Il grande regno dell’emergenza
di Alessandro Raveggi
Betta per fortuna non la scovava, non doveva salvarla. I bambini erano troppi e incoerenti, non poteva salvarli. Scontrosi come atomi bombardati da quella pletora di stanze piegate, e il mondo attorno che s’incaparbiva, chiudeva il conto con una linea netta e desolata in fondo al dare e avere. Betta avrebbe potuto sottrarsi da sola alle macerie, almeno per stavolta, con l’aiuto delle sue braccine violacee. Sarebbe stato un segno di maturità. Avrebbe sporto il capetto da tartarughina troncando un coccio più friabile, stirato il muso in una ruga, scostatasi di dosso una doccia di calcinacci. Solo dopo aver fatto scorrere fuori dal cumulo le sue poppe asciutte, avrebbe steso l’obiettività della sue gambe mozze. In aria, in un luogo neutro, simile a quello dell’edificio, ma senza strozzatura e gravità.
I bambini erano invece pesanti, tesi alle spalle, geroglifici, annodatissimi nel risveglio di quelle urla sfasate, anche se Ruberti li scioglieva e cercava d’animare. Gli avrebbe fatti anche cantare in coro per poter assorbire le urla che puntellavano ogni angolo dell’edificio. O avrebbe dovuto, a mali estremi, fare alla svelta quel sogno spugna, quel sogno aspirante, quella visione rastrello, che ripulisse il mondo da quella catasta di scaglie, di calcina e ferracci ossidati, con Betta ficcata sotto, che poi rispunta su ogni volta, monca. Farla magari nel bagno dell’edificio segnalato in verde al secondo piano, la proiezione liberante, senza additivi o barbiturici, tenendosi le meningi come i superuomini, che cambiano in un vortice mentale le crettature. In un angolo piastrellato di rivincita personale, ingolfettato, con la pancia dura che si protende dalla cinghia di finta pelle. Prodigioso e focalizzato come una lettera di rettifica al Provveditorato agli Studi. Invece stava lì a zampettare su e giù per tutte le scale, spoglio di visione e scisso come tra gli scomparti di una storia inconciliabile, trafelato a distribuire i suoi alunni dentro e fuori le stanze, come risciacquando dei panni, a cercare un punto d’equilibrio per le loro schiene, che non fosse troppo compromettente. Era lontano anche dall’ipotesi di una salvezza, se ne prendeva gioco. Si era persino alleato con alcuni più bolsi e cinici, cisposi in viso, poco compassionevoli, in atteggiamento di perenne scherno. Anche lui, il maestro Ruberti con addosso l’indifferenza inquieta di quelli, la fissità della cellulina di gesso con gli occhietti vispi sulla lavagna, con cui aveva spiegato la meiosi in mattinata.
Era il sogno del gesso, quello redimente, che aveva già percorso. Ed era un sonno perenne, sotto una coltre, abraso. Ricco di occhietti, palpebre sulle celluline della lavagna. Se fai il maestro, aveva pensato prima di fare la Domanda, se ti vuoi far spiegare invece di spiegarti, hai l’opzione d’una provincia disposta a cullarti, una cuccia periferica di feltro grezzo, che ti va giusta addosso. Da decenni ha fatto il maestro di Scienze, parlando con analogie buffe, questo per non agire sui corpi altrui, nella speranza di salvarli, o magari, doverli terminare: salvarli altrimenti. L’alleanza con la scienza degli occhietti di gesso, dei diminutivi. Come antidoto contro il sogno ricorsivo di Betta, e i suoi moncherini al cielo, intamponabili nella Bologna scolorata.
Ogni stanza dell’edificio che passavano in rassegna di fretta, era una solitudine ridotta all’osso: nella prima stanza all’ultimo piano, ricomposto a caso quel plotone di alunni in una boscaglia sbilenca di umori acidi, non c’era Betta, ma un pelato, infarinato in viso. Aveva preso un pennello, forse dai suoi attrezzi, stava spingendolo sulle pareti in frantumi, circoscrivendo dei concetti ridondanti, per ricomporre il discorso ora ai minimi termini sulla sua lingua siciliana per schiocco. Rapido, proprio, allegorico, venuto dal futuro a recriminare contro l’accidia umana, forzando sulle ginocchia. L’inchiostro si dosava grumoso dall’orlo del gomito spezzato dal pennello. Ruberti, tenendosi sullo stipite, s’invaghì ancora della sua, d’ideologia, mentre il pelato si consumava sulla propria. Si tese in alto, contandosi le pulsazioni al collo: salvare e non salvare dipendevano entrambi dal caso, la stessa sabbia che ti fischia tra le dita ritornando nell’indistinto, a mano aperta, o a pugno chiuso, che sia. Il caso impone una scelta inutile. Ma, o scegli la scelta, e allora ti devi scontrare con la catastrofe ricorrente, oppure hai il sedativo: il diminutivo, il vezzeggiativo. Ruberti ha scelto il sedativo più di dieci anni fa, la mano aperta, davanti a Betta monca, alla sua visione dove tutto crollava vestito di grigio, addosso al suo corpicino friabile. E tutto quel grigio dipendeva dallo sguardo, dal sapersi fissare, da un’ipotesi di salvezza che Ruberti inseguiva, per trattenerla, e ora non più… Se lui faceva sbocciare gli occhi alle soglie del primo incubo, il cascame iniziale del suo appartamento si spalancava in un esclamativo sonoro, e lui si trovava a scendere le scale della Facoltà. Passeggiare poi per i portici deserti di Bologna. Col camice ancora addosso. Non proprio passeggiare. Incespicare con un magnetismo alieno. Un filo invisibile che si scuciva tra i pantaloni di flanella. I portici ansimavano in parallelo. Nascosti dietro di essi tutti i cittadini, immersi nell’odore della mortadella che corteggiava il pane oleoso, gli bisbigliavano “Bån dé Dotor Ruberti, Cum stèt? Bån dé. Vlair un cafè? Ch’al scûṡa, mo la fè le appendiziti, Dotor Rubé?”. Presto i portici vennero giù agitandosi come costole sui polmoni. Incrinati da tutti i cittadini cambiati di segno, in una tagliola al cuore. Centro di quella vertigine che aveva sentito prima dell’esplosione in aria. E del tremore a tamburo. Quindi l’asse terrestre giù a scivolo. Era finita così, la prima visione. L’occhio sbocciato e sudato sulla carta da parati svedese della sua camera.
La seconda stanza: una solitudine ennesima, tra le scosse, per i suoi alunni pietosi in caduta libera, che lui cercava d’affrancare. Percorso il passaggio congestionato dall’ultimo al piano inferiore, Ruberti c’arrivò trasportando il gregge come profeta, smagliato il viso itterico, levitando sui corpicini verdognoli e catalettici. Le finestre di legno erano spalancate, ampi fianchi di un grosso animale strozzati a dei ganci. Si sentiva come la parete lattea esterna del sole venisse bucata e succhiata dal frastuono della piccola città inodore, riversata tutta per strada a zampettare. I bambini volevano uscire, si slargavano alternativamente la bocca e il collo del golf, in piccole voragini sbavate, ma volevano anche vedere, ancora vedere, ancora. Altri imploravano solo l’uscita a mani giunte, strette sulle labbra. Ruberti non poteva salvarli: questo era contrario al suo lavoro, e da oramai vent’anni.
Un giovane macilento con i pantaloni quasi alle ascelle, delle bretelle finissime e un pizzo a saetta, mimava a stento nella seconda stanza il braccio d’un giradischi, il giradischi sconnesso che aveva proprio sotto il suo, di braccio, in bilico sopra un piedistallo sopravvissuto all’esplosione che gli aveva fatto la morte silenziosa attorno e una speranza d’amplificazione. La registrazione era sciupata, cominciava a slabbrarsi e scampanellare senza più melodia, in un ventriloquismo roco tra il giovane, il giradischi, e, pareva, tutte le voci vicine e lontane della sua famiglia. Doveva essere friulano, per le palpebre piccole, rosee e contuse, occhi minimi e questuanti, che però ondulavano in un liquido giallastro alle risposte del sisma collettivo, scossoni alle sue pretese, a quelle delle sua famiglia. Si protese, sicuro per essere salvato, e Ruberti si voltò verso il corridoio, per non rischiare di doverlo salvare, anche solo con la lacca indulgente di uno sguardo. Il ventriloquo ricominciò tutto mogio a fare lo stesso di prima. Ruberti disse ai suoi alunni che era meglio affrettarsi. Quella stanza era ancora priva di Betta, i suoi occhi a mandorla che gli facevano sfuggire le iridi fin nell’oscurità delle orecchie, quando strusciava sul ginocchio di lui, e si sdilinquiva tutta di tremori naturali.
Una catastrofe è sempre una vertigine personale, una maniera di non sentirsi partecipi al mondo, volendolo pur amare, pensò Ruberti, mentre guardava insistentemente la porta del bagno appena intercettata, e si domandava del contro-sogno per Betta, il sogno mirino e spatola, tutto focalità e prodigio. Una questione di solitudine estrema, la catastrofe, bizzarro idealismo. Si sentì di giocare come a rimpiattino con i suoi allievi, spingendoli dal sedere, scacciandoli come galline nel corridoio, schizzando poi lui a placcarli, per non sentirsi spaiato. Scivolò su quel pavimento maculato di pietre, facendo gincana tra le lettighe che già erano entrate in azione tra una stanza e l’altra, grazie a dei tipi concentratissimi, svizzeri. Un’allieva particolarmente adulta di testa, per non dire mortalmente noiosa, si aggrappava al margine di una porta come a tenerlo. Gli squadernò una facciaccia malevola, e lo redarguì a tenere concentrazione sulla nuova stanza, dove era appena avvenuta una detonazione: che lì sì che avevano bisogno di attenzioni, di viveri, trasfusioni mentali.
“Io a te sicuro non ti salvo” le disse Ruberti, avvicinandosi con un dito, terrorizzandola.
“Parli con dignità” gli aveva smaniato Betta, tutta pubica nel letto al pomeriggio bolognese, mentre la mano di Ruberti le perlustrava a inventario i peletti irsuti di una coscia. Il fiato di lei sapeva di amarena viziata, succhiata dal ghiacciolo.
“Parli come riparlassi ad eco, dal punto fisso, vecchione.”
“Hai il doppio della mia età, e non hai ancora fatto carriera. Vecchione!”
Ma se nel primo sogno, nella matrice che veniva spinta giù a battere il grugno burbero, un vuoto coerente aveva dominato, nel secondo lei era spuntata con la sua testolina, grattando un angolo sfuocato dell’attenzione di Ruberti, vicino ad una fontana di cui si vedeva solo la illesa vaschetta superiore con lo zampillo essiccato. Era quella una mattina riscaldata come dallo sbuffo di una vacca, quasi umana, anche se, per il corpo opaco di Ruberti, che suonava l’incubo nelle viscere, era una notte prosciugata, dopo la sera in cui Betta si era dileguata di nuovo, con l’attitudine del suo pube, sempre esposto oltre le mutandine troppo strette, a prendere il volo su quella fionda verso le mani di lui. E nel terzo sogno lei le aveva ripetute al contrario, quelle tre frasi secche, le tre linguette adesive, prima di abbandonarlo ancora, da sotto le macerie che conquistavano la città rendendola totalmente appenninica, rocciosa e restia.
Non c’era molto da vedere, nella stanza indicata dalla facciaccia dell’allieva saputella, dopo quel botto: se non la danza intermittente di una serie di arti, gomiti e legamenti che si mostravano e nascondevano da dentro una nube soffice, come pezzi di feti involuti che uscivano dal bozzo di verme. Tutti i bambini vennero attratti immancabilmente da quell’orrore fatto arte, sorprendendo ancora il maestro, nonostante il tempo e gli spazi stessero terminando, Ruberti stesse cercando di razionalizzare, e alcuni fossero già deboli, sfiancati. Quel talco denso e uggioso era forse, per loro, viatico della tanto agognata uscita. Ruberti li placò mettendosi davanti, quasi eroicamente, e s’incipriò il naso, guardando dentro se poteva esser tale, l’uscita, così eclatante. Sollievo che non spuntò la testolina di Betta da quella spuma soffice. Sentì solo un accento campano che uggiolava come sirena senza pile nel mezzo della nube, qualche tosse sforzata, e il dolore acuto e caldo del manrovescio involontario che gli fece perdere l’equilibrio, complice il pavimento che tremava da tempo. Cadde di groppa al suolo, interrompendo la corale dei crolli.
Nel quarto sogno, o era il quinto o sesto, Betta si era tirata un tanto su con le braccia, mentre l’attenzione di Ruberti s’avvicinava ancora come uno strillo al cinema, fatto a imbuto. Lei aveva poi osteso i due moncherini, un’inferriata riversa lì vicino le aveva tranciato le gambe dal ginocchio in giù, ma lei ghignava tranquilla e diceva ancora Vecchione, e Parli come…. Al contrario, il discorso era diventato melanconico, irreversibile, “Vecchione” aveva un punto d’interrogazione, era un invito ad entrare con lo sguardo, e non a serrare, nel suo vortice di parole rotanti. Prima duro, poi melanconico, scaduta l’ironia. E nel settimo o ottavo sogno, Ruberti era una specie d’occhio prensile, senza più camice e incespicare, non sapeva se salvare o meno, se operare o meno, con quelle mani sfarfallanti attaccate ai bordi della pupilla, inservibili. Sbatté ogni notte, nei successivi, con quella mostruosità gigante sui quei tranci rossastri, come una mosca su di un vetro. La Betta si mostrava contenta, mordeva le labbra all’amarena, pronunciava le tre frasi linguetta, il suo pube, senza mezze gambe, era puro e protagonista. Lei, sulle sue gambe intere, sarebbe ritornata il giorno dopo, a svegliare il cagnone umido di Ruberti nel letto, avrebbe fatto crollare tutto di nuovo a suon di grida poco credibili, e avrebbe rimostrato i moncherini la notte, nel giogo metallico diurno e notturno della colpevolezza, se solo lui si fosse trastullato ancora con l’idea, l’ipotesi di una salvezza.
Ruberti si riprese tra le manine dei suoi alunni, che lo stavano rianimando a pizzicotti, e alcuni, si accorse, pure a sputi caduti lenti e pastosi. Attorno facce di altra gente, affaticata e tesa, che poteva avere tratti simili ai suoi operandi di un tempo. Li scrutò bene, nell’intermittenza dei loro fischi del petto. Fu contento di aver scelto la soluzione. La soluzione precedente i vezzeggiativi di gesso, gli occhietti sulle cellule, fu lasciare i guanti al Dipartimento di Chirurgia, appassiti su di un tavolo da operazione, nonostante tutto quello che si presentasse ad un chirurgo trentenne con un cognome propulsivo, che indossa serietà come il camice stirato maculato di sangue, e per quello deve nascondere la relazione con una quindicenne. Fare finta che a ricevimento passi una cuginetta, alla quale si può dare un pizzico sulle poppe solo dopo aver socchiuso la porta. Mentre lui dentro suda freddo alla scrivania, e butta giù il groppo in gola, perché si è reso conto che non può vedere più corpi devastati, da scoperchiare o chiudere, da salvare, non più, dopo che Betta gli mostra i moncherini, ripetutamente, in uno spazio desolato composto delle sue costole crollate sul cuore. Un cuore-bulbo che non desidera altro che ritornare a quella smania, e non poterci fare. Tutti quei corpi slabbrati erano la sua colpa, avevano la faccia ovale di Betta quando entravano e uscivano dalla sala operatoria. Aveva provato anche col tiopentale, anestetico a lento recupero, per rientrare furtivo con tutto il tempo adeguato nella visione deteriore, lui redimente, in punta di piedi. Ma non ci si entra a volontà, ma sotto una coperta provinciale ci si può sonnecchiare bene, senza crettature: e così aveva fatto, prendendo il gessetto in mano, disegnando occhietti alle celluline nello spazio sicuro di una lavagna nera.
Un altro tonfo richiamò l’attenzione su di un’altra stanza, i bambini si precipitarono a falcate impostate, da bambini, distolti dalla mancata uscita e dal corpo di quel leader solidale, che intanto si era rialzato. La calce scodò fuori in un lembo, poi si aspirò di scatto e quella stanza si presentò protesa verso il fuori, e dentro cominciò come a nevicare a fiocchi grossi. Ruberti, appena arrivato, pensò che non c’era comunque niente da vedere, e la neve era un palliativo, anche se c’era una schiera di angeli, con occhiaie azzurrate e ali troppo estese, prostrate di neve. Gli angeli si toccavano spaesati dietro le spalle il punto dove l’ala si stava piegando, e lamentavano in coro “Fate presto”. Più che angeli parevano anfibi spogliati del loro habitat. Ruberti rimase lì davanti stecchito, stringendosi la giacca sulla pancia esposta, mirando oltre la schiera, spolverandosi, mordendosi le guance sotto i denti. “Fate presto”. Guardò verso l’architettura della stanza, retta solo dalla parete della porta d’entrata e da due esili strappature di muro ai lati. La parete esterna esplosa mostrava ora lo scorrere di molti lampi, ricordi estratti degli angeli-anfibi bruciati, come lembi di carta in una cenere, in una visione aerea della bragia dove cadevano. Non vi riconobbe Bologna, non vi riconobbe la fontana di via San Giovanni, non vi riconobbe il punto esatto dove il capetto della Betta spuntava ogni notte, rompendo il coccio, mostrando il moncherino.
Fu spintonato da uno che s’era messo in precedenza sulla sua scia. L’uomo entrò nella stanza con un lungo pastrano un po’ macchiato di neve sporca sulla coda, una sorta di detective dal passo un po’ bigotto, cautelare, la testa riccia, piccoli denti tesi che valutavano lo spazio, le infossature degli occhi non livide, ma cave, da calavera messicana. La schiera degli angeli-anfibi si serrò, oscillò ubriaca, per quanto poteva per il peso della neve, oscillò in un “Noi sappiamo” contro il Rappresentante: così lo nominò Ruberti in testa, per via dei denti piccoli, telegrafici e l’aria da officiante. L’uomo alzò il braccio destro e, piegando il dito in aria, come piegando un grilletto, spense lo spazio agli occhi dei bambini. Spense tutto.
Gustare il piano terra: l’oscenamente confortevole. Un po’ di acqua, qualche merendina, cibo o chewing gum, tirare fuori dalla stagnola il panino con la frittata. Vennero quasi placcati davanti al banco caotico del bar da un tizio in tunica romana, che coi suoi sandali squittenti cercò di sedurli in un balletto barocco, incrociando i talloni. Dietro di lui, c’era la sua stanza, l’ultima per ordine d’apparizione, vicino ai magazzini, in un senso anacronistico di quella catabasi, la Pompei anno 63-anno 79 d.c.. Che nessuno doveva aver visitato di frequente: la catastrofe lì era diventata storia trionfale, belletto. Ruberti inciampò nel tranello e si sporse: non era troppo male quella lava che colava da una parete come pelle di dragone fibrillante, col solito effetto di agonia spasmodica del suolo delle stanze, che in quella cigolava un po’, forse dimostrazione d’una antichità involontaria. Ma niente, niente moncherini, niente Betta, niente pube in aria e niente cocci in terra, solo la lava che smerigliava tra due colonne doriche, e il soffitto che si illuminò di rosso intenso sulla testa del pompeiano con le guance truccate da pupazzo beone. Faceva molto caldo per i faretti filtrati e cominciò a proporsi puzza di bruciato. Non male quella stanza, ripensò Ruberti, peccato per la sua posizione fuori dal tutto, fuori tempo massimo, a mo’ di souvenir.
“Chissà cosa diranno i politici di tutti questi effettoni, no?” disse poi alla cassiera.
“Può trovare la lista dei finanziatori dall’altra parte, all’entrata, signore” le rispose lei a testa bassa, mentre contava dei soldi con il tocco del pollice.
“No, per amor di Dio. Tornare indietro, tzé. Faccio un buon lavoro. Buona giornata.”
“Come, scusi?” gli disse lei da dietro il vetro, con una mazzetta in mano.
“Faccia. Faccia, volevo dire. A presto.”
Si lasciò alle spalle il cartello Museo Memoriale delle Catastrofi Naturali. Quando Ruberti era passato lì davanti con l’A112, aveva implorato, picchiando quasi la fronte sul volante, che non venisse assegnato per una gita in quella nuova attrazione coscienziosa in città, narrazione museale di ogni terremoto rilevante della storia italica. All’inizio, quell’assegnazione l’aveva presa come un’assegnazione del destino. Poi s’era ricordato del sedativo, del vezzeggiativo, di quella coperta grezza e coerente che era la provincia, e la scuolina nel suo centro esatto, come il palo centrale di una tenda da camping. Perché il destino si poteva trovare in quel tepore, ed era sempre buono: ti salvava senza chiedertelo, senza guardare pietosamente dove avesse gettato la coperta di un aiuto, senza preferenza, sottraendoti da quel grande regno dell’emergenza, singolare e colpevole, di cui Betta era diventata la regina monca e lui lo schiavo bulbo, il creatore ubbiato e il pernio storto. Stavolta ce l’aveva fatta, s’era annoiato e sguaiato come un bambino. Era sicuro che quei quindici anni di pube e occhi a mandorla, di linguette di parole vuote e giochi con lo sperma tra le dita, non sarebbero apparsi più, a rosicare l’osso del piede della sua solitudine che tremava con la terra.
“Che fine hai fatto, Betta? Ti si son cicatrizzati i tuoi moncherini? Sei anche tu ora vecchiooooona!?” si disse fra sé Ruberti, ridacchiando un po’ sadicamente, mentre montava in macchina, dopo essersi gingillato con la solidità dell’asfalto e la liberazione dei bambini verso padri e madri. Si strofinò la faccia con la salvietta umidificata che l’addetta in tailleur gli aveva donato all’uscita. Salutò qualche genitore più alleato, strizzando gli occhi assieme allo stomaco affamato, raccolse i compitini -non poteva chiamarli che così, vista la loro semplicità didascalica- i compitini sulla mitosi, caduti in fondo al retro del sedile, senza farsi vedere dai suoi alleati. Non poteva permetterselo. Avviò la macchina e si rimise sotto la coperta grezza, sotto il suo tunnel soffice che non raccoglieva la gravità delle scorie. Fino a che un genitore con un gilet ridicolo non gli si buttò quasi sotto le ruote della A112, risvegliandolo, battendo poi con la nocca sul vetro.
“È convinto che avrà imparato qualcosa della miseria umana?” gli domandò il genitore, baffoni alla tedesca e bocca rosa, mentre trascinava dietro di sé il figlio come un trolley.
“Quello che basta. Faccio un buon lavoro” rispose Ruberti, facendo cigolare il vetro con l’azione della manovella.
Ah, quel racconto… e bravo il Raveggi :)
Nessun appello per liberare i prigionieri della Fredoom Flottilla?
[…] Continua qui. […]
Io lo farei, ma non sono “proprietario” di questo luogo! Spero che il racconto ti abbia fatto venir la rabbia adeguata per affrontare certe storie.
Ogni racconto a carne cruda come questo è un buon racconto.
Raveggi sembra addomesticare continuamente la sua lingua, per poi farla “divertire” come un criceto su una ruota.