-in due tempi
di
Loredana Raciti
Siamo a metà settembre, la mia vita è un’altra, mi lascio alle spalle le incongruenze di Frederico, le psicosi, la sua maligna ignoranza che prima mi feriva, adesso mi fa nessuna cosa, niente, non provo niente.
Non c’è ostilità in me e neanche affetto.
Eppure è come se mancasse un finale che abbia per entrambi una dignità, un pensiero commovente.
Rileggo solo oggi alcuni dei suoi messaggi, non li ho ancora cancellati, in mezzo trovo quelli dell’estraneo che mi ha perseguitata in questi mesi scrivendomi cattiverie crudeli. Un anonimo senza nome, come noi ora. Li appunto sul mio diario come capitano. Non cerco più una sequenza o pretendere di rimettere in ordine quello che abbiamo vissuto. In realtà non avrebbe senso. Ho cercato per tanto tempo di dare una logica a ciò che ci è accaduto. Ho scavato fino a sfilacciarmi ogni parte di me cercando un significato. L’unico che trovo e mi viene in mente è una sensazione aperta, senza la necessità di essere un’emozione né buona né cattiva.
Ho altro per la testa, mi piace un uomo dopo tanto tempo che provavo solo per Frederico ogni cosa, bella e brutta come se fosse stato il mio senso unico, a doppia carreggiata anche contromano.
Quest’uomo mi ha fatto l’amore, tenendomi dolcemente le mani.
Mi ha portato nel cuore di Roma a un passo da Campo de’ Fiori ma dal lato opposto. Il giorno era vicino al quattordici ma non era quello. E’ successo il tredici sera. Negli arcani maggiori è il simbolo di morte e trasformazione. Facevo l’amore con un altro uomo, non pensavo ad altro, farmi toccare, leccare la pelle che fremeva sotto le sue mani esperte, rassicuranti. Mi prendeva accogliendomi, travolgendomi con il suo corpo maschile, sensuale. Riusciva a suonarmi come un arpa che non segue più lo spartito, si lascia andare, vibra, si scioglie morbida, ondulante interpretazione libera, liberata da note carnali, poetiche, senza riga da seguire. Bassi e alti picchi di una performance sessuale fragorosa.
Vestita come le donne di Alessandro Magno, portavo le mie collane di seta lunghe, tintinnavo suoni di pietre danzanti, agata, caffè e un lago di corniola modulavano i nostri corpi nudi, uniti eravamo un’ enorme orchidea a coppa, ci succhiavamo liquido, seme, liquido, seme, un volteggio sessuale fatto di un colore tenue, caldo, rosa carne, rosa sesso, rosa bocca, rosa lingua, rosa capezzolo, rosa ano, rosa cuore, rosa fiore. Fioriti, fioriti, fiorivamo nelle nostre grandi mani intrecciate come rami flessuosi, foglie lunghe, larghe e grasse, di una pianta sbocciata a forma di carne, carnale si apriva a bocciolo, poi sbocciava.
Raccoglieva incenso e acqua, l’aria di quella stanza. Non odorava dell’acre odore del sesso ma profumava di due corpi, perfettamente sincronici nell’estasi multipla, sino alle luci dell’alba, dove il sonno non richiedeva riposo. Solo il lento scemare del suono di una magnifica arpa colore dell’oro pallido che si infondeva flessuoso, sulla nostra pelle, due amanti estasiati nei loro umori.
Uno scorpione e un cancro seguono il flusso come solo l’acqua sa fare. Cercando semplicemente il fondo della terra.
La mia penna scrive, riporta vecchi messaggi disordinati, appunti di un veliero nero sul fondo dell’Oceano Pacifico.
Ecco ciò che sento adesso per Frederico. Una paura oscura che mi porta lontano, lontanissimo dal colore rosso acceso, volgare, invasivo, invadente, che abbiamo vissuto e non passa inosservato.
Ti porta a distogliere lo sguardo di scatto, disturbato da tanta violenza. Il mio occhio cade altrove, sul profilo virile di un uomo disegnato dal colore rosa.
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Tu devi essere amata, ad ogni passo t’accarezzerò una natica… Prenderesti a muoverti sempre più da femmina, sculettando flessuosa, sinuosa per me.
Tu devi essere curata, con pazienza e succo di gelsi.
Tu devi solo annusarmi, fallo come vuoi, come puoi, inizia a fidarti a poco a poco di me.
Usa le sei piccole pietre bianche che ho messo tra le tue mani tremule, raccolte per te, con te in Mongolia.
Sei distinte piccole pietre bianche.
Tre sono per te, le altre tre per me.
Inizia così, odorale, toccale, portale alla tua bocca morbida. Un boschetto di alloro e lauro sei tu. Conosco il tuo vero nome, è dolce, spaventato, nobile e ferito, è grazia e forza.
I tuoi occhi profondi, languidi, hanno riempito, sfumato tutti i miei ricordi passati.
Metti le tue lacrime ignorate nelle mie mani. Sono grandi mani, non temono i tuoi ricordi. Li laverò per te.
Ti chiamerò libellula che ha attraversato l’Ade, senza nessuna necessità di incontrarmi.
Io senza alcun bisogno di incontrare te. Tu devi essere amata, piccolo fiore erotico da cullare.
Io devo essere amato, amando te, sfiorandoti i capezzoli a petalo che svolazzano nell’aria per me.
Ho avuto tante mogli e nessuna. Tranne una, che correva con il sorriso nella mia vita, poi il nulla.
Ho attraversato l’Ade senza alcuna voglia di incontrarti.
Fatti accarezzare la pelle bella, le spalle grandi, i fianchi tondi, il tuo viso di rosa recisa.
Lascia che il tuo pudico, candido sesso chiuso, raccolto nel dolore, si affidi alla mia cauta attenzione per te.
Passo dopo passo tornerai a muoverti sempre più da femmina, sculettando flessuosa, sinuosa per me.
Passo dopo passo tornerò a muovermi sempre più sicuro di aver incontrato la mia sposa.
Lascia che ti conduca a casa, zingarella e glicine. Lascia che sia io a farlo, abbottonarti l’abito nuziale, allacciato, ma non troppo, da sei piccole pietre bianche. Tre sono le tue, le altre tre mie.
Dimentica con me le ripetute promesse che ti sono state fatte, ti bruciano ancora l’anima bianca, quelle parole tradite, disonorate.
Passeggia con me, nei campi di lavanda in fiore. Andremo a raccogliere more selvatiche. Non avrai da temere altre mancanze, inganni, non avrai da temere mollicce bugie.
Passeggia con me, standomi semplicemente accanto.
Fallo come vuoi, come lo sai fare, senza preoccuparti di cadere. Se succederà ti aiuterò a rialzarti. Lo farò piano piano. Ci affideremo insieme ai nostri errori, bevendo vino rosso, sapendo di essere diversi e molto grati al mondo per questo.
Questa diversità la sentiremo priva di intenti.
Tu devi essere amata. Ad ogni passo ti accarezzo una natica, inizieresti a muoverti sempre più femmina, sculettando flessuosa, sinuosa nel tuo abito nuziale indossato per me.
Alexander.
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Un bicchiere dopo il funerale
di
Stefano Malatesta
Quando andammo a trovare Germano Lombardi ricoverato in un ospedale di Parigi, all’ inizio dell’ estate del 1993, eravamo sicuri che saremmo ritornati, molto presto. Non fu nemmeno un incontro, ma un saluto. Lui si emozionò, si tirò sopra il viso le lenzuola girandosi dall’ altra parte del letto e disse qualche cosa per cacciarci da quel cubicolo soffocante, dove l’ avevano sistemato. Morì esattamente una settimana dopo e noi – io, Nico Garrone, Francesco Carnelutti, Gabriella Cantaluppi e altri amici (Sandro Viola era dovuto partire, credo per la Polonia) arrivammo davanti all’ ospedale una mattina presto, per salire su un pullman, come fossimo diretti a una gita scolastica. Un tale, che nessuno di noi conosceva, un francese, gli aveva regalato un quadrato di terra in un cimitero dalle parti di Chartres, a un centinaio di chilometri da Parigi. Germano ne parlava in continuazione, spiegando che i francesi non erano famosi per la loro generosità e un posto al cimitero, sia pure in provincia, era un regalo straordinario. Poi aggiungeva, ridendo: «Io non ho i soldi, né la fama per finire al Père Lachaise».
Eppure Parigi, lo dico senza alcuna retorica,era la sua città. Uno può essere nato a Porto Maurizio, come Germano e appartenere, per scelta o affinità a luoghi completamente diversi. I luoghi di Germano erano numerosi oltre Parigi: Barcellona, Tunisi, l’ isola di Paxos, la maremma toscana, Sovana e Pitigliano, quell’ area del centro di Roma compresa nel cosiddetto «tridente», verso piazza del Popolo e via dell’ Oca, frequentata dai suoi amici pittori – si ritrovava meglio con i pittori che con gli scrittori – e altri ancora. La Lombardiland era molto più francoispanica che inglese, localizzata quasi esclusivamente lungo le coste del Mediterraneo, con l’ eccezione di Haiti, dov’ era stato nel 1967 con una troupe Rai. Papadoc, i tonton macoutes vestiti di nero e gli occhiali scuri, il vodù e tutto il resto lo impressionarono molto e se ne trovano tracce in alcuni dei suoi libri (uno in particolare, Il tiranno di Haiti, il suo unico, magnifico testo teatrale, uscito postumo con una bellissima introduzione di Achille Perilli) insieme con gli indirizzi dei bar e le marche dei rum. Di questi luoghi – in maggioranza porti o città di mare – conosceva tutti i caffè, che guardavano la promenade con le palme. Dietro iniziava la kasbah, dove era possibile incontrare per qualche attimo i suoi personaggi che si muovevano in fretta andando e venendo da luoghi provvisori, come alberghi di quart’ ordine, stazionacce, irrespirabili sottoscale adibiti a bar, dogane scalcinate. I loro nomi improbabili, il signor China, Mitopulos, Columbus, Berthus, Ezzeline Sherif l’ unico credibile era Giovanni Zevi facevano pensare a degli pseudonimi per irregolari, anomali, anarchici, supposti rivoluzionari, però deracinès, in eterno complotto o sulle tracce di qualcuno. Ma si poteva stare certi che qualsiasi progetto pericoloso per la società – o liberatorio – avessero in mente, questo non si sarebbe realizzato.
Germano aveva letto il Conrad dei romanzi politici, e anche il più grande Conrad, come tutti quelli che cercano di dare patenti di nobiltà a storie avventurose, intelligentemente evitando i toni tragici che solo uno scrittore come il polacco poteva maneggiare con sicurezza. Lord Jim è la tragedia dell’ inadeguatezza di un uomo che si accorge di non essere pari al suo compito. I protagonisti dei libri di Germano, visti in retrospettiva, sono solo degli sfigati, in un mondo in cui i valori non esistono più e in un periodo letterario in cui i romanzi non dovevano avere né capo né coda come diceva un critico. E questo complicava le cose, cioè il romanzo stesso. Quel giorno del funerale c’ era molta bruma e ci sistemammo infreddoliti nel retro del pullman, con l’ intenzione non dichiarata, ma evidente, di parlare di Germano durante tutto il tempo che fosse necessario. In prima fila, dietro l’ autista, s’ intravedeva la crocchia nera di capelli di Maddalena, ma i figli non erano ancora comparsi. Questi erano momenti in cui Germano avrebbe tirato fuori tutte le sue famose qualità affabulatorie, raccontando una storia dietro l’ altra ed era impossibile sottrarsi al rito e al fascino. E fino a quando il numero dei bicchieri era contenuto, bastava stare a sentire per cogliere, in mezzo al flusso senza fine di parole, i giudizi critici che impedivano al recitato di trasformarsi in chiacchiera. Garrone, che aveva girato con lui dei servizi televisivi, facendogli fare il conduttore, si ricordava la sua capacità d’ improvvisazione durante una esposizione di arte contemporanea al Castello di Gennazzano e come un collezionista come Franchetti e un critico come Bonito Oliva, ècole di Salerno, erano rimasti stupefatti dalla qualità dei suoi remarks. Partimmo senza aver visto questi figli, Maddalena poi ci disse che avevano preferito andare in auto con Bernardo Valli, giornalista eccelso, ma automobilista vaghissimo.
Quasi tutti avevano conosciuto Germano prima di me, a Milano, dove faceva rabbiosamente il pubblicitario, pensando ai romanzi o a Parigi. Dicevano che aveva l’ aspetto del marinaio delle ballate, robusto, con la barba, con una capacità inverosimile di trinca e già leggermente vacillante. Nanni Filippini l’ aveva anche scritto in un risvolto di copertina. Questa instabilità lo accompagnerà sempre, all’ inizio associata alla vita di mare, come lui tentava di far credere e poi, più verosimilmente, all’ alcol, quando ci rese conto che Germano, naturalmente, conosceva molto meglio il Tigullio che il tempestoso stretto di Drake. Ma il bere in lui era talmente connaturato, che non dava mai nessun fastidio, faceva parte della sua personalità, senza che questa ne fosse condizionata, com’ è successo a Malcom Lowry. Voglio dire che l’ alcol non era la benzina che gli serviva per mettere in scena il suo modo di essere, perché aveva altre risorse, ed erano tutte interne. A questo punto Carnelutti o Garrone – o forse Maddalena, venuta in fondo al pullman a salutarci – si ricordò di quello che Ennio Flaiano aveva scritto su certi parallelismi tra loro due. Ennio, all’ estero veniva sempre scambiato per il Nemico Nazionale, greco in Turchia, ebreo in Siria o in Egitto, con conseguenze immediate, mentre Germano veniva identificato come il Nemico Sociale: un dinamitardo, un rivoluzionario, il primo a essere sospettato, fermato, malmenato. E dopo un’ altra mezza pagina di diversi commenti, scherzando scherzando Flaiano arrivava dove voleva arrivare: «Come dentro questo personaggio viva un uomo diverso, mite e giusto, pieno del suo lavoro e tentato di distruggersi, è il mistero che egli stesso deve chiarire, scrivendo». Eravamo assonnati, ma la memoria di Germano e di certi viaggi che avevamo fatto con lui, ci impediva di sonnecchiare o di essere tristi. Un’ estate ci eravamo ritrovati tutti a Cogolin, il villaggio francese dove fanno le pipe preferite di Sandro Pertini, dietro Saint Tropez, per un raduno letterario.
Tutti significava alcuni del Gruppo 63 come Alfredo Giuliani e Elio Pagliarani e qualche cane sciolto di giornalista come me, che approfittava dell’ incontro per dare appuntamento a signorine profumate di letteratura. Una di questa, alta, bruna, carnale, ci raggiunse indossando uno stretto vestito di maglia nero e un grande cappello di paglia di Firenze e con lei ci pavoneggiammo nelle strade della cittadina e sulla spiaggia di Saint Tropez. Ma dopo un paio di giorni la noia era tale che pensavamo di trasferirci al mare, quando Garrone rese noto che lui, critico teatrale, doveva assolutamente partire per l’ Italia, in modo da essere la sera a Montalcino per uno spettacolo di Memè Perlini previsto nella corte e sugli spalti del castello del paese. Come direbbe uno scrittore tradizionalista e anche un po’ fiacco, all’ annuncio nessuno di noi tradì la minima emozione. Poi il perfido Garrone aggiunse: «Gli spettatori saranno sistemati a tavola nella corte e durante lo spettacolo si mangeranno manicaretti e non ci sarà limite al consumo del migliore Brunello di Montalcino». Mezz’ ora più tardi eravamo pigiati dentro una grossa auto, Germano, Garrone, la signorina carnale e altri in un numero certamente superiore a quello consentito, già con fiaschi alla mano e pensando al momento glorioso in cui saremmo arrivati a Montalcino. Guidavo io a una velocità che non ho mai raggiunto né prima né dopo, ci fermammo a mangiare lungo la costa ligure davanti a una nave, la signorina carnale corse al bagno a vomitare, e non ho memorizzato, francamente, quello che fecero gli altri e quando arrivammo a Montalcino la cena era già iniziata da un pezzo e qualcuno di noi disse: «Non ci sarà avanzata nemmeno una bottiglia». Anche per questa ragione la scena che ci si presentò fu di quelle indimenticabili, scusate l’ aggettivo un po’ andante: intorno ai tavoli si ergevano pile di casse di bottiglie di Brunello di gran marca non consumate perché i signorini commensali chiedevano di quello più bono e i camerieri, invece di cacciarli a pedate, obbedivano a ogni loro richiesta.
Dopo un’ ora Germano non barcollava più, per uno strano fenomeno che stava provando che il troppo non stroppia affatto e decidemmo di andare a fare un bagno nelle acque calde di un albergo di Bagno Vignoni, non molto distante, per un po’ di relax. Erano le tre di notte e dissero poi che un signore corpulento < \-> Germano < \-> aveva caricato le austere, sospettose proprietarie dell’ albergo, appena queste si erano decise ad aprire il portone, mentre gli altri si precipitavano, inseguiti da urla, verso la piscina, naturalmente chiusa. L’ inseguimento durò cinque o sei minuti, poi il perfido e agile Garrone trovò una finestra aperta di fronte a un pino e scendendo come Cita tra i rami riuscì a gettarsi nelle acque fumanti. Non ricordo altro. E’ stata una delle ultime volte che Germano mi apparve pienamente, totalmente felice. Aveva scritto nove libri, tra cui Barcelona e L’ occhio di Heinrich che ad alcuni dei critici più reputati erano sembrati non belli (l’ aggettivo «bello» è un aggettivo da tarpano, non da critico), ma «pregnanti», maturi nel senso dell’ avanguardia, con una prosa che alternava un nitore classico a «fitti squarci espressionisti». Era apprezzato, ma non molto venduto e in parte questo dipendeva dal fatto che quando raccontava uno dei suoi intrighi, gli interessava la struttura, non la soluzione, che dimenticava o abbandonava. Arrivati al momento decisivo o di svolta, se ne disinteressava o lo lasciava totalmente in ombra, un atteggiamento che non invogliava i lettori a proseguire, anche se il libro aveva delle parti splendide. Non è esatto dire che Germano fosse l’ unico vero scrittore del Gruppo 63 – Gianni Celati, Sebastiano Vassalli, lo stesso Gigi Malerba, il più noto di tutti, non stazionavano lontani – ma certamente lui era l’ unico ad avere la statura del grande raccontatore. Che si trascinava dietro il paradosso della difficoltà di scrivere allo stesso alto ,a volte molto alto livello raggiunto nei suoi racconti verbali, non perché non ne fosse capace – poteva essere formidabile come sperimentatore di linguaggi – ma perché il modo dell’ avanguardia e le sue storie non si raccordavano (e infatti Umberto Eco, per scrivere In nome della rosa, si guardò bene da adoperare un linguaggio sperimentale, con grande dispetto di Angelo Guglielmi). I suoi libri, alcuni magnifici, si vendevano poco. E non facendo altri mestieri che quello dello scrittore nomade – e che altro doveva fare? – mentre quelli del gruppo campavano di stipendi rai, di università, di consulenze editoriali, di sceneggiature, cominciò a trovarsi in difficoltà. Una situazione che lo amareggiava moltissimo.
Arrivammo al cimitero e dei figli ancora nessuna traccia. La fossa era già stata scavata, il feretro posato accanto e mi resi conto che stavamo tutti camminando in circolo, intorno al luogo della sepoltura come un rito propiziatorio. Passarono tre quarti d’ ora, poi un’ ora, gli uomini del servizio funebre avevano cominciato a bofonchiare, a voce sempre più alta, alternando le parole a sbuffi d’ insofferenza come fanno quasi tutti i francesi quando sono incazzati, un tratto di carattere nazionale. Qualcuno dei partecipanti alla gita era ritornato nel pullman, per cercare di dormire e Maddalena, disperata, si era inginocchiata davanti alla bara e diceva: «Germano, che debbo fare? i figli tuoi non arrivano…». Dieci minuti più tardi Germano venne seppellito e il francese, quello che aveva regalato il lotto e che aveva anche una fattoria proprio lì accanto, vedendo Maddalena distrutta e noi che dai racconti eravamo passati al mutismo, ci invitò gentilmente a prendere un verre nella fattoria. Era una strana estate, faceva freddo e prendemmo volentieri quel verre per riscaldarci, anche se il verre era piccolo e non c’ era nemmeno una tartina in giro in quella enorme cucina, tutta ad armadi chiusi a chiave, che potevano contenere viveri per un’ armata. Uno di noi chiese se per caso non avesse anche un pezzo di pane, il vino a digiuno gli aveva messo un certo languore. L’ amico francese arrossì, andò davanti all’ armadio più grande e ne tirò fuori una gallina lessa e un soucisson, insieme a un mazzo di baguette e Garrone disse, fregandosi le mani: «Lo sapevo. E deve aver bottiglie molto migliori di quell’ aceto che ci ha dato». Nel giro di un quarto d’ ora, i saucisson si erano moltiplicati, numerosi formaggi, tra i quali un delizioso Reblochon comprato da Barthelemy a boulevard Raspail, erano usciti dal ventre della boiserie e il proprietario non faceva che tirare fuori bottiglie, scusandosi del comportamento di prima. E quando, poco dopo vedemmo le due facce stupefatte dei figli di Germano comparire al di là della porta a vetri, un poderoso «Germano, urrah» risuonò nel salone trasformato in una bettola e tutti noi ci alzammo con i bicchieri in mano a dare l’ ultimo saluto al carissimo amico, proprio nel modo che a lui sarebbe piaciuto. –
NOTE- dal libro “Il cacciatore di dote,🡅
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