da “Storia della mia infanzia ai tempi di Silvio Berlusconi”
di Guido Caserza
Quella notte i ghiri, che popolavano il sottotetto della nostra pericolante casa, piansero sino all’alba. Quelle graziose bestioline gemevano, salutavano con gli occhietti umidi l’essere umano che avevano tanto amato, rizzandosi sulle zampette annusavano l’aria per coglierne l’ultimo sentore, e mentre i treni della morte si fermarono per un lunghissimo istante sulla linea dell’orizzonte, esprimendo il loro cordoglio con un triste fischio, le foglie di un magnifico albicocco ricolmo di fiori e di promesse di frutti, che il nonno piantò tre anni prima in una terra fertile, ricca di minerali, quelle foglie, che la sera prima splendevano rigogliose, la mattina pendevano giù come spettri, cartocci che si sgretolavano fra le dita. La linfa, come mi dimostrò il nonno facendo un’incisione nel tronco, scorreva tuttavia nell’albero, ma le foglie, che erano seccate di schianto, non avevano più ombra di vita. Sono come le mani di tua mamma, mi disse il nonno accarezzandomi la testa, che ce l’aveva bianche come la neve gli ultimi giorni, e questa era la sua tesi, che all’albicocco si erano gelate le foglie, com’era successo alle mani della mamma, era arrivato l’ictus e aveva fulminato pure lui, la mamma e la pianta avevano vissuto in simbiosi e insieme se ne erano andate, folgorate dalla morte si erano incamminate a braccetto, come due dolci amiche.
Era anche successo che il giorno prima che morisse mamma, un nostro amico contadino aveva ricavato un bastone da passeggio dalla radice di un albero e gliene aveva fatto dono. Una meraviglia di bastone che mamma aveva guardato e riguardato, tenendolo nelle sue mani bianche, mentre prendeva il fresco per l’ultima volta in giardino. Poi si era alzata, aveva appoggiato il bastone al muro della casa e tenendo gli occhi bassi disse ora vado a dormire. Salutò per sempre l’orizzonte e i suoi treni, si sdraiò con una grande stanchezza nel suo letto e nel cuore della notte tirò una scoreggia micidiale, spruzzando litri di merda, mentre diceva a tutti noi parole d’amore in un linguaggio primordiale e incomprensibile, per via dell’ictus, dondolò per qualche minuto sul letto, con la bocca storta, poi emise un sospiro infinito, si sgonfiò e gli angeli se la sono presa con un fare misericordioso, come ricordo bene, scortandola su per gli scalini del cielo. Il bastone restò appoggiato al muro della casa fino ai giorni del funerale, fino a quando, la mattina dopo che seppellimmo mamma, accadde il secondo degli eventi mirabolanti che terranno occupata la tua fantasia, mio tenero lettore. Durante la notte il bastone da passeggio si era animato, era andato a passeggiare nei boschi, qualche bracconiere racconta di averlo visto sorreggere un’ombra con le mani bianche, poi si era sdraiato stancamente sul selciato, e in quel medesimo punto lo ritrovammo per sette mattine di seguito, sembrava il braccio calcificato di un morto. Alla settima mattina mio nonno venne a svegliarmi con il volto radioso di un bambino che guarda l’albero di natale illuminarsi, mi prese sottobraccio come un fagotto e mi portò alla sorgente in fondo al campo. La vedi? la vedi? gridava il nonno, questa sorgente secca come le cosce di mia moglie, che dio se l’abbia in gloria, la vedi ora che roggio che ha! che vivagna che è diventata! E preso da un rapimento che più tardi avrei imparato a definire mistico, vidi per un istante, tra gli spruzzi dell’acqua, il viso sorridente della mamma, due ruscelli le zampillavano dagli occhi e i suoi capelli ondeggiavano come alghe, e mi precipitai a bere tutta l’acqua che potevo, baciavo l’acqua, la bevevo come latte, come quando mi succhiavo i capezzoli di mamma, e il nonno mi guardava con la bocca spalancata, con i lucciconi che gli scendevano dalle guance pelose e gli cadevano sugli scarponi inzaccherati di letame.
Quando mia mamma tirò gli ultimi e spedì la sua santa anima su per le piste del creato accaddero dunque eventi prodigiosi, che molti interpretarono, nella grande confusione del periodo, come il segno di un avvento a lungo atteso. Fu dopo questi eccezionali avvenimenti che venni affidato a mio nonno, per decisione unanime del medesimo, e da allora incominciarono ancora oggi non so se le mie fortune o le mie insanabili disgrazie ed è qui che incomincia la vera storia della mia infanzia, ovvero la storia delle incredibili avventure di mio nonno, al tempo in cui correvano sull’orizzonte i treni della morte e il possidente Silvio Berlusconi si iscrisse alla fabbriceria della parrocchia del paese, per iniziare la scalata della medesima parrocchia e in seguito affermarsi come governatore di tutte le terre, che già gli appartenevano.
Per dirvi subito di che pasta era il nonno, incomincio con il raccontarvi di quando si era diffusa la moda dei topolini da tasca. Mio nonno odiava visceralmente tutti quei ragazzini che circolavano con il loro topino accoccolato in tasca, lo mostravano alle ragazzine, invece di mostrar loro l’uccello, questa era la considerazione che faceva il nonno, il cui vero senso mi sfuggiva, tanto che per farlo contento mi ero preso un canarino che tenevo in tasca e mostravo cinguettante alle mie amichette. Quanto al nonno, lui, da radicale anticonformista che era, aveva catturato e addestrato un ghiro enorme, con una pancia grossa come una pantegana, lo teneva appeso per la coda alla cappa della cucina e la mattina presto, imprecando contro Dio, se lo ficcava nel tascone dei pantaloni, ne mostrava la bocca spalancata alle fanciulle, per insegnare loro la rabbia e la bruttezza degli uomini di questo mondo, così asseriva il nonno. Ma questa è solo una sfumatura delle imprese che fece con il suo ghiro. Tanto per dire, quando il parroco, un cugino in terza del futuro governatore, un individuo dalla faccia lunga e stretta come un paletto, venne a bussare alla porta di casa per la benedizione pasquale e la raccolta delle offerte a cui lo aveva abituato la mamma, grande mediatrice tra il nonno anarchico e le istituzioni locali, il nonno gli disse, prete, mettimi una mano in tasca e i soldi che ti riesce di prendere sono i tuoi. Fu così che il prete si buscò la prima gloriosa morsicata del ghiro, che lo tenne a letto con le febbri per tutta una settimana. Quello del nonno era infatti un ghiro vecchio e malaticcio, che dopo poche settimane si azzoppò e divenne claustrofobico, e siccome il nonno non aveva cuore di vederlo soffrire gli fece un carrettino speciale, con un cuscino rosso nel mezzo, dove l’adagiò con grande cura e attenzione, coprendolo con una copertina per tenerlo al caldo. Al carrettino aveva collegato un tirante, una vecchia fune in origine destinata dal mio disgraziato genitore ai castigamenti del mio deretano, e in questo modo il nonno passeggiava con la fierezza di un maresciallo per il paese nei giorni di festa, quando la processione delle beghine fluiva per le stradine inneggiando ai serafini del cielo, con il suo carretto e il ghiro che mostrava i dentini e squittiva orgogliosamente, dal suo lettino di morte, alle caviglie delle devote. Trascinava il carretto, mentre i cristeggianti facevano ballare l’uomo di legno crocifisso e i fabbriceri reggevano sulle spalle la statua trionfante della Vergine, con la corona di gigli sulla fronte di stucco. Guarda quella com’è bella, diceva il nonno al ghiro, e le beghine si segnavano invocando perdono per il nonno che a quest’ora dovrebbe essere seduto a tracannare il vino della sua vigna sul trono più alto del cielo, in virtù di tutte le grazie che gli han tirato dietro quelle baldracche da culo, in questo modo mio nonno definiva le beghine del paese.
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Da tutto quel gran chiavare erano intanto nate grandi quantità di bambini, anche i signorotti del paese non si erano sottratti alla copula generalizzata del dopoguerra, ed erano nati i gemelli Berlusconi. Il primo venuto alla luce era stato annunciato dal parroco come il nuovo oracolo di Betlemme, al suo primo vagito la servitù si sentì venir meno per l’emozione e di conseguenza anche i prodigi che seguirono la morte di mia mamma vennero inquadrati in questa grandiosa cornice storica, mentre il secondo aveva fatto strillare di disgusto la levatrice e la signora madre: era un perfetto mongoloide. Venendo alla luce spalancò gli occhi miopi e la boccuccia, si gonfiò tutto nello sforzo di emettere un grido, ma emise soltanto qualcosa di simile a un rantolo soffocato, poi nessuno udì mai più nulla da lui, perché era nato completamente muto. I due gemelli non si assomigliavano per nulla, è solo per questo che il mongoloide non venne bruciato come imponeva il decoro della casata, ma cresciuto in clandestinità, e appena fu svezzato e ritenuto capace di provvedere a se stesso fu abbandonato in un fossato, e da allora divenne il beniamino del paese. Le donne lo cercavano per il fatto che aveva una minchia da mulo, i ragazzi si divertivano a sfondargli il sedere, lo facevano per spirito di solidarietà, e lui amava tutti, il suo era l’amore totale e incondizionato dei mongoloidi, senza distinzione di genere, sessualità allo stato puro. Era molto interessato alle vacche, per le quali avvertiva grande attrazione, guardava il loro grosso ano e si masturbava, e per questo divenne grande amico del nonno. Il nonno se lo portava in giro per le strade del paese e gli teneva i suoi discorsi pedagogici sul grande spirito anarchico, il mongoloide lo guardava senza capire granché, ma sebbene non avesse le capacità intellettuali per capirla profondamente, recepiva la dottrina del nonno a un livello inconsapevole, come il pulcino che con gli occhi chiusi riceve nel becco il verme che gli posa la chioccia.
Il nonno lo indottrinava con grande eloquenza, sempre ad alta voce, era il suo modo per fare intendere ai paesani che l’uomo è stupido come una scimmia, e che è preferibile educare un mongoloide piuttosto che farsi servi della chiesa e del potere, che nel mongoloide c’è libertà incondizionata e che bisognava cercare nel mondo dei fenomeni le ragioni della vita, i moventi delle astrazioni umane, in un certo senso era questo il suo panteismo, un affare ontologico che il mongoloide mostrava di apprezzare, soprattutto quando il nonno gli teneva questi discorsi seduto sotto le mammelle delle vacche, che mungeva con grande energia. Un giorno il nonno portò il mongoloide in osteria e gli fece ripetere davanti a tutti le sue professioni di fede, e il mongoloide, gesticolando nel linguaggio dei muti, affermò la mancanza totale di credo in cristo (allargò le braccia e sputò come un lama), la certezza che la vita è un’inculata a sangue (dimenò il bacino avanti e indietro scaracchiando sangue), la convinzione che dopo la morte ci sarà un’inculata ancora più dolorosa (dimenò il bacino e scaracchiò ancora più vigorosamente), l’idea di un dio carbonaio che spala e getta quintali di sterco nel grande trogolo della creazione e del continuo disfacimento (si accovacciò pensieroso senza sapere bene cosa fare), la fede nella vagina (unì indici e pollici sopra la fronte e si inginocchiò devotamente) e nello spensierato vivere come parassiti del cosmo (si sdraiò su un fianco e incominciò a toccarsi). Tutti si segnavano per lo sgomento, l’ostessa invece si inginocchiò e con la bocca fece contento il mongoloide, poi il nonno se lo trascinò dietro mentre mandava bacetti all’ostessa, con quel volto deliziato che è molto tipico dei mongoloidi, e obbligò il parroco a confessarlo, affinché sentisse quello che facevano le paesane e i paesani con il mongoloide, che mimò tutto con grande precisione rendendo la sua confessione ancora più oscena, e in questo modo diede molto da pensare al prete circa la transustanziazione del corpo di Cristo.
Fu in quel periodo che mio nonno, che era un lavoratore instancabile e ricco di inventiva, si specializzò nell’arte di desumere il carattere di un uomo dall’analisi delle sue urine. Analisi che consisteva nell’intingere il dito in un’ampolla di urina per poi degustarlo, succhiandolo e leccandolo con cura, ed evincerne alcuni dati salienti, una particolare analisi dell’animo umano che il nonno definiva urinomanzia. Dal nonno urinomante venivano soprattutto le donne, facevano la coda, si tiravano su le sottane e il nonno poneva sotto i loro orifizi una tazza che riempivano con grande fragore, ne indovinava gli appetiti e le cacciava a calci in culo, perché quelle venivano da lui per farsi montare e non per il grande rispetto del suo mestiere, allora rovesciava sulla loro testa la tazza colma di urina e le donne scappavano ridendo come fanciulle, con i capelli che brillavano al sole, e il mongoloide assisteva a queste lezioni di scienza occulta al termine delle quali finiva per masturbarsi allegramente. Il mongoloide aveva una certa predisposizione per l’urinomanzia, a detta del nonno che ne fece il proprio personale assistente, e per un certo periodo andarono in giro insieme a procacciarsi clienti. L’assistente portava altezzosamente la valigetta con gli utensili, bussava come un agente del fisco alle porte dei paesani e decantava, gesticolando come un grande attore, la perizia e la grande professionalità dell’urinomante, porgeva seriosamente al nonno le ampolle, i fazzolettini e le salviette, sembrava un chierichetto intento a servire messa, faceva tinnire il campanellino dopo che il nonno si era succhiato il dito e stava, come un oracolo, per emettere il suo responso.
Fu questo un periodo di grande contentezza per il nonno, usava l’urinomanzia per complottare contro il fratello del mongoloide e fare proselitismo, al termine della funzione liturgica rivelava ai suoi clienti come nella parte dormiente della loro persona ribolliva il cuore di un rivoluzionario, e li incitava alla lotta e alla ribellione, mentre il mongoloide faceva cenni di assenso con il capo e si sentiva percorso da ondate di gioia e di affetto. Ma la vita di un mongoloide è breve, come tu sai bene, caro lettore, dunque preparati a spandere lacrime di coccodrillo e ad apprendere come il mongoloide andò incontro alla morte, anticipandone dolcemente la fatale venuta. Dopo una giornata di grande lavoro, che aveva fruttato al nonno una decina di nuove proselite, pronte a unirsi nella lotta contro il fratello del mongoloide, il mongoloide, attratto dal posteriore peloso di un cinghiale, si staccò dal nonno con una corsa selvaggia, inseguì l’animale su per i pendii del bosco, lo perse di vista, acuminando i sensi ne seguì le tracce e si ritrovò su un pianoro, dove vide il cinghiale sdraiato, con il muso sulle zampe, ai piedi di una grossa pietra, e sulla pietra vide una ragazzina bellissima che si lisciava i capelli, stava con le cosce aperte, e dalle cosce veniva giù un rigagnolo di sangue. Il mongoloide guardò il cinghiale e la ragazzina, si sentiva oscuramente attratto, il cinghiale arricciò la coda e la ragazzina gli fece segno di avvicinarsi, gli spalancò le cosce mostrandogli la linea perfettamente verticale del sesso e su di essa il mongoloide, scordandosi di essere muto, pronunciò la sua dichiarazione d’amore, nessuno parlerà mai la tua lingua come la parlo io in questo momento, i miei piedi dalle dita intrepide, affusolati e leggeri, mi hanno portato sino a te, guardali, e guarda le mie ossa, un’impalcatura luminosa, studiata apposta per trasportare il mio cuore ai tuoi piedi, affusolati e leggeri come i miei, gli uomini mi hanno sempre giudicato un disgraziato, ma è così facile confondere un’ascesa con una caduta. Ora che finalmente parlo, ti chiedo perdono per essere nato come sono nato, accogli la mia natura di mongoloide come una tappa per la rigenerazione, tu sei la più liquida delle visioni, separi gli elementi e li riporti alla loro massima semplicità, ciò che accade dentro di te è già accaduto nei secoli attraverso la grande opera trasmutatoria, per questo motivo fra me e te non ci sono cesure, ma stiamo in rapporto come il mercurio nel suo liquido, ora ti dono la mia morte, riconosci in essa la forza che ti sostiene e non piangere per ciò che perdi perché tutto ti è già stato tolto, poi il mongoloide baciò il cinghiale e corse via, correva e diventava bello come un angelo e le rocce si scioglievano nei torrenti, si stava trasformando, entrava nel mondo dei fenomeni di cui gli parlava il nonno, gli alberi correvano all’indietro, il sole correva all’indietro e il mongoloide ne inghiottiva i raggi nella bocca spalancata, i fiumi correvano all’indietro e il mongoloide nuotava fino alla sorgente dei suoi giorni, e il giorno dopo lo trovarono nel bosco, pendeva dal ramo di un albero, i cinghiali gli avevano divorato i piedi, metà di una gamba e parte del bacino e i suoi escrementi erano luminosi.
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[Questi due brani di Guido Caserza sono tratti dal romanzo inedito Storia della mia infanzia ai tempi di Silvio Berlusconi. Rabelais e Boris Vian hanno congiurato in questra prosa.]
[immagine di Roland Topor, Les quatres jambes da 1.bp.blogspot.com/_WoIyNH48Eec/SPtnfwpMU2I/AA]
E’ un racconto scritto in una lingua sorgente, di favola, carnale e poetica. Il lettore chiamato come compagno sul cammino della storia. Inizio la lettura, un lampo di tristezza attraversa il mio cuore, il lampo illumina l’albiccoco ammalato dal morte della madre, la natura in ramificazione del dolore dell’orfano. Il corpo materno occupa la natura, anima un bastone in una magia strega. La lettura diventa fantasia, salti, a l’improvisto. Il corpo nel suo splendore e nella sua realtà. Sessualità
prodigiosa.
L’escremento e il sangue sono materie solari della scrittura. Il ridere coincide con il godimento.
La scrittura è magnifica.
Infatti, leggendo leggendo, a loro due pensavo, a Rabelais e Boris Vian…
ad ogni modo non male non male…e sono molto curioso di ..leggere come va a finire con berlusconi e il suo gemello!
Grazie Véronique per il suo commovente commento, davvero. E Grazie a Salvatore per le sue incoraggianti parole.
gc
Ciao Guido, spero che alla fine tu abbia trovato un editore per il tuo scritto. Lo merita.
uh uh, sono in attesa, grazie, nulla di sicuro, grazie, ma quale Federico sei? ne conosco più di uno….